
A Leicester con Frantz Fanon (e ritorno)
I tagli al personale all'università spacciati come caso di purghe accademiche e «decolonizzazione dei curricula»
Qualche tempo fa mi è stata suggerita la lettura dell’articolo Decolonization is not a metaphor di Eve Tuck e K. Wayne Yang, risalente al 2012. L’articolo, che si fregia di due epigrafi tratte dai Dannati della terra (1961) di Frantz Fanon, è un’appassionata difesa della «decolonizzazione come processo storico» da quelle appropriazioni indebite che ne oscurano il portato materiale, economico e politico, a favore di operazioni che, più o meno inconsapevolmente, restaurano l’innocenza dei colonizzatori – «ripulendone la coscienza», si potrebbe dire. Tuck e Yang hanno buon gioco nella critica dell’agenda liberal che sottende a un certo, non esclusivo, intendimento della «decolonizzazione dei curricula» scolastici e accademici e nell’individuazione di un grado di incommensurabilità tra la decolonizzazione come processo storico – di certo, non un pranzo di gala – e i suoi usi metaforici – talvolta, invece, adatti ai pranzi di gala, specie se accademici.
L’uso di Fanon risulta, però, fuorviante: se è vero che nei Dannati della terra si legge che «la decolonizzazione […] è un processo storico: vale a dire che non può essere capita, non trova la sua intelligibilità, non si fa trasparente a sé stessa se non proprio in quanto si discerne il movimento storicizzante che le dà forma e contenuto», poco dopo si legge anche: «Colono e colonizzato sono vecchie conoscenze. E, di fatto, il colono ha ragione quando dice di conoscer-li. È il colono ad aver ‘fatto’ e a ‘continuar a fare’ il colonizzato. Il colono trae la sua verità, cioè i suoi beni, dal sistema coloniale».
Questi sono soltanto i primi passi della dialettica fanoniana, già analizzata da una vasta letteratura scientifica e recentemente studiata, nella sua ricezione italiana, da Luca Mozzachiodi in questo articolo. Quello di Fanon appare come una sorta di «umanesimo anti-umanistico» – nel quale, cioè, si rifiutano i presupposti retorici e universalizzanti del modello occidentale di umanesimo – che risulta infine orientato verso una vera e propria antropogenesi, come risultato sintetico del processo di ridefinizione antropologica, psichica, culturale e politica correlato alla decolonizzazione. Per Fanon, in altre parole, non si può uscire dal colonialismo europeo se non si procede anche a Decolonizzare la mente – per stare al titolo del saggio dello scrittore keniota Ngũgĩ wa Thiong’o (1986), dedicato alla politica della lingua nella letteratura africana (pubblicato in italiano da Jaca Book) – e, con essa, la cultura coloniale, con tutti i suoi possibili derivati, ancora presenti e vigorosamente attivi nella contemporaneità.
Alla luce di queste obiezioni, conviene portare in valigia l’opera di Frantz Fanon, più che l’articolo di Tuck e Yang, nel viaggio che ci conduce alle porte della University of Leicester, dove la «decolonizzazione dei curricula» è stata chiamata pesantemente in causa, negli ultimi mesi. Come si apprende in questo comunicato dell’Università, a metà gennaio 2021 l’ateneo ha avviato una consultazione all’interno del proprio staff ponendo sul piatto il rischio di redundancy – leggi, «messa in esubero», con possibilità di licenziamento – per 145 posti di lavoro, 63 dei quali nell’ambito della ricerca scientifica e 82 riguardanti il personale amministrativo. Nello stesso comunicato, l’università comunica che tali scelte non sono legate all’esigenza di «decolonizzare il curriculum», così com’è stata invece descritta la notizia, in modo piuttosto trasversale, sui media inglesi (ad esempio, qui e qui).
Non potendo e non volendo entrare nel merito della sanguinosa vertenza sindacale così avviata, pare comunque opportuno segnalare come l’argomento sia stato davvero trattato, nella sua copertura mediatica, con gli strumenti polemici tipici dell’alt-right, arrivando spesso, e in modo trasversale, a denunciare il rischio, in nome della «decolonizzazione dei curricula», di «purghe accademiche» ordite dalla cosiddetta woke culture. In questo senso, l’esempio paradigmatico sbandierato da molti articoli è legato alla possibile cancellazione dell’insegnamento di Letteratura Medievale, con la ventilata eliminazione dai curricula dell’università di Leicester dell’insegnamento di Beowulf o dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer, opere da sempre riconosciute come canoniche nell’ambito della letteratura inglese.
Si tratta di una plateale mistificazione, e non soltanto perché, come si legge più chiaramente in questo comunicato sindacale, gli esuberi non riguardano soltanto i corsi di Letteratura Medievale, ma coinvolgono cinque dipartimenti (English; Business; Informatics; Mathematics & Actuarial Science; Neuroscience, Psychology & Behaviour) e tre divisioni amministrative (Education Services; Library User Services; Estates & Digital Services). A questo, si deve aggiungere il fatto che negli insegnamenti in questione si possa considerare già largamente operativo, a Leicester come in molte altre università, un approccio inclusivo e debitamente «decolonizzato», per il quale – come ha scritto la docente di Postcolonial Studies dell’Università di Cambridge, Priyamvada Gopal, in questo tweet – «il processo di decolonizzazione dei curricula ha bisogno della presenza e dello studio critico di Chaucer» e non gli è affatto contrapposto in modo esclusivo e censorio.
Tuttavia, occorre anche riflettere in maniera del tutto diversa sull’operazione manageriale messa in piedi dall’ateneo di Leicester, per quel che se ne può ragionevolmente sapere in questo momento. Il comunicato già citato – così come il documento originario, significativamente intitolato Shaping for Excellence – contiene, infatti, significative tracce della situazione che si è venuta a creare. In altre parole, la ricerca dell’eccellenza accademica – spesso accompagnata, come in molti altri atenei, a drastiche operazioni manageriali – procede di pari passo con l’esigenza amministrativa di far fronte a un continuo calo di iscrizioni di studenti undergraduate e postgraduate. «L’Università non può continuare a offrire moduli che continuano ad attrarre un numero scarso e sempre decrescente di studenti, se si tengono in adeguata considerazione le pressioni che subisce l’intera formazione universitaria» – si legge nel comunicato – «nelle nostre proposte per il dipartimento di Inglese, continueremo a offrire una formazione ad ampio spettro cronologico, tenendo in considerazione svariati secoli di letteratura inglese – permettendo agli studenti di fruire del tipo di formazione letteraria che sono loro stessi oggi a richiedere per un curriculum di Letteratura Inglese».
Le espressioni qui sottolineate in corsivo mostrano l’abituale discrasia tra la ricerca dell’eccellenza accademica e scientifica e la domanda formativa attribuita agli studenti – in un modo per nulla circostanziato, tra l’altro, e con un immediato effetto di discredito rispetto a quei movimenti studenteschi (come #LeicsDecolonise) che chiedono la «decolonizzazione dei curricula», ma di sicuro non ambiscono ad alcuna stretta manageriale nella gestione del personale dell’ateneo.
Se queste sono le contraddizioni che emergono a una prima analisi di un contenzioso ancora in corso, non se ne può concludere, come pure è stato fatto anche nella ricezione italiana della vicenda (sul Giornale e sul Foglio, ma anche in alcuni rilanci social) che la «decolonizzazione dei curricula» apra la strada a un’ondata censoria e priva di giustificazioni scientifiche (se vista da «destra») o all’implementazione di un’agenda politico-economica neoliberale favorita dall’impronta liberal della «decolonizzazione dei saperi» già criticata, ad esempio, da Tuck & Yang (se vista da «sinistra»). In questa situazione, non c’è alcuna traccia della battaglia censoria della woke culture contro i lavoratori del sapere, la cui posizione è messa a repentaglio, in primo luogo, e in modo decisivo, dalle politiche neoliberiste nazionali e dei singoli atenei, nel Regno Unito come altrove. La legittima pressione politica e culturale dei movimenti studenteschi è stata appropriata in chiave ideologica, con una mossa che supera l’orizzonte inclusivo propugnato – in modo altrettanto ideologico – dalle operazioni di pink washing, di green washing (o, come sarebbe in questo caso, di postcolonial washing), trasformandosi direttamente in uno strumento della gestione manageriale.
In questo senso, la traduzione italiana di questo dibattito è particolarmente difficoltosa, in un contesto accademico in cui il processo di istituzionalizzazione (o di de-istituzionalizzazione) dei saperi segue percorsi talvolta molto diversi. Vi si può registrare, ad esempio, una certa resistenza dell’accademia italiana verso i cosiddetti Studies (dai Gender Studies ai Postcolonial Studies, passando per i Cultural Studies, particolarmente invisi a certi portabandiera del pensiero umanistico), che ha non di rado portato all’espressione di posizioni radicalmente lontane da quello che poteva e potrebbe ancora essere una forma di «umanesimo anti-umanista», con o senza Fanon.
È anche per questo motivo – insieme a questioni altrettanto, se non più, cogenti, ma di ordine più chiaramente strutturale – che gli Studies sono spesso mantenuti ai margini della divisione del lavoro accademico; al tempo stesso, però, è ormai da qualche decennio che se ne sfrutta la grande produttività in termini di convegni, ricerche, pubblicazioni, ecc. (Sempre a questo proposito, si può notare come anche l’articolo di Tuck e Yang, in modo assai sintomatico, sia stato pubblicato, nel 2012, come apertura del primo numero di una neonata rivista accademica, Decolonization: Indigeneity, Education & Society…). Ad ogni modo, questa grande produttività scientifica non ha coinciso con alcuna reale istituzionalizzazione e non ha tangibilmente cambiato la strutturazione dei settori scientifico-disciplinari e delle loro procedure interne di valutazione, perlopiù restie verso proposte teoriche e metodologiche «non tradizionali».
Anche nel caso italiano, dunque, ma per tutt’altra via, quando si invoca una fantomatica «egemonia della woke culture» o «del politicamente corretto» – oppure, da altre posizioni, una metaforizzazione del conflitto politico-sociale nell’agenda liberal della «decolonizzazione dei saperi» – si rischia di perdere contatto con la divisione del lavoro e la sua relazione strutturale con una produzione (adeguatamente decolonizzata!) dei saperi. Quest’ultimo snodo resta invece cruciale, e presumibilmente lo sarà sempre di più, in futuro, tanto dal punto di vista dei lavoratori del sapere quanto da quello degli studenti.
*Lorenzo Mari vive a Bologna. Insegnante precario, ha recentemente curato Zurita. Quattro poemi (Valigie Rosse, 2019) del poeta cileno Raul Zurita, tradotto da Alberto Masala.
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