
Una repubblica fondata sul precariato
Oggi si subisce uno storico attacco ai nostri diritti nei luoghi di lavoro. Ma come ci spiega Eloisa Betti nel suo nuovo libro, la precarietà ha radici profonde nella storia repubblicana
Sfruttamento e precariato hanno strutturalmente e storicamente caratterizzato il mondo del lavoro in Italia. La classe lavoratrice ha sempre, reagito conquistando stabilità, aumenti salariali e diritti fuori e dentro il perimetro della fabbrica. Il capitale, dal suo canto, ha risposto con forme di ristrutturazione produttiva che hanno riaffermato, anche grazie all’appoggio delle politica, ipersfruttamento, sottosalario, cottimo. Ne discutiamo con Eloisa Betti che ha ricostruito questa storia in un saggio.
Gli scioperi delle lavoratrici a domicilio, delle gelsominaie, dei medici precedono il ciclo di lotte operaie avviato nel 1962. Nel tuo Precarie e precari, una storia repubblicana (Carrocci, 2019) emerge come la politicizzazione della classe lavoratrice fuori dalla fabbrica e lontana dal perimetro geografico della grande industrializzazione abbia giocato un ruolo determinante nel rendere egemoniche le lotte che si sarebbero sviluppate in fabbrica di lì a poco. È una ricostruzione coerente?
Il libro prende in esame non casualmente le lotte di categorie di lavoratori e lavoratrici ai margini del sistema fordista negli anni del boom economico (gelsominaie, lavoratori edili, lavoranti a domicilio, aiuti e assistenti ospedalieri), per evidenziare come proprio da queste categorie derivasse una richiesta di stabilità generata sia dalle aspettative innescate dal miracolo economico sia dal confronto con altre categorie più garantite. La stabilità nel posto di lavoro inizierà a diventare realtà anche per queste ultime solo con lo Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970, come evidenziato da molti giuristi. Se nei primi anni Sessanta c’è stata una forte ripresa dell’azione sindacale nel settore industriale in fase espansiva, non vanno dimenticate le condizioni ancora difficili sperimentate dalla classe lavoratrice in quella fase. Anche se dopo il 1956 si ridimensionò la forte repressione anti-sindacale che aveva portato all’incarcerazione di centinaia di militanti/e e sindacalisti/e, i licenziamenti discriminatori, che colpivano soprattutto i membri delle commissioni interne e gli attivisti delle fabbriche medio-grandi, verranno proibiti solo dopo il 1966. Multe, sospensioni, mancata rappresentanza sindacale continueranno a caratterizzare la condizione lavorativa ancora negli anni Sessanta, senza sostanziali miglioramenti salariali e con un aumento significativo di ritmi e carichi di lavoro.
Dal libro emerge chiaramente la visione di classe del femminismo dell’epoca: l’azione rivendicativa, di inchiesta, di lotta era caratterizzata da un’elevata conflittualità, senza lasciare alcuno spazio alla testimonianza. Quanto si ritrova di questo approccio nell’attuale sindacalismo e nel movimento femminista?
Le donne emergono a più riprese nel volume come soggetti consapevoli e che rivendicano una maggiore stabilità lavorativa, denunciando la condizione di precarietà e crescente disoccupazione di cui, spesso in concomitanza con le crisi economiche, sono le prime vittime. Tre le generazioni di donne che si mobilitano contro la precarietà: negli anni Sessanta, sindacaliste, politiche e donne dell’Unione donne italiane; nuovamente negli anni Settanta, le ragazze dei movimenti studenteschi e neo-femministi; infine, nel nuovo millennio, donne giovani e meno giovani appartenenti ad associazioni femminili, collettivi e gruppi auto-organizzati. Le donne sono anche tra le prime a proporre una elaborazione politica che vede nella precarietà e nell’assenza di stabilità un limite all’auto-determinazione: proprio inchieste e reportage svelano l’esistenza di dimissioni in bianco negli anni Cinquanta-Sessanta e le condizioni delle lavoranti a domicilio degli anni Sessanta-Settanta. Gli anni Dieci del Ventunesimo secolo hanno mostrato un rinnovato attivismo delle donne, la capacità di mobilitarsi a vari livelli sia nei luoghi di lavoro che nelle piazze. La grande manifestazione dell’11 febbraio 2011, indetta dalla rete Se non ora quando?, la grande manifestazione di Verona del 29 marzo 2019, lanciata dal movimento Non una di meno, hanno evidenziato la possibilità di unire soggetti diversi, dall’associazionismo al mondo sindacale, per difendere i diritti delle donne e opporsi a una visione anacronistica del ruolo della donna nella società italiana. La denuncia e la lotta contro la precarietà è senz’altro un tema che appartiene all’azione dei movimenti femministi dell’ultimo decennio, come emerge dalle numerose azioni promosse direttamente o a cui hanno partecipato gruppi che afferiscono all’ampia galassia del femminismo del terzo millennio.
Lavoro a domicilio, cottimo, iperfrantumazione dei contratti di lavoro, falsa stagionalità hanno caratterizzato tanto il periodo dello sviluppo industriale quanto le fasi di ristrutturazione capitalistica come quella attuale. In che modo si spiega la necessità di mantenere queste ampie fasce di ipersfruttamento in due fasi così diverse dell’accumulazione?
L’utilizzo di rapporti di lavoro e forme di remunerazione che comunemente definiamo precari, come il lavoro a domicilio e il cottimo, è sistematicamente legata alla volontà di comprimere il costo del lavoro, avere a disposizione una forza lavoro disponibile e ricattabile, scaricare su lavoratori e lavoratrici i rischi di impresa. Le indagini effettuate dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia mostrano chiaramente come la crescita abnorme del contratto a termine negli anni del boom fosse legata a un abuso sistematico legato a motivazioni, ancora oggi ricorrenti: mettere alla prova il lavoratore, poter licenziare in caso di malattia o infortunio, tenere i lavoratori in una condizione di maggiore soggezione, discriminarli politicamente e sindacalmente, eludere le disposizioni contrattuali collegate all’anzianità. Il lavoro a domicilio, ad esempio, costituì la base produttiva di settori come il tessile-abbigliamento nel periodo di massima espansione del sistema fordista, tra fine anni Cinquanta e anni Sessanta. Nuovamente, divenne l’ultimo anello della fabbrica decentrata, emblema della ristrutturazione industriale sviluppatasi a seguito del ciclo di lotte 1968-73 e dello shock petrolifero del 1973. Grazie alla ricostruzione del dibattito parlamentare e delle varie proposte di legge, il ruolo del lavoro a domicilio nella storia economico-industriale e sociale italiana emerge come elemento centrale, svelando la persistenza di una forma lavorativa che, lungamente considerata “arcaica” e “pre-industriale”, si adatta in realtà al mutare della produzione e degli scenari economici. Il lavoro a domicilio, tutt’ora presente nella realtà italiana, appare oggi una delle forme lavorative più diffusa nei paesi del sud del mondo nel settore del tessile-abbigliamento e non solo.
Tre rivendicazioni hanno attraversato la storia del movimento operaio: salario, orario di lavoro e stabilità lavorativa. Oggi che la classe lavoratrice coinvolge più persone, e non meno come vogliono farci credere, queste rivendicazioni vengono tacciate come eresie dai capitalisti e non sono neppure assunte come questione maggioritaria e irrinunciabile da buona parte del sindacato stesso. Perché secondo te?
La stabilità lavorativa venne considerata il presupposto indispensabile per lo sviluppo di quella società del benessere che, dopo le deprivazioni degli anni della ricostruzione post-guerra, caratterizzò il “trentennio glorioso”. Tale processo, che non arriverà mai a coinvolgere tutta la forza lavoro, si sviluppò negli anni del compromesso fordista-keynesiano e rappresentò un’eccezione propria di quel periodo storico. Il volume indaga le ragioni di questa eccezione nel contesto italiano, tentando di superare la visione economicistica che per lungo tempo ha legato inscindibilmente la stabilità lavorativa al positivo ciclo economico. Nel primo ventennio dell’Italia Repubblicana, la stabilità lavorativa assurse a valore sia nel dibattito politico-sindacale che nella legislazione sul lavoro ma fu il decennio che precede il 1968 a svolgere un ruolo centrale nel processo di costruzione del lavoro stabile in Italia. Un intervento politico-legislativo particolarmente avanzato e progressista, che vide la convergenza delle diverse forze politiche su obiettivi comuni, diede origine a un’azione riformista tra le più significative nel panorama europeo e internazionale. Su questa convergenza d’intenti si fondò la legislazione che negli anni Sessanta portò alla progressiva identificazione del lavoro standard con il contratto a tempo indeterminato (full-time), e alla concettualizzazione dei rapporti particolari di lavoro come qualcosa da disciplinare rigidamente per promuovere la stabilità dell’occupazione. La protezione di lavoratori e lavoratrici da rapporti di lavoro impropri ebbe un ruolo fondamentale per la riduzione delle forme di precarietà esistenti nel mercato del lavoro italiano negli anni del boom economico. L’agency degli attori sociali e politici, indagata a vari livelli, emerge quindi come determinante nella costruzione della stabilità lavorativa negli anni Sessanta e diviene altrettanto importante nel favorire un nuovo ciclo di precarizzazione nei primi anni del Duemila.
Lo dico da economista empirica, la bellezza del tuo libro sta anche nella capacità di mettere insieme una mole di fonti qualitative e quantitative preziosissime per afferrare i fenomeni socio-economici. Storicamente quelle fonti sono state la base su cui si è formata la conoscenza e l’azione politico sindacale. A me pare che oggi vi sia molta meno inchiesta. Un problema non soltanto per lo studio futuro, ma soprattutto perché la produzione di dati e statistiche rimane appannaggio esclusivo del capitale e dei suoi funzionari.
Il volume trae spunto da anni di ricerca negli archivi di associazioni femminili e organizzazioni politico-sindacali, che mi hanno consentito di creare un quadro interpretativo da verificare su altre fonti in primis la stampa periodica, gli atti di convegni e conferenze, le inchieste. Proprio le inchieste, tanto quelle edite che inedite, hanno consentito di ricostruire forme e livelli della precarietà in un’epoca in cui il fenomeno era scarsamente concettualizzato e non indagato in quanto tale. Le inchieste degli anni Cinquanta-Settanta, molto diverse tra loro, rispondevano all’esigenza di conoscere le condizioni di lavoro ma avevano come obiettivo ultimo la promozione di un’azione politico-sindacale per il miglioramento delle stesse. Gli atti della Commissione parlamentare sulle condizioni dei lavoratori in Italia contengono in nuce un fine trasformativo della realtà esistente in senso progressista. Gli anni Settanta sono indubbiamente il periodo più innovativo e fecondo per lo strumento dell’inchiesta, la cui portata, soprattutto per l’indagine dell’ambiente industriale e condizioni di lavoro in fabbrica, diventa dirompente. Quelle inchieste sono anche frutto di un inedito rapporto tra sindacato e ricerca, nel clima più generale segnato dall’esperienza pionieristica dei corsi delle 150 ore per il diritto allo studio dei lavoratori. Le inchieste non cessano di esistere negli anni Ottanta e Novanta, ma forse non sono più centrali come nel periodo precedente per l’elaborazione delle piattaforme rivendicative delle organizzazioni sindacali. Nel nuovo millennio l’inchiesta riacquista quel carattere di denuncia che l’aveva caratterizzata negli anni Settanta: lo svelamento delle condizioni di precarietà passa attraverso inchieste di istituti di ricerca collegati al sindacato come l’Ires-Cgil, di numerosi ricercatori-attivisti della generazione precaria, dei movimenti sociali auto-organizzati dei precari. Se inchieste e auto-inchieste sono espressamente di parte, perché vogliono puntare l’attenzione su un fenomeno poco indagato fornendone una micro-analisi attenta anche alla soggettività degli attori, anche le statistiche non sono mai neutrali. Come messo in luce oltre un decennio fa dall’ex-Presidente dell’Istat, Luigi Biggeri, la confusione generata dall’assenza di una categoria statistica di precarietà rendeva difficile comprendere le dimensioni quantitative e qualitative del precariato sempre sottostimato, perché quantificato generalmente solo a partire dalle statistiche sui contratti atipici.
Dopo decenni, oggi torna in parlamento una proposta di legge sul salario minimo. Come riporti nel tuo libro, nel tuo libro si legge che «il 14 maggio 1954, Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio furono i primi firmatari della prima proposta di Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori», non certo due che volevano ridurre il potere contrattuale del sindacato. Come si è arrivati dentro al sindacato a pensarlo tabù nonostante il generalizzato peggioramento delle condizioni dei lavoratori e dello sbilanciamento dei rapporti di forza dentro e fuori i luoghi di lavoro?
Le motivazioni che spinsero Giuseppe di Vittorio e Teresa Noce a proporre una tale proposta di legge erano da ricercarsi nella situazione salariale della prima metà degli anni Cinquanta, definita propriamente precaria e aggravata dai licenziamenti per rappresaglia politico-sindacale, dalla smobilitazione di interi impianti industriali e dall’immigrazione nei centri urbani di una forza lavoro rurale alla ricerca di un’occupazione permanente. L’obiettivo dichiarato era quello di dare applicazione all’articolo 36 della Costituzione, garantendo ai lavoratori e alle lavoratrici una retribuzione non solo commisurata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, ma anche sufficiente ad assicurare a loro e alle rispettive famiglie un’esistenza libera e dignitosa. La proposta fissava infatti un salario minimo garantito (orario e giornaliero) per tutti i lavoratori, indipendentemente dal sesso o dall’età. Il potere di contrattazione, sia a livello nazionale che aziendale, nell’epoca considerata era estremamente più debole e limitato che nella situazione attuale. Indubbiamente negli anni Dieci di questo secolo l’articolo 36 della Costituzione stenta a essere applicato per i milioni di precari, spesso lavoratori poveri che non riescono a raggiungere un salario dignitoso. Se per loro un sistema come quello ipotizzato nel 1954, se applicato a tutte le tipologie contrattuali, potrebbe rivelarsi vantaggioso, bisogna chiedersi che effetto avrebbe su chi oggi, grazie alla contrattazione, si trova in condizioni più vantaggiose. I settori non contrattualizzati, come quello della ricerca universitaria, ad esempio stentano a vedersi riconosciuti aumenti legati all’aumento del costo della vita.
Nei decenni si è assistito all’affermazione dell’ipersfruttamento e del precariato e dagli anni Ottanta dell’invaghimento per la flessibilità. Eppure proprio negli ultimi anni il tema del precariato, dello sfruttamento, della dignità del lavoro sembrano tornare a galla, tra propaganda politica e disagio sociale. Il vento sta di nuovo cambiando?
Un vero e proprio movimento sociale contro la precarietà, non solo italiano ma transnazionale, ha visto la luce già nella seconda metà degli anni Dieci del Duemila, generando nuove forme di resistenza e attivismo nonché una vera e propria riappropriazione della stessa condizione di precarietà. Tutto ciò ha posto le basi per lo sviluppo di rappresentazioni artistico-culturali inedite e un rinnovato dibattito pubblico sui precari, divenuti una vera e propria emergenza sociale nel nuovo millennio. Con l’esplodere della disoccupazione di massa negli anni della crisi globale, la precarietà è stata a più riprese presentata come il male minore o addirittura una condizione normale nei media e nel dibattito politico. Per tale ragione la riflessione sulla precarietà si è intrecciata a quella sulla disoccupazione e su inediti fenomeni di sfruttamento/autosfruttamento come il “lavoro gratuito”. Anche la relazione tra lavoro gratuito, formazione e precarietà ha generato indagini e riflessioni ad hoc, a seguito del varo dell’alternanza scuola-lavoro e dell’ampia mobilitazione degli studenti. La relazione tra precarietà ed emigrazione completa il quadro a tinte fosche negli anni della grande recessione. Il peggioramento della situazione occupazionale e delle condizioni di lavoro ha indubbiamente moltiplicato mobilitazioni, campagne e forme di resistenza alla precarietà, aggregando un’ampia galassia di soggetti comprendente i movimenti sociali, studenteschi, femministi e varie organizzazioni sindacali. Se negli anni della crisi globale “tutti parlano di precarietà”, con un’inedita coralità di narrazioni, resta da capire se e quali risposte strutturali la politica saprà dare ai precari, non più solo giovani, donne e immigrati.
*Marta Fana, PhD in Economics, si occupa di mercato del lavoro. È autrice di Non è lavoro è sfruttamento (Laterza).
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