Perché ci sono così poche statue di donne?
Al di là di sante, madonne e delle figure della Vittoria, della Patria, dell’Italia, esistono pochissime rappresentazioni monumentali femminili. Occorre invertire la rotta nella costruzione della memoria e dello spazio pubblico delle nostre città
Negli ultimi mesi abbiamo vissuto esperienze che paiono aver mostrato, soprattutto sulla pelle delle fasce di popolazione più deboli, tutte le contraddizioni e le brutture dei nostri sistemi sociali, economici e politici; gli strascichi della pandemia che ha investito la vita di chiunque a livello globale continuano a segnare le nostre quotidianità e spingono a rimettere in discussione quella «normalità» che solo qualche mese fa sembrava non solo auspicabile, ma addirittura immodificabile.
Ad esempio, il dibattito sulla gestione dell’ordine pubblico, scoppiato in seguito al movimento di protesta negli Usa dopo l’uccisione di George Floyd, non ci ha solo riproposto il tema della militarizzazione delle città e degli abusi da parte della polizia, ma ci ha prepotentemente ricordato che gli spazi che viviamo non sono spazi neutri.Intendiamoci, lo spazio sociale si configura tramite modelli culturali, codici, linguaggi e relazioni intrecciati dalla società: lo spazio è anche e soprattutto spazio politico, nel quale entrano in gioco significativi processi di costruzione identitaria. La città, nello specifico, è tipicamente lo spazio costruito dall’uomo non solo nei suoi tratti materiali, ma anche sociali, economici e politici.
La messa in discussione dei simboli presenti nelle piazze e nelle strade del mese appena concluso è l’evidenza del disagio che scaturisce dall’univocità delle narrazioni cittadine, dall’esclusione politica di più di una rappresentanza dai nostri spazi fisici, in tutto il mondo.
Qualche giorno fa, come collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, ci siamo interrogate e interrogati in particolare sull’assenza delle donne nella celebrazione pubblica dei monumenti italiani.
Senza approfondire sulla toponomastica, che comunque vede solo sette vie su cento portare il nome di donne, come denunciato dall’associazione «Toponomastica Femminile», o sulle targhe dedicate a figure femminili, è palese l’assenza delle donne nei nostri monumenti pubblici.
Abbiamo provato a stilare una lista di statue e monumenti civili dedicati alle donne ed esposti nello spazio pubblico, ed è brevissima. Alcuni ritraggono donne che si sono distinte in ambienti considerati maschili, come Eleonora d’Arborea, giudice firmataria di un codice particolarmente avanzato per il quattordicesimo secolo, come Grazia Deledda, prima donna a vincere un nobel e come Maria Montessori, pedagogista e scienziata italiana, nota per l’omonimo metodo educativo. A Roma troviamo la statua di Anita Garibaldi, rigorosamente col nome del marito, e a Milano quella della scultrice Rachele Bianchi, peraltro realizzata dall’artista stessa e donata alla città dal figlio. Ci sono poi alcuni monumenti funerari, statue all’interno di edifici pubblici, come quella a Elena Cornaro Piscopia nell’Università di Padova, in quanto prima donna laureata in Europa, e qualche busto.
È chiaro che la scarsissima presenza di figure femminili nel nostro patrimonio culturale di tipo celebrativo sia figlia di una storia distorta dal tentativo di creare un immaginario pubblico di tipo androcentricoe spinge a riflettere sul silenziamento non solo delle personalità non conformi ai modelli normati, ma di tutta una parte di umanità e storia ritenuta non particolarmente degna di memoria.
D’altro canto, è l’analisi della presenza della figura astratta femminile ad averci incuriosito: madonne e sante, trasfigurazioni allegoriche della Patria e della Vittoria, patriote, madri e piangenti.
Non ci siamo addentrate nel cosmo delle raffigurazioni religiose, che oggettivamente vedono bizzeffe di statue femminili, anche se alimentano un modello discutibile di castità, purezza, sacrificio, annullamento. Ci preme maggiormente ragionare sul ruolo delle statue laiche, spesso allegorie e figure ancillari: anche in questi casi le prospettive non cambiano di molto; in linea generale le raffigurazioni femminili hanno i ben poco lusinghieri caratteri di anonimia, idealizzazione e stereotipia.
Il discorso è simbolico e politico: tramite queste raffigurazioni, sui corpi delle donne si costruisce il senso della nazione e si misurano i suoi confini culturali e morali rispetto alle altre. Le donne sono relegate in spazi di impossibilità ben precisi da cui non possono sentirsi legittimate a fuggire, né emergere come individualità, perché hanno il ruolo di rispecchiare i valori utili all’identità nazionale come la cura, l’aiuto, il sacrificio, il nutrimento, la maternità e finanche la bellezza: valori che rappresentano la strumentalizzazione propagandistica di una visione ristretta del contributo che le donne possono dare e danno alle loro comunità.
Non si tratta quindi solo di un’assenza delle donne dagli spazi pubblici, ma anche di una presenza, per così dire, manipolata. Quante donne italiane riescono davvero a identificarsi in sante e madonne? E quante riescono a sentirsi celebrate nelle figure di Vittoria, Patria, Italia? Tutte le altre non potranno che sentirsi ignorate e svilite, fuori dai processi storici. È chiaro che una tale narrazione non può essere accettata supinamente: è anzi sano ridiscutere i processi storici e culturali che sono stati alla base della scelta dei nostri monumenti. Un cambiamento vero di queste narrazioni può venire soltanto e anzitutto attraverso un lento lavoro di rielaborazione collettiva: dovrebbe essere prima di tutto un cambiamento culturale.
Bisogna riconoscere, tuttavia, che spesso è proprio nelle istituzioni culturali che si perpetuano le basi e la costruzione di narrazioni poco inclusive: pensiamo alle istituzioni accademiche e, ancor prima, scolastiche italiane. Nelle accademie in particolare, ambito d’azione di quelle che vengono riconosciute come «élite culturali», sono ancora molti i problemi legati al maschilismo,secondo una tendenza strettamente legata al mantenimento dei privilegi.L’università italiana, con poche e specifiche eccezioni, sembra essere quasi completamente estranea a qualsiasi tipo di sensibilità di genere, tanto negli approcci quanto nei programmi, e i docenti, anche in corsi di laurea dove la grande maggioranza degli iscritti sono studentesse, sono spesso in maggioranza uomini. Da professioniste dei beni culturali possiamo dire di averlo vissuto in prima persona: l’università, per prima, genera politica basata su rapporti di potere. Ma anche al di fuori dell’università, nel mondo del lavoro, il settore culturale non è affatto privo di discriminazioni di genere, come ha mostrato un’inchiesta che il collettivo «Mi Riconosci?» ha svolto l’anno scorso. E se proprio nel mondo della cultura si produce discriminazione, il cambiamento che auspichiamo non può che partire da lì e creare dei cortocircuiti.
Chiaramente non possiamo proporre qui delle soluzioni alle questioni che abbiamo aperto, ma almeno possiamo dire di cosa abbiamo bisogno per migliorare. Occorre invertire completamente la rotta a partire da un serio lavoro di sensibilizzazione delle accademie e dalla rifunzionalizzazione dell’arte tra musei, piazze e strade; abbiamo bisogno della costruzione di un dibattito pubblico più ampio, che vada al di là del bivio banalizzante «distruggere o conservare», per lo sviluppo di una narrazione storica più accessibile, nei linguaggi e nelle sedi.
Abbiamo bisogno di pensare una nuova monumentalità, diversa, e di usare la rappresentazione per cambiare una narrazione che, come detto più volte, ha generato e continua a generare ingiustizia.Ci servono monumenti che mettano in luce tanto le condizioni di violenta subordinazione che hanno vissuto generazioni e generazioni di donne comuni, private di riconoscimento pubblico del loro valore, quanto il contributo importantissimo che alcune di esse, nonostante tali condizioni, hanno dato alla società.
C’è bisogno di fornire alla collettività gli strumenti necessari per comprendere che tutti i nostri spazi pubblici potrebbero essere diversi da come sono, e che se sono così è per motivi storici e modelli culturali che è il momento di mettere in discussione.
*Alexandra Forcella è studentessa di archeologia nell’università di Chieti, vive in Abruzzo; Benedetta Lisotti è studentessa di storia dell’arte dell’università La Sapienza di Roma; Ester Lunardon è archeologa. Tutte e tre sono attiviste del collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali
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