L’importanza di un femminismo di periferia
Un saggio indaga la marginalità e riflette sull’organizzazione sessista delle città proponendo una sfida alle periferie: diventare centrali nel cambiamento sociale
Se lo spazio è un prodotto sociale, come sosteneva il filosofo e urbanista Henri Lefebvre, non è dato una volta per tutte ma è piuttosto il risultato delle dinamiche sociali, delle relazioni di potere e delle interazioni umane che si svolgono in un determinato contesto. In altre parole, questo spazio non è solo uno sfondo su cui si svolgono le attività umane, ma è attivamente plasmato e creato dalla società stessa.
Se consideriamo quindi lo spazio come un prodotto sociale, è essenziale esaminarne anche le implicazioni politiche. Rivendicare il «proprio» spazio significa, quindi, lottare per il riconoscimento e l’inclusione, contro le marginalizzazioni e le discriminazioni.
Per le donne, la propria libertà si misura sempre con lo spazio che non è solo fisico, ma anche sociale, politico e simbolico. Impossessarsi di uno spazio significa dunque affermare la propria autonomia, rivendicare il diritto di esistere e di essere visibili.
La dimensione fisica dello spazio rappresenta il terreno su cui si costruisce la libertà di movimento e di azione, mentre la dimensione non fisica sottolinea l’importanza di conquistare uno spazio psicologico e sociale dove le donne possano essere pienamente sé stesse, libere da limitazioni e stereotipi imposti dalla società.
E se esistesse una correlazione fra la condizione sociale, politica, economica e familiare di una donna e il luogo di provenienza e/o domicilio? È questo il tema cardine del libro Femminismo di periferia (Sonda) di Martina Miccichè, giovane attivista e fotoreporter nata e cresciuta in Comasina, un quartiere alla periferia nord di Milano.
Lo spazio urbano non considera le esigenze delle donne e dei soggetti marginalizzati o minoritari, e questo perché si sviluppa intorno a un modello di società capitalista e patriarcale.
Se la città non è a misura di donna, lo è ancora meno la periferia. In questo contesto, le donne affrontano maggiori sfide legate all’accessibilità, alla sicurezza e alle opportunità. La periferia, spesso trascurata dal punto di vista delle risorse e dei servizi, può limitare ulteriormente la partecipazione attiva delle donne che rimangono ai margini, fisici e simbolici. Affrontare questa disparità richiede un approccio complessivo che consideri la progettazione urbana e la pianificazione territoriale alla luce delle specifiche esigenze femminili, promuovendo un’uguaglianza di genere e di classe, per l’inclusione anche nei contesti periferici.
Del resto come affermato dall’urbanista Jane Jacobs, «le città sono un insieme di connessioni umane» e questa interazione costante tra individui e tessuto urbano modella sia la forma della città che la vita delle persone al suo interno.
La città, intesa come prodotto tangibile della società, riflette, quindi, le dinamiche di potere e le disuguaglianze di genere e intersezionali presenti nella nostra cultura. Nell’esplorare il rapporto tra città e differenze di genere, emergono chiaramente dinamiche che favoriscono la maggior parte degli uomini a discapito di moltissime donne.
Gli spazi pubblici, concepiti come luoghi di incontro e condivisione, spesso escludono le donne marginalizzate, che subiscono discriminazioni e svantaggi in vari ambiti della vita a causa di diversi fattori, come il basso reddito, la mancanza di istruzione, la discriminazione di genere, la violenza e gli stereotipi di genere. Un problema che non riguarda solo le donne ma anche le persone trans e non binarie.
È soprattutto il timore di subire una violenza a limitare la possibilità di movimento e di azione creando la cosiddetta «geografia della paura».
L’accesso agli spazi pubblici è una componente cruciale della vita urbana e della partecipazione sociale. L’esserne escluse non solo limita le opportunità di socializzazione, ma impedisce di sfruttare appieno i servizi e le risorse presenti nella città.
Micciché sembra fare eco a Leslie Kern che in Feminist City afferma: «La misura in cui unə può semplicemente ‘stare’ nello spazio urbano ci dice molto su chi detiene il potere, su chi sente che il proprio diritto a vivere e sperimentare la città sia naturale e scontato, e su chi sarà sempre considerato fuori posto».
Uscire, anche solo temporaneamente, dalla periferia non è semplice. L’organizzazione dei trasporti pubblici, elemento chiave nella vita urbana, può anche perpetuare disuguaglianze di genere perché, come spiega Micciché sulla base della sua esperienza personale, spesso le aree periferiche ne sono sprovviste e diventa complicato, oltre che pericoloso, spostarsi.
Le periferie, essendo generalmente meno attraversate, hanno una minore domanda di trasporto pubblico. Questo rende il servizio meno redditizio per le compagnie di trasporto, che sono meno incentivate a investire in nuove infrastrutture o a mantenere una frequenza come nelle zone più densamente abitate o semplicemente privilegiate. Si crea così una «città a due velocità» con una mobilità limitata per chi vive fuori dal centro.
La periferia è considerata l’ultimo orlo urbano, e questo già ci dice molto sullo sguardo che la descrive, perché «è ultima rispetto al centro della città, ma è in verità la prima per chi arriva da fuori, in ingresso, ed è centrale per chi la vive». La questione della prospettiva è uno degli elementi chiave di cui tener conto quando si cerca di trovare il significato degli spazi urbani, proprio perché è in grado di spiegarne l’origine e lo scopo. La periferia è una dimensione spaziale che si è formata seguendo i processi socio economici della società in cui è collocata seguendo la traiettoria della disparità di classe. Le periferie, nate per la working class, rimangono funzionali al capitalismo che ha ancora bisogno di «vaste distese declassate a spazi meno importanti per poter estrarre quanto necessario a realizzare gli accumuli di ricchezza che si esprimono poi nei centri del mondo».
Salvo poi decidere di eleggere degli spazi specifici come «cool» e che da periferici diventano centrali nell’immaginario collettivo. Quartieri precedentemente considerati «svantaggiati» vengono ristrutturati, attirando una nuova classe di residenti più abbienti, il che comporta un aumento dei prezzi degli immobili e una trasformazione della comunità che vi abita.
Le comunità gentrificate spesso subiscono cambiamenti demografici significativi. Le donne, che tradizionalmente svolgono ruoli chiave nella creazione e nel mantenimento delle reti di supporto comunitarie, possono perdere connessioni importanti quando le comunità vengono frammentate a causa di questo fenomeno.
Micciché ci invita a leggere la città in termini intersezionali, per far emergere come ogni elemento sia calcolato sul corpo maschile privilegiato.
Le città, spesso non tengono conto di specifiche esigenze femminili, creando un ambiente urbano che le discrimina e le marginalizza. La mancanza di asili nido accessibili, di centri per le donne vittime di violenza e di consultori familiari adeguati rappresentano solo alcuni esempi di questa disparità.
Il lavoro di cura ricade ancora in larga parte sulle donne e va a sommarsi alle difficoltà quotidiane, ostacolando la loro carriera, il loro tempo libero e la loro partecipazione alla vita sociale. Le donne si trovano quindi ad affrontare una doppia sfida: quella di conciliare lavoro e famiglia e quella di muoversi in un contesto urbano spesso ostile e insicuro.
Ciò da evitare è che le proposte avanzate dalle associazioni di attiviste vengano discusse solo in aree centrali della città, finendo per portare miglioramenti unicamente in quartieri già ben collegati o con al loro interno scuole, biblioteche, centri culturali, librerie, luoghi di aggregazione, spazi museali, parchi o esercizi commerciali che invece mancano nei poli non centrali.
Oltre alle donne, migranti, persone anziane e con disabilità sono coloro che più risentono degli aspetti negativi dello stare in periferia. Nel primo caso la difficoltà di accesso ai servizi si lega a discriminazione e xenofobia. Per gli altri, oltre alle barriere architettoniche, la carenza di servizi di assistenza domiciliare, di trasporto adeguati rende loro difficile avere una vita indipendente.
La marginalizzazione sociale ed economica, spesso concentrata nelle periferie, può spingere verso la devianza come forma di sopravvivenza o ribellione. Quando le strutture o la società falliscono nell’offrire opzioni dignitose aumenta il rischio di cadere nella criminalità per tutti i soggetti marginalizzati
Il binomio periferia-delinquenza si regge sugli stessi assi di esclusione della questione femminile.
I confini delle metropoli sono un luogo difficile anche per gli animali. Miccichè denunciando la violenza specista che si esplica nei mattatoi, non-luoghi relegati ai margini, auspica a una diversa convivenza fra le specie. Qui troviamo una connessione con la questione del cambiamento climatico, in una prospettiva di critica alla visione antropocentrica.
Come dovrebbe essere una città femminista? Micciché non offre soluzioni concrete ma analizza le criticità per aprire un dibattito sul tema e ripensare le priorità. Per costruire una città che sia equa e giusta per tutte le persone (e gli animali) che la abitano. È in questo scenario che interviene il «femminismo di periferia» come una forma di attivismo e di pensiero che nasce e si sviluppa in un contesto specifico: la periferia urbana. Il femminismo di periferia è una resistenza radicata in un territorio ben preciso, espulso dallo spazio cittadino e relegato ai margini.
Il femminismo di periferia non si limita a rivendicare l’inclusione nel centro cittadino, ma mette in discussione la dicotomia stessa centro-periferia. Propone una visione alternativa della città, in cui le periferie non siano considerate come zone di scarto, ma come luoghi di resistenza e di produzione di nuovi modelli di vita.
*Lucia Antista, giornalista pubblicista, scrive di cultura, diritti e fenomeni dell’era digitale per diverse testate, tra cui Lampoon, Siamo Mine, Link idee per la tv, Informazione senza filtro, Artribune e Artslife.
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