
Il nazionalismo hindu a caccia di voti
Dal 19 aprile al 1 giugno, 960 milioni di indiani votano per il rinnovo del parlamento. La competizione elettorale è segnata dalla violenza nei confronti delle minoranze, il che restituisce l’immagine di un’autocrazia elettorale
La Repubblica federale indiana ha visto incrementare le pulsioni autoritarie in modo esponenziale dal 2014, quando la National Democratic Alliance – Nda – capeggiata dal Bharatiya Janata Party – Bjp – ha raggiunto per ben due volte la maggioranza necessaria alla formazione del governo da parte del proprio leader Narendra Modi. In questi dieci anni l’obiettivo di cambiare l’India è stato perseguito attraverso una strategia di legittimazione del proprio ruolo nel mondo con un’impetuosa crescita economica, e con l’accrescere di sentimenti hindu-nazionalisti all’interno del paese. Si può quindi definire l’India guidata dal Bjp come un esperimento di neoliberismo autoritario.
Più che sconvolgere, il rivolgimento autoritario dell’India conferma la strategia di lungo periodo della destra-hindu nazionalista del RashtriyaSwayamsevakSang – Rss –, di cui il Bjp è il braccio elettorale. L’organizzazione fondata nel 1925 da brahmini – membri delle caste alte – ed ispirata dall’ideologia hindutva ha come obiettivo quello di uno stato confessionale hinduista dove non vi è spazio per altre minoranze religiose, in particolare quelle musulmane e cristiane. L’organizzazione centenaria ha stretto rapporti con i regimi fascisti e nazisti nei suoi primi anni di attività, emulando le modalità di organizzazione e formazione dei propri aderenti. Non a caso oggi la Rss conta su una forza paramilitare di circa 200 mila uomini, segno che idee e modalità di mobilitazione sono rimasti uguali negli anni. Queste forze organizzatefanno uso del comunitarismo come strumento per dividere l’India ed annientare il nemico interno. La Rss nei suoi primi anni trova inediti alleati nella Muslim League – la quale stava facendo pressioni per la creazione di uno Stato confessionale islamico – e nei colonizzatori – convinti della funzionalità di una strategia divide et impera. Non a caso, sarà Nathuram Godse, militante del Rss, ad assassinare Gandhi nel gennaio 1948
Il 6 dicembre 1992, dopo dieci anni di mobilitazione continua ed un anno di campagna di LK Advani – allora leader del Bjp – in tutto il subcontinente, le organizzazioni hindu-nazionaliste si danno appuntamento ad Ayodhya, in Uttar Pradesh. Quel giorno la moschea Mughal, eretta secondo la destra hindu sul luogo di nascita del Dio Ram, viene distrutta dalla folla a colpi di picconi. Il 22 gennaio 2024, dopo anni di controversie giudiziarie rispetto ai diritti d’uso dell’area, viene inaugurato il tempio RamMandir sulle macerie della moschea. Narendra Modi ed il presidente dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath presiedono all’inaugurazione del tempio inaugurando così la campagna elettorale del Bjp per le elezioni parlamentari del Lok Sabha. Nelle parole di Modi è esplicita la narrazione che verrà usata in campagna elettorale: «Questo momento è trascendentale. È il più sacro dei momenti. Questa atmosfera, questo ambiente, questa energia, questo tempo… è la benedizione di Ram su di noi». Narendra Modi aderisce all’organizzazione hindu-nazionalista fin dalla tenera età, abdicando ai propri interessi personali in nome dell’organizzazione, e barcamenandosi in incarichi organizzativi tra Rss e Bjp. Nel 2001, nel pieno di una crisi di maggioranza, Modi viene designato presidente dello Stato del Gujarat dove nel febbraio 2002 si trova a fronteggiare le violenze etniche. Modi resta saldo al Governo del Gujarat fino al 2014, anno in cui diventa leader del Bjp e dalla coalizione National Development Alliance – Nda – per la campagna elettorale delle elezioni federali. Quell’anno, con la conquista di 282 seggi su 543 nel Lok Sabha, il Bjp diventa il primo partito a livello nazionale e a Modi è affidato l’incarico di formare il governo; cinque anni dopo la Nda si consolida con la conquista di 303 seggi. Il risultato, concentrato soprattutto nel nord del paese, permette a Modi di ristrutturare il partito a suo piacimento mettendo ai margini i suoi due leader più importanti, L.K. Advani ed A.B. Vajpapee. Se nelle elezioni del 2014, la destra hindu ha centrato la propria campagna elettorale sull’inadeguatezza del Congresso a guidare il paese, la figura di Modi venditore di tè e la promessa di crescita economica per il paese, nel 2019 la maggioranza cala la maschera con una campagna elettorale segnata dal hindu-nazionalismo. a cui l’attuale campagna elettorale fa riferimento in modo ancora più spinto.
Dieci anni di riforme
Forte della personalizzazione del partito e della relegazione delle opposizioni a uno status di minoranza residuale – l’Inc nel 2019 conquista 52 seggi, il peggior dato di sempre – inizia una serie di riforme atte a mutare la fisionomia della Repubblica indiana.
Le direttive annuali National Education Policy hanno portato a una ristrutturazione del sistema d’istruzione in senso nazionalistico, con la riscrittura della storia del subcontinente in senso islamofobico ed hindu-suprematista, ed antidemocratico, con il restringimento degli spazi di agibilità sia per il corpo docente che per quello studentesco. Le riforme di più forte impatto riguardano il diritto di cittadinanza e le riforme economiche in agricoltura. Riguardo alla prima, con il Citizens Amendement Act approvato nel 2019, si garantisce diritto di cittadinanza a hindu, cristiani, jain e buddhisti provenienti da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, in quanto minoranze nei paesi adiacenti ma nessun riferimento è fatto alle minoranze islamiche perseguitate nei rispettivi paesi. La riforma è uno strumento discriminatorio data l’esposizione dei cittadini richiedenti asilo a ripercussioni da parte delle istituzioni del paese di provenienza, ed alle difficoltà, se non impossibilità, di reperire la documentazione necessaria. A preoccupare gli osservatori internazionali sono la potenziale esclusione di persone apolidi e l’uso della burocrazia per cancellare selettivamente i dati di persone o gruppi di esse dai registri anagrafici. La società civile non ha esitato a rispondere a questo grave attacco alle minoranze del paese. A Delhi la piazza di Shaheen Bagh guidata dalle donne è stata un presidio popolare e catalizzatore delle proteste di massa. Anche le Università hanno avuto un ruolo centrale nell’organizzazione delle lotte, portando a un innalzamento del discorso politico a livello sistemico con una critica serrata all’azione governativa. Gli studenti coinvolti nelle proteste pagheranno un caro prezzo, subendo una dura repressione da forze di polizia e da picchiatori dell’ultra-destra, e venendo incarcerati con accuse sommarie di attività anti-nazionali. Tra questi, Umar Khalid, attivista dell’organizzazione United Against Hate ed ex-rappresentante degli studenti dell’Università Jawaharlal Nehru University, è da oltre 1300 giorni in carcere senza sentenza di condanna da parte della corte giudiziaria. Il punto più alto dello scontro sulla riforma si ha nel febbraio 2020, nei giorni della visita istituzionale dell’ex Presidente Usa Donald Trump a Delhi. In quei giorni la capitale è teatro di sanguinari scontri tra hindu-nazionalisti e musulmani: parti dei quartieri islamici del nord-est di Delhi vengono rasi al suolo, due moschee vengono invase dalle folle e sulle sommità vengono issate bandiere color zafferano – le stesse utilizzate dalla Rss. A fine giornata vengono registrati 58 morti.
La riforma e le conseguenti proteste di massa si fermano con l’arrivo della pandemia Covid-19 ed il lockdown dichiarato in diretta televisiva dal Primo Ministro Modi il 24 marzo 2020. Quel giorno, milioni di lavoratori migranti si ritrovano senza occupazione e costretti a tornare con mezzi di fortuna nei propri luoghi di provenienza senza poter usare alcun tipo di trasporto pubblico. La gestione della pandemia è disastrosa: agli insufficienti servizi sanitari pubblici insufficienti ed alle nulle misure di welfare – fatta eccezione per alcuni Stati governati dalle opposizioni –, si sono accompagnati i proclami degli esponenti della maggioranza contro la Cina e minoranze musulmane – colpevoli di aver diffuso il virus. A fine pandemia si conteranno tra i 3 ed i 4.7 milioni di decessi concentrati soprattutto nella seconda ondata della pandemia.
Nel giugno del 2020 riprendono le attività del governo, stavolta centrate sulla liberalizzazione del mercato agricolo. Le Black Laws, come definite dai contadini, completano il processo di apertura al libero mercato globale delle merci agricole iniziato nel 1991 con la New Political Economy, smantellando definitivamente il sistema di mercati statali, disintermediando il rapporto tra coltivatori diretti e compratori, ed eliminando il minimo prezzo di vendita – Msp, che garantisce prezzi fissi su alcuni raccolti. Questa riforma ha l’effetto di aggravare le già precarie condizioni di contadini e piccoli produttori alle prese con il cambiamento climatico e l’indebitamento. La risposta dei contadini è immediata: i loro sindacati e quelli dei coltivatori diretti, scendono nelle strade del nord – soprattutto in Haryana, Punjab e nell’ovest dell’Uttar Pradesh – impauriti dalla possibilità di perdere le proprie terre. La mobilitazione fa un salto di qualità a partire dal 26 novembre dello stesso anno, quando i contadini circondano le porte della capitale indiana; nel mentre, è in corso il più grande sciopero del mondo che ha coinvolto 250 milioni di persone.
I presidi alle porte di Delhi e nelle principali città del subcontinente continueranno a oltranza grazie all’operazione di raccordo sindacale del SamyuktKisanMorcha – Skm, organizzazione che raccoglie oltre 300 sigle – creata nel corso della mobilitazione. Il 9 dicembre 2021 Narendra Modi appare in televisione in lacrime promettendo di cancellare le leggi. A oggi la promessa non ha avuto alcun sostanziale effetto se non quello di far riprendere le mobilitazioni dei contadini.
La crescita economica
Nei dieci anni di governo la legittimazione dei tratti autoritari e razzisti dell’azione di Modi viene legittimata dal grande sviluppo dell’India, proiettata come potenza globale. Le strategie Atmanirbhar Bharat – India autosufficiente – e Make in India, sono concentrate su digitalizzazione, attrazione di investimenti esteri in settori ad alta intensità di capitale, sviluppo delle infrastrutture necessarie ad accorciare i tempi della logistica, settore manifatturiero, e crescita dei consumi interni garantita dalla crescita demografica. A livello macroscopico, le proiezioni di crescita sembrano dare ragione alla narrazione adottata da Modi ma il diavolo sta nei dettagli.
Alla crescita dei dati macroscopici corrisponde una crescita delle disuguaglianze: l’1% della popolazione indiana possiede il 40% della ricchezza complessiva del paese; a fronte di un aumento del Pil del 7.6% previsto per il 2024, c’è una crescita dei consumi privati del 2.8%, e nel settore agricolo – in cui sono impiegate oltre 600 milioni di persone – è prevista una crescita dello 0.8%, in un anno in cui è previsto un calo del 6% del totale dei raccolti. I soli a crescere sotto Modi sono stati miliardari e gruppi finanziari, che grazie a facilitazioni e concessioni, hanno potuto costituire oligopoli. In particolare, i due uomini più ricchi dell’India Gautam Adani e Mukesh Ambani hanno potuto diversificare le proprie attività in settori che vanno dall’agricoltura alle telecomunicazioni, dal retail alle infrastrutture, con deregolamentazioni e commesse statali garantite proprio dai governi Modi.
In ultimo, la situazione occupazionale del paese è disastrosa. Nel report sul lavoro in India del 2024 rilasciato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – Ilo – si registra il 90% della forza-lavoro del paese impiegato in modo informale, con un leggero scostamento dal settore agricolo in favore dai settori dei servizi e delle costruzioni. La platea dei disoccupati è composta per l’83% da under 25, e per i giovani laureati il tasso di disoccupazione si aggira sul 76.7% per le donne e 62.2% per gli uomini. Per molti di loro l’alternativa migliore è migrare nelle metropoli indiane o all’estero, dove le rotte di migrazione portano nel migliore dei casi nell’occidente, più precisamente in Arabia Saudita, Emirati Arabi, Europa o nell’America del Nord..
La violenza politica come strumento
Alla violenza istituzionale delle leggi di cittadinanza segue la sottrazione delle condizioni di minima sussistenza di soggetti definiti secondo linee di casta, etnia, classe e genere. Quello che abbiamo definito inizialmente come comunalismo è quel dispositivo cresciuto all’interno del discorso nazionalista che ha segnato la storia del subcontinente fin dall’inizio del suo processo politico, quindi crescendo anche sotto l’egida di forze progressiste e del partito del Congresso. Il risultato di questa politicizzazione è ora capitalizzato dalle forze di destra hindu-nazionaliste, in particolare del Bjp. La violenza politica generalizzata, legittimata dalle parole di leader dell’ultradestra, è il dato che più sconvolge. Le parole di Modi pronunciate in un comizio nel Rajasthan rendono l’idea di come il nazionalismo sia capace di legarsi a un certo individualismo proprietario e a dinamiche di risentimento che inevitabilmente conducono alla legittimazione di violenze contro minoranze ed opposizioni:
La legittimazione internazionale
Quello che era il perno dei paesi non-allineati e del sud globale sembra oggi una variabile impazzita dello scacchiere internazionale. La politica inaugurata a inizio del primo mandato del 2014-19 puntava a rafforzare le relazioni diplomatiche a livello regionale e territorio di conquista di egemonia da parte dell’ingombrante vicino cinese.
Nell’area, sono il Pakistan e la Cina le principali preoccupazioni dell’India. Il primo, nemico dello Stato dalla partizione post-indipendenza, è bollato come Stato canaglia per presenza di gruppi terroristici finanziati dal governo islamico. Con il vicino cinese invece i rapporti, già complicati, si sono aggravati perdiatribe sui confini delle regioni del Ladakh e dell’Arunachal Pradesh, registrati come parte del territorio indiano e reclamati dalla Cina. Seguono il deteriorarsi delle relazioni con il Nepal, il crescere di sentimenti anti-Indiani nel vicino Bangladesh, e la perdita di buone relazioni con le Maldive.
Negli ultimi anni, soprattutto con l’affidamento del Ministero degli Affari Esteri a S. Jaishankar, l’India sta adottando una visione delle relazioni internazionali centrata sulla propria autonomia strategica e di multi-allineamento con diversi, e talvolta antagonisti, blocchi di potenze egemoniche. Con questa postura, ogni rimasuglio dell’India come paese leader del non allineamento dei paesi del sud del mondo è utilizzato come mero mezzo tattico per legittimare la propria posizione nello scacchiere internazionale. La presidenza indiana del G-20 2023 è stato un mezzo per erigere il subcontinente come voce del sud del mondo, definendo il proprio operato nel motto One earth, One family, One earth, e presentandosi come modello di crescita per i paesi in via di sviluppo.
Molto più confuso è il posizionamento tra i blocchi egemonici globali, in cui la definizione di autonomia strategica non basta a spiegare come l’India definisca i propri alleati e con quale visione si affacci al mondo. Da alcuni elementi si può trarre una comprensione dei capisaldi del posizionamento nel globo: il commercio come driver delle partnership globali, avvicinamento a paesi nemici dei propri vicini in ottica di sicurezza interna, e stretta di alleanze con governi islamofobi. Con questi elementi si spiegano il rafforzamento delle relazioni commerciali con la Russia ed Iran, e il contemporaneo rafforzamento dell’accordo Quad sulla sicurezza dell’area indo-pacifica siglato con Usa, Giappone ed Australia e l’accordo I2U2 con Usa, Arabia Saudita e Israele.
A completare il quadro è l’avvicinamento dell’India ad Israele. L’India sta venendo meno alla sua lunga tradizione di vicinanza alla popolazione palestinese e al suo storico impegno nelle sedi internazionali per il riconoscimento dello Stato palestinese. Il rafforzamento dei rapporti con il governo Nethanyau è passato per l’aumento del volume di import-export di armi. Le relazioni sono rette da un paradigma di pensiero per cui, secondo Azad Essa del Middle East Eye, «gli indiani che supportano Israele vedono musulmani e palestinesi come la stessa cosa: arretrati, problematici e incivili. Questo accresce un sentimento islamofobo e crea nuovi modi di denigrare i musulmani».
*Luca Mangiacotti, è studente di Scienze Politiche all’Università di Firenze, attivista del collettivo eXploit-Pisa e collaboratore della rivista online DinamoPress.
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