
Catalogna, l’indulto è l’inizio di qualcosa?
Dopo la netta affermazione del Partito socialista catalano, il governo di Pedro Sánchez potrebbe aprire una nuova fase negli incerti scenari politici spagnoli. E il provvedimento di clemenza potrebbe esserne il primo passo
La scelta di Pedro Sánchez e del governo spagnolo di concedere l’indulto ai dirigenti indipendentisti catalani è una decisione senza dubbio coraggiosa che apre le porte a nuovi e incerti scenari nella politica spagnola. Da un lato si tratta di una mossa che crea un ponte dopo anni di criminalizzazione del conflitto politico catalano, dall’altra annuncia una stagione di dialogo tra l’esecutivo spagnolo e quello catalano, in una dinamica – l’idea di un rapporto alla pari tra i due soggetti – già di per sé fonte di tensioni.
La voglia di dialogare è reciproca, sia del governo di coalizione del Partito Socialista (Psoe) e Unidas Podemos (Up) che di quello catalano, che da poco più di un mese vede alla presidenza Pere Aragonès, primo dirigente di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) a guidare la Generalitat dopo ottant’anni. Tuttavia le due agende, quella di Madrid e quella di Barcellona, sono ben diverse: da una parte ci sono promesse di migliore finanziamento e infrastrutture, dall’altra la sempre perenne voglia di poter decidere sull’indipendenza della Catalogna.
La scelta di Pedro Sánchez era attesa da mesi, si attendeva giusto che fosse Aragonès, attestato su posizioni dialoganti, ad assumere la guida della Generalitat dopo l’erratico mandato di Quim Torra, più attivista che governante e fautore, almeno a parole, di scelte unilaterali. Tuttavia è sorprendente osservare la giravolta di Sánchez, che solo due anni fa aveva esplicitamente escluso qualsiasi atto di grazia. Non solo, in maniera piuttosto dura il leader socialista era arrivato a assicurare che avrebbe fatto estradare l’ex presidente catalano Carles Puigdemont (nel frattempo diventato eurodeputato) e che avrebbe reso illegale l’organizzazione di referendum non autorizzati. In un capovolgimento radicale delle sue posizioni (a cui comunque è solito, avendo negato per anni anche la possibilità di governare con Unidas Podemos) ha visto nella conquista della Generalitat da parte di Erc la possibilità di isolare la forza adesso più propensa allo scontro, Junts per Catalunya (JxC), e di porre il Partito dei Socialisti catalani (Psc) di nuovo dopo anni al centro dello scacchiere politico catalano, dopo anni di ininfluenza.
Come già raccontato, le elezioni di febbraio hanno visto un grosso successo del Psc, primo in voti e seggi, ma impossibilitato a governare per mancanza di alleati. Erc, d’altra parte, è riuscita finalmente a superare JxC, partito il cui gruppo dirigente era di fatto alla guida della Generalitat dal 2010. Superando alcuni complessi che l’hanno portata costantemente a collocarsi malvolentieri su posizioni estremiste per evitare l’accusa di tradimento, Esquerra è riuscita a prevalere con una piattaforma di compromesso, e dunque è legittimata ad aprire un dialogo con Madrid. Su forte impulso del Psc, Sánchez ha dunque colto la palla al balzo e fatto il gesto più significativo di normalizzazione dei rapporti politici con il nazionalismo catalano dal 2017 a oggi, forse anche spinto dall’idea, avallata dai sondaggi, che alle fasi di distensione corrisponda un calo del sentimento indipendentista.
Il prezzo del dialogo
C’è stato, come prevedibile, un prezzo politico da pagare, da entrambe le parti. Il Governo spagnolo non ha chiesto attestati di pentimento, non richiesti dalla legge e impossibili da ottenere, ma un segnale di autocritica sulle scelte avvenute nell’ottobre 2017. Il segnale è giunto con l’articolo dell’ex vicepresidente della Generalitat e leader di Erc, Oriol Junqueras, pubblicato dal quotidiano Ara dal titolo Guardando al futuro. Junqueras, condannato a 13 anni, ha detto in sostanza due cose nuove: la prima è il riconoscimento che una parte importante della società catalana e spagnola non ha considerato legittima l’iniziativa del referendum del 2017 (a questa parte Junqueras ha inviato un messaggio di concordia); la seconda è il rifiuto di nuove iniziative unilaterali e l’assunzione della cosiddetta «via scozzese», ovvero della necessità di un consenso che deve coinvolgere ripetutamente più della metà dei votanti, passando quindi attraverso un referendum, concordato in anticipo con l’apparato statale. Non sono parole banali, perché furono proprio Erc e Junqueras nelle partecipate ma allo stesso tempo confuse giornate successive al referendum del 2017 a impedire al presidente Carles Puigdemont di convocare elezioni anticipate che forse avrebbero evitato il commissariamento della Generalitat, una delle tante ferite non rimarginate della politica catalana.
Chi non lo ha dimenticato è Jordi Sànchez, allora capo dell’Assemblea Nazionale catalana e oggi di Junts per Catalunya, condannato anch’egli per sedizione. In una replica a Junqueras ha ricordato le responsabilità di Erc in quelle giornate e ha ribaltato l’analisi del suo ex-compagno di prigionia. In primo luogo, dice il leader juntaire, la società catalana non è divisa; in secondo luogo, aggiunge, per giungere all’indipendenza non serve «il 100% della popolazione», un’inquietante formula che dà adito a una delle principali critiche verso l’indipendentismo: quella di ignorare il blocco esterno ai due milioni di cittadini che a ogni occasione votano per i partiti indipendentisti. Un modo per sostenere che la via unilaterale è indispensabile, anche solo come forma di pressione verso lo Stato. Conseguentemente, Junts per Catalunya vede con scetticismo la decisione del Governo centrale. Essa rompe con la retorica dello scontro continuo, con l’idea che non ci sia differenza tra destra e sinistra e soprattutto abbassa la tensione, problema vitale per un partito che vive del mito della mobilitazione permanente e sul monotema della secessione. Tra Erc e JxC vi sono oggi visioni contrapposte e ruggini personali che si aggiungono alla sensazione di trovarsi in un vicolo cieco: sono le debolezze di oggi di un movimentoindipendentista ancora molto forte dal punto di vista numerico ma con alcune difficoltà strategiche. Il tavolo per il dialogo rappresenta, per Erc e Aragonès, la maniera di uscire da questo vicolo cieco.
Anche per il Partito socialista (ma non Unidas Podemos, che ha sempre spinto per la grazia) la decisione di far uscire dal carcere dirigenti secessionisti ha avuto un prezzo. La destra ha scatenato da subito una reazione a tutto campo, nelle piazze, nei tribunali, nei parlamenti regionali. Lo schema ha ricalcato la mobilitazione che a metà anni 2000 il Partito Popolare (Pp) scatenò contro la riforma dello Statuto della Catalogna. In quell’occasione il Pp, con un atto di enorme irresponsabilità, raccolse quattro milioni di firme contro una legge che veniva definita discriminatoria e divisiva verso il resto della Spagna e che, infine, venne amputata nelle parti essenziali dal Tribunale Costituzionale nel 2010. La bocciatura della riforma dello Statuto rappresentò una sconfitta per l’allora presidente del Governo spagnolo Zapatero, profondamente debilitato da quella battaglia, e per il Psc, che avrebbe impiegato anni per riprendersi. La sconfitta diede il là sia al movimento indipendentista che alla vittoria delle destre catalana e spagnola nel 2010 e nel 2011.
Pablo Casado, leader del Pp, ha provato a generare una reazione simile, ma per il momento ha fallito. Sia la piazza sia la raccolta firme hanno coinvolto meno gente di quella prevista. Casado non è riuscito a rompere del tutto l’unità del Psoe in territori dove l’antipatia verso il nazionalismo catalano (nonché verso la stessa Catalogna) è profonda e la presidentessa della Comunità di Madrid, l’estremista Isabel Díaz Ayuso, ha addirittura paventato una responsabilità del Re Felipe di Borbone nell’adempimento del suo dovere costituzionale di controfirmare il decreto di indulto. A ogni modo, la base e l’elettorato del Psoe è ben lontano dal condividere appieno la scelta di Pedro Sánchez: molti dirigenti di primo livello come i Presidenti della Castiglia-La Mancia o dell’Estremadura hanno palesato la loro contrarietà come pure tutta la generazione di Felipe González, presidente del Governo tra il 1982 e il 1996, e attestato oggi su posizioni obiettivamente conservatrici.
La maggioranza dell’elettorato, poi, ha mostrato nettamente la propria contrarietà alla misura. Ma questo non fa altro che rafforzare il valore strategico della decisione del Psoe e di Up, una scelta che per una volta non segue una visione di breve periodo ma cerca di porre le basi per una normalizzazione dei rapporti, anche se le agende delle due parti sono molto diverse.
Due agende diverse
L’idea di un tavolo di confronto tra il Governo dello Stato e la Generalitat catalana non è nuova: è del 2018 la Dichiarazione di Pedralbes, firmata da Sánchez e Quim Torra, in cui si riconosceva l’esistenza di un conflitto politico e si definivano luoghi di dialogo per dare una «risposta democratica». Le relazioni altalenanti tra le due parti e la pandemia hanno sospeso quel percorso: ora è da lì che si ricomincia, ma con progetti diversificati. Sánchez vorrebbe mettere al centro questioni quali il sistema di finanziamento delle Comunità Autonome, l’armonizzazione fiscale, la concessione di più competenze alla Generalitat e addirittura la stesura di un nuovo Statuto ispirato alla versione bocciata dal Tribunale Costituzionale. Aragonès, invece, vuole che si parli di due temi: la realizzazione di un referendum e la soluzione delle cause giudiziarie pendenti a tutti gli altri dirigenti e attivisti. Sono tutte questioni difficili da approcciare, sia sul piano politico che costituzionale. Le proposte del Psoe e del Psc non si distanziano troppo da quelle bocciate dal Tribunale Costituzionale nel 2010 e non si vede perché in una situazione di ancora maggior tensione l’approccio in materia dovrebbe essere differente. Una politica fiscale o di infrastrutture più favorevole alla Catalogna, poi, potrebbe generale la medesima reazione che vi fu negli anni della redazione dello Statuto, ovvero un’alzata di scudi di tutte le altre Comunità Autonome. In gioco, in fondo, c’è anche la stessa dimostrazione della Spagna di potersi riformare.
Riguardo all’agenda di Pere Aragonès, se la richiesta di referendum appare una soluzione impossibile nel breve termine, sulla soluzione delle cause giudiziarie pendenti degli altri dirigenti e militanti indipendentisti, il Governo spagnolo dovrà trovare un modo per venirne fuori per portare a termine il processo avviato con le misure di grazia, anche per tutelare l’immagine di uno Stato non migliorata con la persecuzione dei ricercati per i fatti del primo ottobre. Gli ordini di arresto di Puigdemont e altri sono stati costantemente respinti dalle magistrature belga e tedesca e il Consiglio d’Europa ha votato a favore delle misure di grazia. Nel frattempo sono in molti a pensare che come minimo le condanne di Jordi Sànchez e di Jordi Cuixart, leader di due associazioni e non membri del Governo nel 2017, verranno annullate dal Tribunale di Strasburgo per i Diritti Umani. La soluzione sarebbe l’amnistia, non vietata espressamente dalla Costituzione anche se molti sottolineano il divieto esplicito di «misure di grazia generali». Una misura ambigua, che dovrebbe essere infine avallata ancora una volta dal Tribunale Costituzionale.
C’è un aspetto, per concludere, che vale la pena osservare dall’Italia su questa faccenda e che può essere riassunto dal tweet che il capogruppo di Esquerra al Congresso dei Deputati ha pubblicato come commento della grazia. L’unica parola del tweet è «Politica». In Spagna si è ammesso chiaramente che la misura di grazia è un atto politico di competenza governativa, realizzato perché ci sono due milioni di indipendentisti che si sentono rappresentati dai dirigenti condannati per sedizione. È un atto portato avanti da due organizzazioni con 142 e 81 anni di storia, con un apparato solido, procedure, tempi lunghi e pochi complessi nel mettere la politica davanti al codice penale.
*Nicola Tanno è laureato in Scienze Politiche e in Analisi Economica delle Istituzioni Internazionali presso l’Università Sapienza di Roma. Vive e lavora da anni a Barcellona.
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