Il gelo del 7 ottobre e la piazza che serve
Un anno dopo, Israele guadagna posizioni geopolitiche ma la sua immagine è in crisi per la terribile sproporzione della sua reazione agli attacchi di Hamas. Per questo provano a bollare come illegittima ogni protesta di piazza
Il 7 ottobre consegna un anniversario gelido in cui la guerra si è estesa praticamente in tutto il Medio Oriente e la protesta viene criminalizzata o confinata, come a Roma, in una piazza ristretta. Per fortuna nel 5 ottobre romano, nonostante l’intimidazione di un divieto a manifestare pretestuoso e contrario alla lettera della Costituzione, nonostante la pioggia e lo sciopero dei mezzi pubblici, nonostante alcuni slogan sbagliati – il 7 ottobre è stata una terribile carneficina, non certo l’inizio di una rivoluzione – hanno prevalso l’indignazione, la rabbia, la voglia di opporsi a quanto sta avvenendo in Palestina, e poi in Libano e domani in Iran. La piazza ha così battuto il governo. Il divieto imposto dal Ministro Piantedosi non ha funzionato, segno che di fronte a una partecipazione reale e spontanea non sono forti come possono sembrare.
La manifestazione del 5 ottobre aveva al suo interno alcune posizioni non solo non condivisibili, ma sbagliate politicamente. Molto clamore ha attirato lo slogan «il 7 ottobre comincia la nostra rivoluzione», dichiarazione non solo inaccettabile per via dei fatti di quel giorno, ma sbagliata politicamente perché il 7 ottobre non è stato l’avvio di nessuna rivoluzione, ma solo di un massacro di cui non si vede ancora la fine.
È un punto non indifferente notare come l’immagine di Israele nel mondo si sia nel corso di quest’anno appannata e ridotta di autorevolezza – basti pensare al discorso di Netanyahu alle Nazioni Unite con le delegazioni che via via abbandonano l’aula – mentre lo Stato ebraico guadagna posizioni geopolitiche. Israele non ha sconfitto Hamas – probabilmente non ci riuscirà mai vista l’internità di quell’organizzazione alla popolazione palestinese – ma l’azione del 7 ottobre non ha portato, ad esempio, a una sollevazione in Cisgiordania dove non si è verificata nessuna nuova «intifada». La destrutturazione di Hezbollah prosegue inarrestabile, la Siria viene richiamata all’ordine e Israele sta pensando seriamente di colpire il bersaglio grosso, il gruppo teocratico che governa l’Iran che ha ormai ben chiaro di essere il vero obiettivo israeliano. Si profila così la possibilità di un nuovo «ordine» mediorientale che in prospettiva vedrebbe la saldatura tra gli interessi di Israele e quelli delle monarchie del petrolio, particolarmente silenziose in questi giorni. Che poi questo progetto realizzi una pacificazione dell’area sarebbe tutto da dimostrare, ma la tendenza è in atto.
Per questo quello slogan è sbagliato, al di là della sua valenza morale, perché non registra i rapporti di forza che si stanno delineando sul campo e non comprende come, in una polarizzazione estrema a suon di bombe e reazioni terroristiche o armate, l’attore principale delle rivoluzioni, ossia la popolazione in lotta, resta muta e incapace di agire.
Tale situazione richiede alla solidarietà internazionale un di più di intelligenza e di iniziativa articolata, per questo pensiamo che nelle contraddizioni della piazza del 5 ottobre bisogna tenere fermi gli occhi, al contrario di come fanno le cronache mainstream della giornata, sul cuore di quella piazza, sulle attese di migliaia di persone non organizzate, ma politicamente attive, perché è quella forza e determinazione che aiuta a indicare il cammino. La conclusione della manifestazione, e i video degli scontri, rappresentano il fotogramma della polarizzazione tanto cercata dal governo con la tensione creata nella piazza attraverso il divieto. Di qua l’ordine, di là i «nipotini» di Hamas. Alcune forme avanguardistiche vengono strumentalizzate da questi cliché, come accaduto anche il 5 ottobre. E sono forme che non aiutano a tenere insieme la radicalità dei contenuti con il sentimento e l’indignazione popolare contro la guerra genocida portata avanti dal governo israeliano. Ma l’essenziale della giornata di sabato a Roma è stata la piazza determinata a manifestare a dispetto di ogni divieto, a volto scoperto, contro un’escalation di guerra inaccettabile. Ci sono stati giuristi, giornalisti, intellettuali che hanno già spiegato esaurientemente l’inconsistenza giuridica di quel divieto a manifestare, deciso non solo e non tanto per offrire sostegno alla comunità ebraica, ma per inviare un chiaro messaggio ai movimenti: d’ora in poi il livello repressivo per chi dissente sarà innalzato. Per questo anche l’epilogo della manifestazione non si capisce se non si guarda a quel ddl Sicurezza che sabato 5 ottobre è stato sperimentato dal vivo, con i fermi, i fogli di via, la piazza blindata, gli autobus placcati alle porte di Roma.
La repressione è un ingrediente essenziale per schiacciare il No alla guerra nell’angolo della violenza e del minoritarismo politico (rischio sempre presente), semplicemente perché il sostegno a Israele, nel caso specifico, è sempre più insostenibile. Lo sa anche il governo Meloni, lo sanno i governi occidentali, che Netanyahu è un leader isolato e che ha portato il suo paese a una condizione di marginalità internazionale, messo sotto accusa dagli stessi organismi delle Nazioni unite: basta leggere l’ultimo editoriale di una rivista non certo sospettabile di simpatie islamiche come Foreign Affairs.
Tutto questo non basterà a fermare Israele che è già pronto a bombardare l’Iran in un’escalation internazionale di cui non si vede il freno. Eppure, Europa e Stati uniti, se volessero, potrebbero fermare Netanyahu, potrebbero far scattare delle sanzioni, chiudere il rubinetto degli aiuti militari, bloccare il commercio di armi. Non lo faranno. E quindi dovranno bollare ogni protesta come illegittima e indecente, altrimenti non reggereɓero il loro gioco.
Per questo la piazza di sabato è stata importante, perché ha mostrato il Re nudo. Per questo andrebbe riproposta. Più grande, più unita e solidale attorno a parole d’ordine essenziali, radicali e unificanti: stop al genocidio, Palestina libera, stop alle bombe. Ci sarà di nuovo l’occasione della manifestazione convocata per sabato 12 ottobre e forse ancora un’altra scadenza, davvero nazionale, potrebbe essere indetta. Ci sarebbe bisogno dell’apporto di tutti quelli e quelle che si riconoscono in quei semplici e decisivi slogan, portandoli anche nei quartieri, nei luoghi di lavoro e di studio, come fatto negli scorsi mesi dalle mobilitazioni studentesche per il boicottaggio dei rapporti di ricerca con le università israeliane, che come documenta il libro di Maya Wind hanno un ruolo chiave nel regime di oppressione del popolo palestinese.
Serve una mobilitazione popolare, di massa, per difendere una prospettiva di pace e per inviare un segnale inequivocabile anche al governo Meloni: la repressione non passa, la piazza è ancora viva e non ha intenzione di fermarsi.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.