Scienza, scienze, pugni
La comunità scientifica, orfana di sinistra e di risorse, si difende affidandosi a un'idea tecnocratica e gerarchica dei ruoli sociali. Ma la torre d’avorio non è una roccaforte ma una prigione da cui bisogna uscire
speak the truth to power […] speak the truth directly to the people (Patricia Hill Collins, On Intellectual Activism, 2012).
La comunità scientifica italiana, orfana di sinistra e di risorse, con poca speranza si affida alla rabbia per tirare avanti, e mena pugni laddove può come fosse sul ring. Implora il sostegno di chiunque si finga disposto ad ascoltarla, raccogliendo promesse, pagherò, ingiurie. Ma la torre d’avorio non è una roccaforte: è una prigione. Non offre rifugio: ci rende deboli pedoni. Il ring è una trappola.
Il contrario di Candido, o della rabbia
…il Dunning-Kruger si cura piuttosto bene con le bastonate nei denti e i calci negli stinchi… (Claudio Tucci, commento ad un post su Facebook, 2019).
Non c’è via di fuga. Quello in cui viviamo è l’unico mondo possibile, l’unico in cui ci è dato vivere, l’unico che possiamo cercare di cambiare. Da queste premesse Candido, l’ineguagliabile ottimista creato da Voltaire, conclude che «viviamo nel migliore dei mondi possibili». Logicamente non fa una piega: essendo l’unico, è il migliore. Con la stessa ferrea logica possiamo concludere anche il contrario di Candido: viviamo nel peggiore dei mondi possibili.
La posizione più comoda, in tempo di crisi, è quella del contrario di Candido. Sotto le macerie di una università pubblica sempre più povera, sempre più ingabbiata in bizantine procedure burocratiche, di fronte a un circo di promesse elettorali mai mantenute — i fondi sono sempre promessi, mai concessi —, di fronte alla costruzione di costose cattedrali nel deserto, divisi e bastonati — soprattutto bastonate —, “questo è il peggiore paese in cui fare ricerca”, il contrario di Candido. Una posizione comprensibile, comoda, assolutoria. Non è nemmeno un paese in cui fare le insegnanti, le fattorine, le commesse, le designer, le operaie, o semplicemente essere donne; ma, rincorrendo l’ennesima pubblicazione, non rimane tempo per guardarsi attorno. Gli altri paesi, poi, sono veramente messi meglio? E chi la trova la forza di fare fronte comune? Ci rimane la rabbia.
Dicevano: studiate, troverete un lavoro di prestigio. Ci avevano promesso folgoranti carriere, abbiamo fatto tutti i sacrifici necessari, anni di studio; ci troviamo a inseguire un rinnovo del contratto ogni sei mesi. E nemmeno un grazie: in televisione, a parlare di vaccini, chiamano Red Ronnie; sugli Ogm leggono Michele Serra; il negazionismo climatico; le scie chimiche. Il signoraggio e la terra piatta, piatta, piatta. Ci hanno tradito. Mannaggia a loro. Dovrebbero star zitti e ascoltare. E togliere il voto, a quelli. Dovrebbero zittirli per sempre.
Ma “quelli” chi? E “noi” chi siamo? A cosa, e come, stiamo reagendo?
Hanno sempre un incubo nel cassetto
A letto, posato il libro sul comodino, non riusciamo ancora a dormire. C’è quel tarlo; quel pensiero fastidioso; quella paura. Cosa ci tiene svegli, la notte? Ognuno ha i suoi fantasmi. Certi fantasmi superano la dimensione personale: catturando tensioni profonde della società diventano sentire comune, pezzi della nostra cultura. Il babau, le streghe, l’olocausto nucleare, i super-batteri, gli alieni. Si alimentano con i “tempi bui”, con il “nemico alle porte”, con l’instabilità economica; vengono nutriti dalla propaganda politica, dai titoli dei giornali, dai racconti dei vicini, dai post sui social. Acquistano vita autonoma.
Ci sono due spauracchi che sembrano aver particolare presa in Italia, da un paio d’anni (diciamo, dal 2016). I vaccini e i “no-vax”. Sarebbe un errore considerare equipollenti i due “mostri”, nonostante la loro evidente simmetria.
I vaccini salvano vite, tante; sono importanti perché difendono vecchi, bambini, immuno-depressi, chi è più esposto, chi non ha avuto la possibilità di vaccinarsi (per mille motivi). Mar lavora in Senegal, dove aiuta una Ong che si occupa di abusi sessuali, e dal suo punto di vista non ha dubbi a riconoscere l’espressione di un privilegio occidentale nelle posizioni no-vax: «La tubercolosi era un enorme problema qui, e la disponibilità dei vaccini ha fortemente ridotto la mortalità. Ma gli europei e gli statunitensi, pur avendo così tante risorse e conoscenze a portata di mano, decidono di mettere le loro comunità, i loro figli, a repentaglio? Molti dei dottori e delle dottoresse locali lavorano con la nostra Ong proprio perché abbiamo progetti che portano vaccini, medicine e Rutf [ready to use therapeutic food, cibi terapeutici pronti per l’uso, ndt] in villaggi isolati. Vorrei poter farvi vedere le facce delle mie colleghe – Senegalesi, Camerunensi, del Togo, del Benin, del Burkina Faso – quando spiego loro chi sono i no-vax». I vaccini sono una risposta comunitaria: paghiamo un certo costo (nella forma di un piccolo rischio da accettare: nessun medicinale, nemmeno l’aspirina, è mai totalmente sicuro) per salvaguardare chi ne pagherebbe uno molto, molto più grande. Una risposta che non conviene economicamente alle grandi aziende farmaceutiche. Una risposta alla paura che ha bisogno di sostegno politico per essere percorsa appieno.
I vaccini possono far paura. L’opposizione ai vaccini fa paura. È importante cosa ne facciamo delle paure: la nostra reazione determina che persone e che comunità siamo. Ad esempio, chi risponde allo spauracchio di un “nemico che arriva sul barcone” chiudendo i porti è schiavo della narrativa imposta dal potente di turno (fascista, xenofobo, nazionalista). Ma si può reagire diversamente. Si può guardare in faccia lo spauracchio, e riconoscere una persona, una persona come noi, costretta a scappare dalla guerra e dai disastri naturali; possiamo guardare in faccia l’invasione e accorgerci che è un fenomeno migratorio limitato, sostenibile, a cui possiamo rispondere con inclusione e integrazione. Le scienze, la visione critica e sistematica offerta della ricerca, sono strumenti rivoluzionari, se usati coscientemente. Consentono di pensare a soluzioni diverse, dischiudono futuri diversi.
Opporsi alla vaccinazione – in generale, disconoscere l’importanza delle conquiste medico-scientifiche – significa scaricare il rischio sui più deboli; fregarsene della comunità. Non è su queste basi che si fa la sinistra.
I vaccini sono degli oggetti liminali: al confine fra la biologia, la medicina, l’economia, il giornalismo, la comunicazione social e non (sono in grado di inventare nuovi personaggi famosi fra detrattori e sostenitori, dei quali alcuni si danno da fare per apparire in televisione mentre altri v’erano già, e quasi tutti si misurano a suon di copie vendute, like ricevuti, e followers arruolati). E la politica. Occuparsi di vaccini, o non parlarne affatto, è un gesto politico, oltre che scientifico: si tratta di salute pubblica, di rapporto fra stato e cittadini, di scienza e società, di chi debba avere l’ultima parola sulla salute degli individui, di chi debba o meno intervenire nel dibattito pubblico. Significa parlare, o non parlare, di chi debba prendere le decisioni, e ascoltando chi, nella nostra società. E infatti ci si trova presto a litigare su chi debba o meno aver diritto di voto, sulla opportunità del suffragio universale, sulla sua supposta sconvenienza, riproponendo così una polemica antica almeno quanto l’anonimo che nel V o IV secolo a.C. compose l’Athenàion politéia per lamentarsi dello spazio dato «alla canaglia, ai poveri, alla gente del popolo, anziché alla gente per bene» nella democrazia ateniese. La scienza è necessaria ma non può essere sufficiente ad affrontare tutto questo.
L’ideologia dei no-vax o dei “free-vax” (free as in free market) mi pare proporre, più o meno consapevolmente, valori liberisti e individualisti. Si oppone al socialismo della risposta comunitaria, con la stessa veemenza con cui Berlusconi e i suoi sostenitori si opponevano a una giusta tassazione.
Dall’altra parte, nella reazione allo spauracchio “no-vax”, troviamo sovente una visione gerarchica e tecnocratica che vorrebbe ristabilire un ordine sociale attraverso una rigida suddivisione dei ruoli sociali: chi fa il pane faccia il pane e non si immischi coi vaccini; chi ha la laurea (o la cattedra) parli, gli altri zitti e mosca; a chi è stupido, ignorante, la pensa in modo bislacco (leggasi, diversamente da me), venga tolto il voto.
Chiaramente, nemmeno queste premesse permettono di avanzare un progetto comunitario, di sinistra. Come possiamo reagire sia allo spauracchio dei vaccini che degli anti-vaccinisti? Non basta la scienza per affrontare questo nodo. Le risposte non si trovano nei libri di testo di microbiologia.
La Scienza: dentro il ring
Thinking, no doubt, plays an enormous role in every scientific enterprise, but it is the role of a means to an end; the end is determined by a decision about what is worthwhile knowing, and this decision cannot be scientific (Hannah Arendt, The Life of The Mind, 1971).
Come si enuclea una posizione ispirata a valori comunitari, cooperativi, democratici, aperti, e a favore della scienza? Non stiamo mischiando troppo politica e scienza, invocando una posizione di sinistra su una tematica scientifica? Riconosciamo il dottorato come esperienza lavorativa garantendone i diritti, o spremiamo i dottorandi 80 ore alla settimana per pubblicare di più? Usiamo il nostro tempo, scarsissimo, per sviluppare una didattica inclusiva, una pedagogia innovativa, o entriamo in classe solo quando non possiamo proprio delegare l’incombenza a qualche sottoposto malpagato? Ci battiamo per trovare i fondi necessari a pubblicare in Open Access, promuovendo l’accessibilità del sapere o mandiamo tutto a una rivista chiusa con impact factor alto, edita dalle solite case editrici con fatturati da capogiro? Come usiamo il nostro ruolo? A servizio di chi e cosa mettiamo la nostra autorevolezza? Dialoghiamo con la società civile o cerchiamo di far valere il nostro titolo? Ci facciamo gli affari nostri, così evitiamo ogni critica? Osiamo disturbare l’universo e questo imperturbabile ordine economico?
Altro che neutralità. Il quotidiano di una ricercatrice, di un docente, è un esercizio continuo di scelte politiche. Non c’è via di fuga. La “scienza pura” è un’illusione. In The Life of The Mind, Hannah Arendt ci ricorda che non basta la scienza per decidere quale problema scientifico affrontare e quale lasciare in pace, di cosa parlare e di cosa no. È una decisione estetica, economica, politica. Anche la scelta di non disturbare l’universo, di occuparsi di qualcosa di quanto più possibile distante dai conflitti sociali scoperti, di stare zitti, è una scelta politica. La mia sensazione è che la sinistra, questo dibattito, l’abbia abbandonato in partenza, incapace di individuare un modo di far esplodere il conflitto fra quei due spauracchi in modo utile.
Nella rete, la gran parte dei flame pro- e antivaccini (o pro- e anti- no-vax) si svolge interamente all’interno di una visione autoritaria e reazionaria della scienza, e quindi della società. Scientismo e antiscientismo si equivalgono nel tentativo di inquadrare le scienze come un corpo estraneo alla società, calato dall’alto. Da rigettare o da servire, a seconda della convenienza ideologica del momento. Da una parte chi disconosce ogni valore conoscitivo alla “Scienza ufficiale” (ma non ha problemi a riporre la propria fede nelle mani dello “scienziato antisistema”), dall’altra chi vorrebbe vivere in modo esoterico la produzione del sapere, concedendolo alla plebe come i sacerdoti concedono la Verità rivelata ai fedeli. Queste due posizioni sono spesso inconsapevoli e non esauriscono le posizioni in campo: rappresentano i poli estremi di un dibattito acceso, a tratti feroce. Da una parte un liberismo individualista senza alcuna empatia, dall’altra un autoritarismo, gerarchico e centralista. E in mezzo Beppe Grillo (un Movimento 5 Stelle che approdato al governo trova stretto l’individualismo radicale alla “uno vale uno” e cerca una formula più autoritaria) e Matteo Renzi (che, erede di un centralismo autoritario, teme qualcuno lo superi lungo il binario liberalista) che firmano la stessa petizione, un Patto Trasversale per la Scienza (o quantomeno la Scienza biomedica). Firmano il patto anche molti ricercatori e ricercatrici, più o meno noti, quelli che ci sperano ancora. Firma l’ex ministro Gelmini, dopo aver fatto il possibile per affossare la ricerca e l’università italiana, a conferma del carattere politico, teatrale, che inquadra lo scontro fra le due simmetriche paure. Anche chi ha direttamente attaccato la comunità scientifica può firmare per La Scienza. Salvini no, manca ancora Salvini, forse troppo preoccupato a nutrire altre paure.
E manca la sinistra: tra quei due poli estremi, cercando un compromesso fra autoritarismo gerarchico e individualismo libertario, non si trova e non si può trovare alcuna sinistra. Si rischia, piuttosto, di trovare un fascismo – storico o del terzo millennio a seconda dei gusti.
Sarebbe miope attribuire la responsabilità della situazione politica – farsesca? tragica? – a quella petizione. È un documento perfettibile – una S maiuscola in “Scienza” di troppo, una definizione operativa di pseudoscienza di meno, l’eccessiva preponderanza della medicina – proposto per cercare di uscire dal ring. Non per dare guantoni nuovi ai boxeur. Inevitabilmente il Patto è stato raccolto da chi era pronto a farlo, ad approfittare dell’occasione: raccoglie firme di chi si preoccupa per la salute pubblica o lo status delle scienze, e raccoglie le firme di chi si preoccupa per le prossime elezioni.
Non c’è via di fuga. La comunità scientifica, incapace di essere a pieno comunità, di fare politica comunitaria, è un vaso di coccio tra due vasi di ferro.
La comunità scientifica: fuori dal ring
Speak the truth to the people/ Talk sense to the people/ Free them with reason/ Free them with honesty/ Free the people with Love and Courage/ and Care for their-Being (Mari Evans, I Am a Black Woman, 1970)
Stephen Coleman, in Can The Internet Strengthen Democracy?, spiega come quello che stiamo vivendo è prima di tutto una richiesta di maggiore e più diretta partecipazione democratica ai processi decisionali che coinvolgono i cittadini. Leggerla come una messa in discussione dell’expertise di scienziati e tecnici è limitante, forse fuorviante. Di nuovo, non c’è via di fuga percorribile: la comunità scientifica non può sottrarsi a questa richiesta di democratizzazione, di confronto con e all’interno della società e al contempo mantenere una funzione sociale rilevante. Credo non sia il caso di lasciare la comunità scientifica a Renzi e Grillo – o, peggio, di far finire la scienza in mano a chi ancora insegue la (pseudo)Scienza della Razza. Non a chi ci vorrebbe sacerdoti, nè a chi ci vorrebbe fuori dalle scatole. Dobbiamo, allora, costruire una spazio di sinistra per quella parte di noi, comunità scientifica, che ha ancora voglia di lottare.
Il momento è propizio. Il contesto sociale è favorevole: sicuramente molto di più di quanto non lo fosse la società statunitense affrontata da Mari Evans e il movimento dei diritti civili. Gli scienziati non devono sedersi fra le ultime file dell’autobus, e non sono cacciati dai ristoranti. Se Mari Evans sapeva invocare l’amore, il coraggio, e la cura (care) come risposta, questi strumenti democratici sono disponibili anche a noi. Non sta tornando nessun “medioevo” (che poi tanto buio non era). O, almeno, i dati che abbiamo a disposizione – ad esempio quelli dei report di Observa – parlano di una alfabetizzazione scientifica crescente, in Italia. E parlano di una diffusa fiducia nei confronti della comunità scientifica e medica. Anche a voler forzatamente leggere i dati sulla copertura vaccinale come atteggiamento antiscientifico, la breve e lieve flessione è stata superata.
Immaginiamo un futuro migliore, un po’ più Candido. Ci son tante cose che dobbiamo fare: dobbiamo intendere il metodo scientifico anche come sistematica critica a quanto è dato per scontato, vedere la ricerca anche come esplorazione che disconosce i confini, pubblicare scienza anche come produzione e circolazione di beni pubblici, divulgare anche come confronto democratico; dobbiamo assumerci in pieno la responsabilità etica e politica delle nostre scelte, anche quelle a prima vista meramente tecniche (è importante in questo ambito il dialogo sul rapporto fra etica e analisi dati reso urgente dal diffondersi della data science); dobbiamo riconoscere, con Foucault, le scienze, soprattutto La Scienza, come dispositivo di potere e cercare di scardinarlo; dobbiamo organizzarci. Adottando le parole di Patricia Hill Collins che aprono il pezzo, dobbiamo usare il sapere scientifico per «dire la verità ai potenti [e] dire la verità al popolo».
E se per caso ve lo foste chiesto, no: non c’è alcuna evidenza scientifica che calci e pugni curino l’effetto “Dunning-Kruger”, la distorsione cognitiva che ci porta a sopravvalutare le nostre capacità maggiormente negli ambiti in cui siamo meno esperti. David Dunning, uno dei due psicologi che hanno individuato l’effetto, alla domanda «chi è affetto da Dunning Kruger?» risponde «la singola caratteristica che rend[e] una persona soggetta a questo auto inganno […] è respirare».
*Giulio Valentino Dalla Riva è lecturer in Data Science all’Università di Canterbury (Nuova Zelanda). Si occupa di filogenesi, reti complesse e delle implicazioni etiche della Data Science.
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