Una questione di forma(t)
La pervasività neo-liberista nella vita pubblica, nel discorso politico e nel sistema educativo a partire da un’affermazione inconsapevolmente corretta della senatrice di Fratelli d’Italia Daniela Santanchè
Sia chiaro: per chi scrive, la senatrice Daniela Santanchè rappresenta la quintessenza del baratro culturale in cui si trova questo paese. Limitandomi alla politica e a una generazione tutto sommato ancora relativamente giovane (e quindi potenzialmente dannosa), sul podio insieme a lei metterei Danilo Toninelli e – a costo di essere banale – Matteo Salvini. Sono d’altra parte consapevole della parzialità di questa graduatoria, oltre che degli emendamenti cui potrebbe essere sottoposta considerando la nutrita schiera di figure politiche assimilabili al mio tridente personale. Santanchè ha anzi la capacità di riassumere e incorporare tutte le caratteristiche che trovo più fastidiose: arroganza, saccenza, ostentazione, millantata superiorità, tendenza ad avere come unico punto di riferimento il modello berlusconiano di società, politica e condotta di vita. Difficile pensare a qualcosa di peggio.
Mi sento dunque un po’ a disagio a sostenere che Daniela Santanchè, in uno dei peggiori programmi tv degli ultimi anni, ha detto una cosa che – se espunta da tutti i tantissimi significanti connessi e soprattutto se decontestualizzata dalla sua narrazione e dalla sua retorica – è condivisibile. Mi riferisco ad alcune sue affermazioni durante la puntata dello scorso 2 febbraio della trasmissione televisiva “Alla lavagna” (Raitre), in cui presunti vip più o meno famosi (spesso esponenti politici) tengono una lezione a diciotto bambini di età compresa fra i 9 e i 12 anni su temi rispetto ai quali il circo mediatico li ha eletti a esperti e/o simboli. Il picco di attenzione per questo format, fortunatamente giunto (momentaneamente) al termine, si ebbe in seguito alla prima puntata che aveva avuto come protagonista il ministro degli interni. In particolare, si ricorderanno le polemiche relative alle sue spiegazioni del concetto di sovranità, la difesa rispetto alle illazioni di razzismo nei suoi confronti e soprattutto la foto finale che ritraeva – a fianco degli altri bambini sorridenti ed entusiasti – un piccolo dissidente, defilato, rabbuiato e con indosso una maglietta rossa.
Prendendo spunto dalle parole di Daniela Santanchè, questo testo si divide in due parti. Nella prima esporrò il mio (imbarazzato e ironico) endorsement per la senatrice di Fratelli d’Italia; nella seconda rifletterò invece sulla disgraziata esistenza di un format come “Alla lavagna”. Entrambi gli aspetti sono paradigmatici dell’onnipresenza neo-liberista, anche e soprattutto in due settori nevralgici della vita pubblica: la politica e la scuola.
Da Karl Marx a Daniela Santanchè
Nella sua lectio ai giovani alunni Santanchè dice quanto segue: «Il denaro è l’unico vero strumento di libertà. I soldi servono a essere liberi. Chi paga comanda». Aggiunge a questa osservazione un’altra considerazione di genere: «Lo dico a te che sei una donna: pagare i propri conti vuol dire comandare. È un grande strumento di libertà, il denaro». L’analisi di Santanchè, a mio avviso e temo a sua insaputa, è assolutamente valida.
Karl Marx diceva una cosa molto simile quando sosteneva che chi comanda nei rapporti di produzione sono coloro che detengono i mezzi di produzione. Certamente Santanchè non aveva alcuna intenzione di inserire la dimensione del conflitto (di classe) in questa sua analisi. Eventualmente le interessava inneggiare alle future sorti et progressive del capitalismo, alle sue magiche capacità di allocazione delle ricchezze, alla natura invisibile della mano che governa questo sistema e ovviamente alla predestinazione e superiorità della figura dell’imprenditore rispetto alle altre categorie sociali. Tuttavia, al netto di tutto questo, la “breve” riportata dai giornali è stata sbrigativamente criticata in modo unilaterale, mentre dovrebbe essere presa sul serio da quella sinistra che ha dimenticato l’importanza del denaro e di un’equa redistribuzione della ricchezza concentrando invece la propria attenzione (nonché la giustificazione delle sue ormai infinite sconfitte elettorali) su elementi come la narrazione che non funziona, la deriva populista e altre amenità di questo tipo.
Nel ribadire il mio plauso alle capacità analitiche di Daniela Santanchè, mi limito soltanto a farle un appunto linguistico: la parola “libertà” è forse eccessiva; ma sostituendola ad esempio con “dignità” e – lo ripeto all’infinito a scanso di equivoci – decontestualizzando la frase e soprattutto sforzandosi di dimenticare chi l’ha pronunciata, penso che il concetto in sé sia corretto. Il denaro è strumento di dignità, la dignità deriva dal lavoro, l’articolo 1 della Costituzione si basa sulla dignità, sul lavoro e per conseguenza sull’autosufficienza economica dell’individuo. Il problema è semmai il modo in cui si intende la distribuzione del denaro e l’allocazione delle risorse. «Comanda chi paga» dice Santanchè. E anche qui, ahinoi, ha ragione. Più che «comanda chi paga» avrebbe dovuto dire «comanda chi detiene i mezzi di produzione e la possibilità di influenzare, tramite il loro utilizzo, le vite individuali e i processi sociali»… Ma va be’, si tratta appunto di Daniela Santanchè!
Ciò che occorre – ormai è stato detto persino a Davos nel gotha neo-libersista – è una più equa redistribuzione di ricchezza e potere d’acquisto e un aumento delle tasse alle fasce più ricche della popolazione: solo in questo modo non saranno così pochi a comandare così tanto.
Spostandoci velocemente sul piano più “sovrastrutturale”, anche la seconda parte della criticata affermazione di Santanchè – quella connessa alla questione di genere – mi sembra condivisibile: l’emancipazione femminile deve essere (anche e soprattutto) emancipazione economica, cosa che ancora spesso in Italia non è. Certamente il machismo e il maschilismo vanno combattuti a livello culturale e su più fronti; tuttavia, la variabile economica è imprescindibile ed è strettamente connessa alle altre forme di potere androcentrato.
Daniela Santanchè ci indica involontariamente la via da seguire: più redistribuzione di denaro a chi davvero ne ha bisogno, dai poveri alle donne. Questa è l’unica (o per lo meno la principale) ricetta contro il vangelo neo-liberista. Questo è anche il modo in cui, dagli Usa alla Spagna, dalla Francia all’Inghilterra, la sinistra sta – seppur con fatica – riconquistando terreno.
La scuola è una cosa seria… Anzi no!
Vengo al compito ben più piacevole di attaccare apertamente Santanchè, criticando al contempo la trasmissione di cui è stata ospite. Ritengo preoccupante il format “Alla lavagna” e la sua diffusione sulla televisione pubblica. Lo trovo preoccupante per diverse ragioni: la spettacolarizzazione dell’educazione scolastica, la conseguente idea di un’educazione come aspetto sostanzialmente ricreativo, il fatto che chiunque possa mettersi in cattedra come se quello dell’insegnante (specie delle generazioni più giovani) non fosse il lavoro più difficile e importante nella nostra società. Sarà un caso, ma non è certo di buon auspicio che il format sia nato in Francia nel 2017 poco prima dell’elezione di Emanuel Macron, il quale si sottopose – come gli altri principali candidati – alle domande dei giovani studenti.
Tornando all’Italia, non solo Salvini e Santanchè ma anche altri personaggi più o meno discutibili sono stati ospiti della trasmissione; fra i tanti, ca va sans dire, anche l’ultimo membro della trinità evocata in apertura, Danilo Toninelli. La stessa lezione di Santanchè prendeva le mosse dalla polemica di quest’ultima con un’ospite della puntata precedente, Vladimir Luxuria, che secondo Santanchè avrebbe indottrinato i bambini tenendo una lezione su come diventare transessuali. Il fatto che, in nome della par condicio, sia stata data la cattedra a Santanchè veicola due concetti molto pericolosi. Il primo è che chiunque possa sempre dire qualsiasi cosa sulla base di un ipotetico principio “voltairiano”, trasformando dunque la par condicio in una sorta di “bar condicio” in cui l’unico obiettivo è rappresentare diverse opinioni, anche a costo dello scadimento nella chiacchiera da bar. Il secondo pericolo, ben più grande, è lo sdoganamento della classe scolastica come terreno di battaglia legittimo, dei bambini in età di formazione come pubblico neutro con funzione di spettatore a questa lotta muscolare fra due campane opposte, della riduzione dell’istruzione primaria a fenomeno da baraccone.
Oltre alle questioni di forma(t), vanno poi certamente considerati i contenuti. Uno di questi, espresso sia da Salvini sia da Santanchè, è talmente distopico da risultare difficilmente commentabile. Salvini a un certo punto dice agli alunni: «Studiate il giusto eh? Tanto ma non troppo». E Santanchè, similmente, auspica una scuola dove va bene imparare qualcosa ma che sia funzionale al mondo del lavoro, del profitto, dell’impresa. Siamo evidentemente davanti alla volontà di costruire – dall’interno – una narrazione e un’idea differente di scuola (e società) e di studenti (nonché futuri elettori) funzionale al sistema neo-liberista.
Posta questa deriva piuttosto drammatica veicolata dall’appello all’ignoranza e alla monetizzazione del sapere di Salvini e Santanchè, sono altrettanto ingenue le critiche giocate intorno al valore sempre e comunque emancipatorio dell’educazione scolastica, vale a dire le principali osservazioni mosse dalla stampa e dalla politica di (centro)sinistra alle affermazioni della senatrice Santanchè. Queste critiche cercano di ribaltare l’assunto secondo cui dovrebbe comandare chi detiene il sapere educativo e si occupa di istruzione, e non invece chi detiene il potere economico-politico. Su questo punto Ralph Dahrendorf, e tanti/e dopo di lui (e pure prima), ha sottolineato la non-neutralità del sistema educativo e il suo stretto legame con il potere economico-politico: chi possiede quest’ultimo ha la possibilità di influenzare il modo in cui le conoscenze (e anche le opinioni) vengono tramandate alle generazioni successive. La scuola non è un terreno vergine e avulso dal resto della società, ma sta dentro al modello neo-liberista: un innocuo appello a un maggior potere della scuola senza una riflessione più critica rispetto ai suoi funzionamenti e alle dinamiche di potere che tuttora la informano e la attraversano è quantomeno ingenuo.
Il neo-liberismo a scuola, in politica e in tv
Quello di cui ci sarebbe bisogno è invece una capacità critica rispetto al presente (e al passato) a partire dai primi anni di formazione. Non solo la Storia dei vincitori, degli occidentali, degli uomini, eccetera, ma anche e soprattutto gli strumenti per lo sviluppo di una personalità in grado di applicare il “dubbio” sugli insegnamenti scolastici e in seguito sui modelli veicolati dal neo-liberismo e dalla società dello spettacolo. Solo in quel modo le generazioni future possono formare i dovuti anticorpi a tutta una serie di assunzioni, a partire da affermazioni scellerate (nell’intento di chi le ha pronunciate e non invece nella loro paradossale correttezza) come quelle di Daniela Santanchè. Quello di cui abbiamo più bisogno (forse l’unica cosa ancor più importante di una capillare redistribuzione della ricchezza) è una scuola che attacchi alla radice i presupposti su cui si fonda il neo-liberismo: l’auctoritas, il modello unico, l’etnocentrismo, l’economicismo, per citarne solo alcuni. Partendo da lì si potranno più facilmente isolare, disinnescare e liquidare interventi come quelli di Santanchè, sperando inoltre che la formazione di coscienze individuali più critiche possa trasformare i registri linguistici e le visioni del mondo adottate dalla politica (essendo appurato che il percorso opposto non è all’orizzonte). Una scuola anti-liberista per una politica e visioni del mondo anti-liberiste. In un forse ingenuo anelito di ottimismo, l’auspicio è che anche il mondo dell’intrattenimento e dell’informazione possano contribuire a operare in questo senso, a partire dalla tv che ancora detiene un certo peso in Italia soprattutto presso alcune fasce di popolazione. La televisione è rinomatamente uno dei bracci armati del neo-liberismo: la sua stessa nascita e il suo sviluppo sono da sempre stati funzionali al potere. Vi sono certo delle eccezioni; ma le eccezioni, si sa, confermano una regola. Potrà sembrare ingenuo (o, peggio ancora, riformista) l’auspicio di una televisione migliore. Credo tuttavia che il punto sia la sfida generale al paradigma dominante, l’attacco senza confini alla sua impalcatura e modo di funzionamento, a partire dalla scuola, passando per il sistema di spettacolo/informazione e arrivando finalmente alla politica.
*Niccolò Bertuzzi è ricercatore alla Scuola normale superiore e membro del Centre on social movement studies.
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