A Venezia un giro attorno al mondo
La settantasettesima edizione della Mostra del cinema ha offerto ottimi film, anche dal punto di vista politico. Tra polemiche su sovranismo del cartellone e rivendicazioni intersezionali
Il Lido di Venezia per i cinefili squattrinati è un po’ come la Mecca per i fedeli musulmani. Ci si ripromette prima o poi di andare alla Mostra, magari evitando le costose proiezioni serali, posto che vitto, alloggio e mezzi di trasporto in laguna non sono economici, tanto meno nell’era della turistificazione di massa e della bivaccofobia. Quello di Venezia è il festival di cinema più antico di tutti e permette di compiere una sorta di giro attorno al mondo stando seduti comodamente su una poltroncina a guardare film che potrebbero non arrivare mai nelle nostre sale, perché anche il cinema è capitale, e chi distribuisce film è spesso più interessato al profitto che garantisce un prodotto mainstream che a contribuire al cambiamento della società offrendo visioni alternative.
L’edizione 2020 rimarrà memorabile perché quasi tutto è andato per il verso giusto, nonostante le restrizioni dovute alla pandemia da Coronavirus (che subito fuori è vissuta come un ricordo lontano, vale a dire che sul vaporetto o in treno si sta appiccicati come sempre) abbiano richiesto più controlli del solito – temperatura, distanze, metal detector… In un’annata disastrosa per le tasche e l’autostima di tanti lavoratori e lavoratrici dello spettacolo (molti attendono ancora la cassa integrazione o le indennità) è stata una piccola ma fondamentale iniezione di fiducia. Il premio più importante è andato a Nomadland, diretto da una regista molto apprezzata dalla critica statunitense, Chloé Zhao, con il personaggio interpretato da Frances McDormand a rappresentare i nuovi poveri che negli Stati uniti finiscono per non avere più una casa ma un cunicolo viaggiante, riscrivendo da sé il concetto di comunità e di mutuo aiuto e cambiando l’ordine delle priorità quotidiane.
Volendo giudicare i film da una prospettiva politica non possiamo che essere soddisfatti: abbiamo visto la lotta di classe in Messico grazie a Nuevo Orden, ci siamo incazzati per il massacro di Novocherkassk in Cari Compagni!, abbiamo sofferto con i bambini costretti a lavorare in Sole, siamo stati nuovamente in Iran con Terra desolata e i suoi camionisti che si spaccano la schiena per sopravvivere, proprio come quei bambini. Abbiamo empatizzato con i genitori immigrati in Inghilterra cui i servizi sociali volevano togliere i figli in Listen, ci siamo riconosciute nella sorellanza de Le sorelle Macaluso o nella relazione tossica vissuta da Eleonor in Miss Marx, abbiamo maledetto i potenti della terra che causano i conflitti raccontati da documentari come Notturno e Guerra e Pace, combattuto la dittatura in Cile con i protagonisti queer di Tengo Miedo Torero (tratto da Pedro Lemebel) e abbiamo detestato i comuni cittadini che aderirono convintamente al Nazismo visti in Final Account. Ok, l’abbiamo fatto virtualmente, ma ci siamo emozionati per davvero e siamo tornati a casa dicendo ai nostri amici che ci sono titoli che vale la pena recuperare in qualche modo più o meno legale.
Tutto ciò fino a quando abbiamo trovato il tempo di scoprire che Paolo Del Brocco, amministratore delegato di Rai Cinema, ha lamentato la mancanza di premi ai film italiani, evidentemente senza rendersi conto del lavoro immenso fatto dalla Biennale per offrire anche quest’anno una panoramica sul cinema mondiale, nonostante tutte le difficoltà. Per capire la polemica va detto che Del Brocco non si è mai occupato di critica, scrittura, produzione o distribuzione cinematografica in contesti diversi dalla tv di stato, ma se la cava bene con la gestione dei soldi, e questo ha sempre fatto per Rai Cinema. Secondo molti è la persona più influente nell’industria del nostro cinema, soggetto agli umori dei maggiori broadcaster televisivi. Infatti i film co-prodotti dalla Rai arrivano nelle sale per mezzo di 01Distribution, mentre Mediaset lo fa attraverso Medusa Film e Sky con Vision Distribution. Chi conta in questi colossi è ritenuto più potente persino dei vertici del Mibact, cui i produttori rivolgono le proprie suppliche per poter ottenere contributi determinanti (in base alla Legge cinema del 2016 e all’articolo 9 della Costituzione, in primis). Se consideriamo il peso delle major americane, nella torta da spartirsi rimane davvero poco spazio per le opere indipendenti, e questo scoraggia in partenza: chi vorrà mai fare un film che andranno a vedere solo i critici o i parenti? Del Brocco dei piccoli competitor non si interessa, così come non si riferisce ai 18 italiani presentati al Lido, ma solamente ai tre da lui co-prodotti (lo scriviamo così perché è uno che ci tiene molto al ruolo di protagonista, nonostante l’azienda non formi cineasti ma finanzi progetti già in essere).
I film in questione sono Miss Marx, Le sorelle Macaluso e Notturno, ma è in particolare per quest’ultimo che Mr Sbrocco sbrocca, dato che il regista Gianfranco Rosi ha già ottenuto un riconoscimento internazionale per il precedente Fuocammare, e nell’ottica dell’Ad era un vincitore sicuro. Non è stato così per la giuria, che per il produttore era quindi mal composta, Dunque: Cate Blanchett, Matt Dillon, Ludivine Sagnier (attori), Joanna Hogg, Veronika Franz, Christian Petzold (registi), Nicola Lagioia (scrittore). Una giuria tutta occidentale e bianca, su cui torneremo, ma non certo mal disposta nei confronti di un film europeo con immagini toccanti girate in Medioriente. L’affermazione patetica di Del Brocco ricorda allora quella di altri uomini che vorrebbero vedersi soli al comando. Ossia produrre e distribuire solo film che spopoleranno, incasseranno ottimamente e verranno gratificati nei festival che contano e determinano scelte importanti per l’intero mondo del cinema, affrontato come industria e mai come arte. Un po’ come quando negli anni Dieci del Duemila il ministro della cultura Sandro Bondi dichiarò di non voler vedere più presidenti di giuria snob come Quentin Tarantino (il quale, in realtà, il nostro cinema lo conosce abbastanza bene), perché a suo dire non avrebbe mai premiato un italiano: «Siccome i finanziamenti [alla Biennale, ndr] sono dello stato, d’ora in poi intendo mettere becco anche nella scelta dei membri della giuria del Festival di Venezia», disse. Ce le immaginiamo scene del genere a Cannes o a Berlino? No, perché così ignoranti e inavveduti non si diventa facilmente ministri o amministratori delegati. È un miracolo tutto italiano. Ma Del Brocco e Bondi, pur facendo figuracce memorabili di cui i veri artefici dei film devono essere tutt’altro che contenti, non dicono niente di diverso da quanto si può udire da rosiconi vari nelle occasioni di networking all’Hotel Excelsior o al bar Lion’s, a pochi passi dalle sale del Lido, e ahinoi anche in sala stampa, magari dopo una masterclass di Ann Hui, quando ci si dovrebbe sentire appagati per quanto appreso e fortunati per poter brindare con un Prosecco o uno spritz fatto bene.
L’appunto sulla giuria avrebbe invece senso nel modo in cui è stato lanciato in un articolo di Variety che ha fatto inalberare la Mostra, pur non avendo niente a che vedere con la presunta deriva o dittatura della cancel culture su cui c’è davvero molta confusione. È un peccato che il direttore Alberto Barbera – che, va detto, non evita mai nessuna domanda – abbia reagito dicendo:
È l’ossessione americana contemporanea per il politicamente corretto: dai neri ai trans e gli orientali, se ci sono assenze e vuoti anche a causa dei viaggi difficili non lo prendono in considerazione. È un articolo ridicolo e pretestuoso, mi ha fatto arrabbiare.
Barbera afferma il vero rispetto agli spostamenti: per alcuni cineasti (ad esempio gli iraniani) è sempre difficile ottenere il visto d’uscita da parte del proprio governo, e quest’anno lo è stato ancora di più per le restrizioni dovute al Covid-19 che hanno impedito la presenza di celebrità e accreditati da più paesi (migliaia in meno, è stato spiegato in conferenza stampa). A pagarla cara sono proprio i festival più alternativi, come lo storico Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina di Milano, che a causa di tante defezioni degli ospiti dai tre continenti e lungaggini varie (i bandi per i finanziamenti, peraltro, non contemplano gli imprevisti, causando problemi economici) è stato prima rinviato e poi annullato come altri nel 2020. Coronavirus a parte, finché non risolviamo a livello globale la questione della libertà di movimento come diritto umano fondamentale ai festival vedremo sempre più merci – ossia film – che persone da determinati paesi. Così come importiamo da lì prodotti mentre respingiamo chi li crea. La reazione del direttore però sottovaluta il problema dovuto al reiterare decisioni di fatto escludenti, ed è esattamente ciò che i maggiori festival fanno da sempre. Proviamo a spiegarla una volta per tutte, usando come spunto l’articolo di Sophie Monks Kaufman in questione: Cate Blanchett è tra i pochi a essere stata presidente di giuria sia a Cannes che a Venezia, e proprio a Cannes, facilitata dai ruoli che ricopre fuori dal set, ha guidato due anni fa una marcia simbolica di professioniste per protestare contro la disparità nell’ammissione di film diretti da donne rispetto a quelli diretti da uomini. Con lei c’erano Agnes Varda, Céline Sciamma, Khadja Nin, Ava Duvernay, Alice Rohrwacher, Houda Benyamina, Kim Longinotto, Leïla Bekhti, Rebecca Zlotowski, Ursula Meier, Valérie Donzelli, Zabou Breitman e molte altre, più gli occhi della stampa di mezzo mondo.
Queste azioni sono utili? Forse per le tante pressioni ricevute, il delegato generale Thierry Frémaux ha subito firmato un patto che impegnava il suo festival a raggiungere la parità di genere entro il 2020, e lo stesso hanno fatto in seguito Venezia, Berlino e altri. Da allora la presenza delle donne è aumentata ovunque, e non come contentino nelle sezioni minori, ma nel concorso che assegna il premio più importante. Di pari passo sono aumentati i premi che le donne ricevono, e le acquisizioni dei loro film, più numerose, permettono a un pubblico più vasto di goderli. Non ha avuto la stessa eco una manifestazione analoga di 16 cineaste nere e birazziali contro il razzismo dell’industria cinematografica francese durante quella stessa edizione di Cannes: servirebbe l’appoggio dell’industria e della stampa. Variety calcola che nel migliore dei casi si arriva a un 18% di giurati neri al festival francese, meno ancora altrove. Eppure ci sono cineasti afrodiscendenti o espressione di altre minoranze che vivono in paesi europei senza restrizioni di volo per l’Italia, che avrebbero potuto arricchire la Mostra con una masterclass o un panel dedicato proprio alla presenza a oggi minoritaria e spiegare come ci si sente a esordire e proseguire in tali condizioni, e proporre soluzioni per non essere più l’unico nero, orientale, lesbica nella stanza. Ci sono studiosi che dedicano loro la propria ricerca, come Leonardo De Franceschi che la rende disponibile attraverso i suoi libri e i siti Cinemafrica e Cinemafrodiscendente, cui collabora con altri fornendo un’utile mappatura.
La questione della diversity e dell’intersezionalità è una questione di rappresentanza su cui Venezia, come tutti, deve lavorare. Non tanto per imitare l’Academy, che ha deliberato proprio nei giorni scorsi per aumentarla entro gli Oscar 2024, ma soprattutto perché molti film nascono chiacchierando con le persone giuste nelle occasioni di networking, e dunque ai festival. Se non ci vai difficilmente lavorerai. Perciò non invitare equivale a escludere una parte dei professionisti o aspiranti tali senza peraltro ammetterlo, e significa limitare le loro occasioni di accesso al lavoro. Insomma dai, è una battaglia di civiltà.
*Chiara Zanini è freelance, operatrice culturale e critica cinematografica. Scrive per Il Giornale dello Spettacolo, Sentieri Selvaggi, Wired e altre testate. Sta curando con Federica Fabbiani la prima monografia dedicata alla regista francese Céline Sciamma.
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