Un paese diviso
Alle elezioni canadesi il premier uscente Trudeau ha perso la maggioranza in parlamento. Ma i Conservatori hanno fallito il tentativo di scalzarlo
Le elezioni canadesi sono uno di quei rari casi in cui tutti, o quasi, hanno perso anche se potranno tutti cantare vittoria. Il premier uscente Trudeau ha perso quasi il 7% dei voti e la maggioranza assoluta in parlamento – anche se dovrebbe riuscire a guidare un governo di minoranza alleandosi con i socialdemocratci della Ndp; i Conservatori hanno fallito il tentativo di scalzare Trudeau – anche se hanno avuto la maggioranza nel voto popolare (cosa che, al contrario del caso Hillary, probabilmente, i giornali non racconteranno); la Ndp ha fallito clamorosamente nell’approfittare del calo di consensi dei liberali e ha perso quasi metà dei suoi seggi (soprattutto a causa del sistema elettorale) – ma ha ora la possibilità di farsi king-maker e strappare importanti concessioni a Trudeau in cambio del proprio sostegno. Anche se non è del tutto escluso che i liberali possano cercare l’appoggio dei separatisti del Quebec che hanno quasi raddoppiato i propri voti e hanno i numeri per far governare Trudeau.
Un governo di minoranza liberale costretto a scendere a patti con Ndp era, prima delle elezioni, probabilmente lo scenario migliore a sinistra, con la possibilità di imporre una svolta progressista al paese. Ma un conto è farlo sull’onda di una crescita elettorale e strappando consensi all’establishment, un altro è trovarsi a trattare dopo una bruciante sconfitta con consensi persi a sinistra verso i verdi. Il governo, se mai verrà alla luce, nascerà zoppo, con scarsa legittimità politica.
Crisi nazionale e istituzionale
Il paese è diviso e le mappe politiche sempre più americanizzate: i liberali sono un partito sempre più regionale e delle fasce urbane (in particolare quella di Toronto): vincendo, non senza qualche difficoltà, la maggioranza dei seggi in Ontario, la regione con più seggi, si è garantito la possibilità di governare. Ma a Ovest di Toronto sono marginali, in Alberta e Saskatchewan non eleggono un deputato (mentre i Conservatori prendono tra il 65 ed il 70% dei voti) e pure in British Columbia sono un partito minoritario. I conservatori al contrario sono un partito più nazionale ma la loro debolezza in Ontario e Quebec li sfavorisce elettoralmente.
Proprio in Quebec c’è stato un ritorno in grande stile del Bloc Quebecois, gli indipendentisti francofoni che erano ormai in netto calo da una ventina d’anni. Il partito ha raddoppiato i voti su una piattaforma piuttosto xenofoba, contraria all’apertura delle frontiere per i rifugiati voluta da Trudeau e vista con sospetto a Montreal e dintorni. Il Bloc – che pure è socialmente “progressista” – ha fatto leva sulla difesa dell’unicità e omogeneità del Quebec, che, dicono, verrebbe messa a rischio dalle scelte di Ottawa per chiamare alle armi tanti elettori che vedono con un misto di ostilità e diffidenza il resto del Canada anglofono.
Anche nelle Grandi Praterie il governo federale viene visto con sospetto: si tratta di provincie ricche di risorse naturali, contribuenti nette al budget nazionale che si sono sentite messe sotto tiro dalla retorica ambientalista di Trudeau (che, a parte una Carbon Tax, si è rivelata invero piuttosto innocua). Non a caso i Conservatori sono più che scettici riguardo ai temi del cambiamento climatico – il governo Harper, in carica dal 2006 al 2015 è stato tra i più estremisti in tale senso. L’attuale Premier dell’Alberta, il Texas del Canada, ha definito i Verdi un partito “anti-Alberta” ed è arrivato a dire che, alleanze di governo tra liberali e Ndp su piattaforme “ambientaliste” sarebbero viste come atti ostili verso la sua provincia, che potrebbero mettere a rischio l’unità nazionale.
A questo si aggiunga che il sistema elettorale maggioritario in un paese dove i due principali partiti non arrivano ai 2/3 dei voti, genera un sistema politico non rappresentativo e tendenzialmente oligarchico. Al netto della sconfitta, l’Ndp è un partito che prende voti in maniera omogenea tanto nelle regioni liberali che in quelle conservatrici, senza però portare a casa un numero congruo di seggi – mentre un partito regionale come il Bloc Quebecois elegge decine di deputati grazie al forte radicamento in una sola regione. Per di più un sistema federale arcaico, in cui alle diverse province sono garantite un numero minimo di seggi a prescindere dalla popolazione residente, sancisce di fatto una situazione in cui i voti si contano diversamente in base alla loro provenienza territoriale.
In questa situazione, inoltre, i due partiti principali sono spinti più che altro a favorire le loro constituencies e a interessarsi particolarmente ai distretti chiave – quelli che consentono il formarsi o meno di maggioranze – senza avere una visione unitaria dei bisogni del paese. Il combinato disposto di problemi istituzionali e divisione territoriale porta dunque a una sovrarrapresentazione di alcuni gruppi specifici e una drammatica sotto-rappresentazione di altre istanze, traducendosi in una ormai non più latente crisi di legittimità.
La fine della Trudeau-mania
Il quadro sociale è senza dubbio più roseo che nel resto del mondo occidentale: un paese enorme e ricco di risorse, e scarsamente popolato porta a standard di vita relativamente alti; la presenza di un welfare pubblico – pure in crisi – attenua parzialmente gli effetti del ciclo economico; la robustezza del sistema finanziario durante la crisi aveva per altro evitato la forte recessione vista altrove, anche se naturalmente neppure a Ottawa erano mancati i governi pro-austerity. Eppure la situazione è in precario equilibrio: Toronto e Vancouver risucchiano come un vortice investimenti e migrazione interna, impoverendo il resto del paese; la diseguaglianza è in continuo aumento e il costo della vita nelle metropoli sta diventando sempre più insostenibile; un paese che vive sull’industria estrattiva si trova davanti all’incertezza della crisi climatica.
Come abbiamo visto, il tema ecologico è stato tra quelli centrali in queste elezioni, come nelle scorse. Trudeau si era fatto eleggere con slogan ambientalisti, e aveva in effetti firmato immediatamente l’accordo di Parigi, anche se poi, come era facile prevedere, i fatti non erano seguiti alle parole: all’introduzione di una carbon tax aveva fatto seguito la costruzione di una nuova pipeline (cosa che neanche i Conservatori avevano fatto), con tanto di sgombero violento degli indigeni sopra le cui terre l’oleodotto passava. I presenti piani industriali riguardo le industrie estrattive porterebbero inevitabilmente allo sforamento proprio di quei parametri di Parigi per cui Trudeau si era tanto speso, almeno a livello nominale. I liberali, così facendo, sono riusciti a scontentare tanto la destra – riottosa quando si parla di tasse, e sulla difensiva quando si parla di ambiente (tanto che a Calgary l’arrivo di Greta era stato accolto da contro-manifestazioni…) – che la sinistra, che vede in Trudeau un ciarlatano incapace di far seguire i fatti alle parole.
Il resto dell’operato del governo è stato anche più deludente. A parte gli scandali e il grave conflitto di interessi venuti recentemente a galla, sul piano economico il fantomatico aumento delle tasse per l’1% più ricco si era poi trasformato in tax breaks per il successivo 9%; mentre del piano per le infrastrutture si è sentito assai poco parlare. La politica estera è stata pure peggio: il Canada ha supportato in prima linea il tentativo di golpe in Venezuela; si è trasformato in zerbino di Trump con l’arresto piuttosto ridicolo del Cfo di Huawaei che ha portato a rapporti diplomatici difficilissimi con Pechino; ha fatto un pronto voltafaccia sulla vendita di armi all’Arabia Saudita – cui i liberali si erano precedentemente opposti – divenendo il secondo esportatore mondiale di armi in medio-oriente. Una postura fortemente filo-americana caratterizzata dalla nomina a ministro degli Esteri di Chrystia Freeland (una accademica e giornalista con parecchi scheletri nell’armadio), accolta con entusiasmo a Washington.
In sintesi, l’operato del governo liberale è stato più che deludente. Cosa aspettarsi d’altronde dal partito che tradizionalmente rappresenta l’establishment canadese? Trudeau è stato, in tutto e per tutto, l’“Obama canadese”, tanti begli slogan, ma zero sostanza – la faccia buona e accattivante del potere, messo lì per guadagnare tempo più che per provare anche semplicemente a riformare il sistema.
La sinistra canadese
Il problema è che la disillusione generata dal governo liberale non è stata capitalizzata a sinistra. Otto anni fa, per la prima volta, l’Ndp era diventato il secondo partito, superando i liberali. Alla vigilia delle scorse elezioni, il partito sembrava essere il favorito per vincere. Sotto la guida di un ex-liberale come Thomas Mulcair, aveva però abbracciato la “Terza Via” quando ormai questa aveva perso appealing anche in Usa e Gran Bretagna; pur di accreditarsi con le élite, Mulcair aveva varato un programma ultra-moderato, scavalcato a sinistra – almeno nominalmente – dai liberali e nel giro di pochi mesi l’Ndp era sceso dai sogni di gloria di governare al rango di terzo partito, una batosta storica. Sono seguiti quattro anni di lotte interne e marginalità politica, e solo la campagna elettorale ha scosso la sinistra dal suo declino. L’ascesa del nuovo leader Jagmeet Singh e un programma decisamente più a sinistra, puntando su tassazione dei più ricchi, estensione del welfare e lotta al cambiamento climatico ha ridato linfa al partito che diversi sondaggi davano al 20%. Il risultato è stato più modesto, anche se la perdita dei seggi è stata soprattutto un fatto regionale. L’Ndp era particolarmente forte in Quebec e ha patito più di ogni altro partito il successo del Bloc. In particolare, nella provincia francofona, il Parlamento provinciale aveva passato la famigerata Legge 21 che – sulla scia di quella francese – proibiva ai dipendenti pubblici di esporre simboli religiosi sul luogo di lavoro – una legge il cui chiaro obiettivo erano le donne musulmane. L’Ndp è stato l’unico partito a opporsi e la presenza di Singh – un sikh con tanto di turbante – ha portato a una chiara contrapposizione con il Bloc: la battaglia di principio era sacrosanta, il risultato è stato però una sconfitta elettorale.
Nonostante tutto, però, l’Ndp deve continuare sulla strada intrapresa di svolta a sinistra, e se possibile rafforzarla. Un innalzamento delle tasse ai più ricchi per rilanciare e allargare un welfare in crisi è vista generalmente di buon occhio dalla maggioranza degli elettori. La svolta ecologista – pur con qualche timidezza e troppi timori reverenziali verso le compagnie petrolifere – è coerente con la critica del capitalismo liberista e potrebbe permettere di riassorbire i voti andati ai Verdi.
I prossimi giorni saranno importanti per determinare il futuro della sinistra. In Canada tradizionalmente non ci sono coalizioni politiche ma governi di minoranza, ma è chiaro che se Trudeau vorrà cercare i voti dell’Ndp per dar vita al suo governo, dovrà fare importanti concessioni. La scena politica è però fluida: il disastro elettorale dei liberali nelle Grandi Praterie ha avuto come primo effetto la dichiarazione di Trudeau stesso che l’oleodotto in costruzione non si tocca, mentre l’Ndp aveva fatto della sua opposizione al progetto una vera e propria bandiera elettorale. Più in generale sostenere un governo di minoranza è sempre una proposizione rischiosa: i meriti delle cose buone vanno a chi governa, le critiche per non aver portato avanti i propri programmi vanno a chi sostiene il governo da fuori. Per l’Ndp è chiaro che il compromesso può arrivare solo a patto che vengano fatte importanti concessioni, a partire dalla riforma elettorale – prima promessa e poi rimangiata dai liberali – che avrebbe il pregio di dare una rappresentanza più giusta e democratica al Paese e portare a un rimescolamento politico potenzialmente foriero di una svolta progressista.
* Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.
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