
Un anno senza Convenzione
Il 20 marzo del 2021 il governo turco annunciava il ritiro dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne: una mossa per distrarre l'elettorato conservatore dalla crisi economica che attanaglia il paese
Nella mezzanotte del 20 marzo 2021, il governo turco ha emesso un decreto ministeriale annunciando la decisione di uscire dalla Convenzione di Istanbul. La Turchia è effettivamente uscita dalla Convenzione lo scorso luglio, nonostante l’opposizione di migliaia di donne scese in piazza a manifestare in tutto il paese. Nel frattempo, i casi di violenza di genere in Turchia aumentano, mentre le attiviste turche segnalano che molti femminicidi rimangono ignorati o impuniti.
La Convenzione di Istanbul
In Turchia le donne hanno votato per la prima volta nel 1930, prima di tanti paesi europei, compresa l’Italia. Negli anni Ottanta c’è stata una prima ministra donna, Tansu Çiller, anche se oggi la componente femminile in parlamento non supera il 17%. In Turchia esiste una fitta rete di associazioni, centri per donne e attiviste che riescono a mobilitare molte persone con proteste frequenti e partecipate, ma a volte manifestare è un rischio, non sono rari gli scontri con la polizia, gli arresti e le detenzioni arbitrarie.
Nel 2011, la Turchia è stato il primo paese a firmare e ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, la Convenzione di Istanbul. Dopo un decennio, lo stesso il governo del paese che ne fu promotore ha deciso di uscirne.
Seguendo i principi di prevenzione, protezione, persecuzione e coordinamento delle politiche, la Convenzione di Istanbul definisce gli standard internazionali per criminalizzare tutte le forme di violenza di genere, obbligando i 47 paesi firmatari, tra cui anche l’Italia, ad adottare tutte le misure in materia di violenza contro le donne.
Nel 2012, la Turchia ha adottato la legge n.6284 per «proteggere la famiglia e prevenire la violenza contro le donne», mentre il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan al potere ha lanciato piani d’azione nazionali per l’uguaglianza di genere.
Tuttavia, secondo molte attiviste, il sistema turco continua a fallire quando si tratta di proteggere la componente femminile della popolazione. Sebbene la legge n.6284 sia tuttora inclusa nel sistema legislativo turco, ci sono dubbi sull’efficacia della sua implementazione, ed era così anche per la Convenzione di Istanbul.
Ne è convinta anche l’attivista turca di 19 anni Selin Özünaldım, che collabora con UNWomen e HeforShe per promuovere la lotta alla parità di genere:
Anche la Convenzione di Istanbul non era applicata in tutti i suoi punti – dice Özünaldım – quello che cambia adesso è che non abbiamo più un sistema internazionale come riferimento e monitoraggio per proteggere le donne, punire aggressori e carnefici. Ricordo che in un caso di femminicidio, dopo aver ucciso la moglie, l’uomo ha detto pubblicamente di essere sicuro di non finire in carcere. Non è raro che a seconda dell’avvocato o del tribunale, dire di essere pentiti porti a una riduzione della pena.
Negli anni la Turchia ha aperto numerosi centri antiviolenza con supporto medico e psicologico, linee di aiuto aperte ventiquattr’ore al giorno sette giorni su sette, sussidi economici, e un sistema per penalizzare gli autori di violenze di genere. Oltre a una dettagliata lista di reati sono state catalogate le pene per gli abusi con nuove procedure da adottare per le forze dell’ordine, al fine di garantire la protezione per le vittime durante le indagini e una risposta immediata alle richieste di aiuto.
I centri antiviolenza sono essenziali, ma sono solo 150 in un paese di 80 milioni di persone, non è abbastanza. Ho molti dubbi anche sui metodi, le donne che si rivolgono a un centro antiviolenza vengono in qualche modo dipinte più come delle vittime che come donne che stanno prendendo in mano la loro vita dopo un trauma causato dalla violenza di un uomo.
Femminicidi
Nonostante ci sia una diffusa coscienza politica e sociale tra le donne turche su quelli che dovrebbero essere i loro diritti e i meccanismi politici e legali per rispettarli, la parità di genere e la lotta contro la violenza rimangono capitoli aperti e controversi, per questo le cittadine diventano attiviste.
Sempre presenti nelle piazze turche, manifestando con la riconoscibile bandiera viola, sono le attiviste dell’associazione Kadin Cinayetlerini Durduracagiz Platformu (Kcdp), We Will Stop Femicide Platform, che si occupano di segnalare casi di violenza in Turchia e all’estero, forniscono supporto, anche legale, alle vittime e i loro familiari e raccolgono dati pubblicati con un report annuale.
Nel report 2021 si legge che in Turchia sono stati 280 i casi confermati di femminicidio. Tuttavia, Kcdp sospetta che il numero effettivo potrebbe essere molto più alto, con almeno altri 217 casi non confermati dalle autorità: è possibile che non tutti i femminicidi vengano classificati come tali e che alcuni vengano addirittura insabbiati come suicidi.
Nella maggior parte dei casi del 2021 le donne turche sono state uccise dal marito in casa con un’arma da fuoco. Altri carnefici sono i fidanzati, gli ex mariti, 13 donne sono state uccise dal padre, 11 dal figlio, 6 dal fratello, 3 da uno sconosciuto.
Le attiviste di Kcdp segnalano anche casi di negligenza da parte delle autorità, riportando che almeno 33 delle 280 donne uccise nel 2021 aveva già sporto denuncia per atti di violenza domestica alla polizia.
Nel novembre dello scorso anno, le donne turche hanno manifestato per l’omicidio di Başak Cengiz, una ragazza di 28 anni uccisa per strada da un uomo armato con una spada samurai. Volevo uccidere qualcuno. Sono uscito e ho scelto una donna perché pensavo che sarebbe stato più facile», ha dichiarato l’assassino ai media locali. Mentre le proteste si sono susseguite per giorni in numerose città, a Istanbul le forze antisommossa hanno lanciato lacrimogeni contro le manifestanti.
Un altro episodio inquietante risale allo scorso febbraio, quando Sıla Şentürk, una ragazza di 16 anni, è stata obbligata dalla famiglia a lasciare la scuola per seguire l’uomo che i genitori volevano per lei. Il ragazzo di 21 anni è inizialmente stato sospettato di aver rapito Sıla e detenuto con l’accusa di abuso sessuale, rapimento e detenzione di minore, nel corso delle prime indagini la famiglia di lei ha ritirato la denuncia. Quando Sıla ha denunciato ancora, il ragazzo l’ha uccisa tagliandole la gola.
Il ritiro e l’opinione pubblica
I conservatori del partito Akp di Erdoğan affermano che la Convenzione di Istanbul, uno strumento legislativo per l’uguaglianza di genere che vieta la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale, mina i valori della famiglia, previene le donne dallo svolgere il loro ruolo di madre imponendo i costumi della comunità Lgbtq, per dirla con le parole del presidente: «Normalizza l’omosessualità». Nello stesso giorno in cui è stata ufficializzata l’uscita dalla Convenzione di Istanbul, il governo turco ha anche annunciato un nuovo Piano nazionale di cinque anni contro la violenza sulle donne, sostenendo che questo sia sufficiente senza il bisogno della Convenzione.
La parità di genere è un argomento che viene politicizzato e usato per polarizzare l’opinione pubblica, quando invece dovrebbe essere un diritto richiesto da tutte le componenti della popolazione – continua Özünaldım – Chi conosce il contenuto della Convenzione di Istanbul ne è a favore. Quando le persone supportano l’idea che la Convenzione sia un modo per traviare i valori della nostra società è perché non sanno veramente di cosa si tratta e si affida al discorso politico.
Özünaldım si occupa anche di organizzare dei gruppi di informazione nelle scuole cercando di dare gli strumenti per un dibattito aperto sulle questioni di genere.
All’inizio ero preoccupata, non è possibile prevedere la reazione delle persone a certi argomenti, specialmente in Turchia. Pensavo che gli studenti maschi non avrebbero partecipato, rifiutando la parola femminismo associata al sembrare deboli, poco mascolini, ma non è stato così. La nostra generazione è cosciente del fatto che qualcosa non va nella nostra società, che dobbiamo spingere, fare qualcosa per cambiare questi stereotipi.
Molti sostenitori di Erdoğan condividono il concetto che la donna non sia «completa» o «femminile» se non quando è madre, e che il lavoro non dovrebbe essere un ostacolo alla maternità. Queste dichiarazioni sul ruolo della donna non sono da prendere sotto gamba confrontando il tasso di occupazione femminile, del 39%, con quello maschile del 71%.
L’associazione Kcdp è convinta che ci sia una connessione tra il tasso di disoccupazione femminile e il record di femminicidi. Il distacco dall’uomo perpetratore di abusi può significare povertà e mancanza di sostegno economico per una casalinga.
Anche il ruolo dei media non è da sottovalutare – sottolinea Özünaldım — Negli ultimi anni c’è stato un aumento nella produzione di film e serie televisive in cui c’è un personaggio con una mascolinità tossica con un ruolo di potere sui personaggi femminili. Ho visto un video su Instagram, preso da una scena di una serie, in cui c’è un uomo che uccide una donna con un coltello e nel mentre dice che la ama. Oltre alla violenza fisica, gli show televisivi sono allo stesso modo pieni di episodi di abuso psicologico sulle donne, che milioni di persone guardano dal loro divano ogni sera.
Le ragioni che spingono il governo verso una leva sempre più conservatrice sulle questioni di genere nascono nel bacino di elettori dell’élite tradizionalista. Soprattutto in vista delle elezioni presidenziali del 2023, il governo non vuole perdere il suo elettorato di fiducia, considerando i crescenti malumori a causa della grave crisi economica che attraversa il paese.
La svalutazione a picco della lira turca e la conseguente diminuzione del potere d’acquisto dei cittadini hanno fatto scendere i consensi per il governo attuale, anche tra i conservatori.
*Giulia Bernacchi è una freelancer italiana che si occupa di medio oriente, soprattutto Siria, Iran e Turchia, paese dove vive e lavora, anche nella cooperazione internazionale in risposta alla crisi migratoria siriana.
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