
Cecità a Sanremo
Il monologo sui non vedenti dal palco dell'Ariston è emblematico del fatto che per parlare di certe cose non è sufficiente il gusto della lacrima in primo piano. Perché la compassione riafferma la vittima in quanto vittima
Tra le altre cose, quest’anno, al Festival di Sanremo si è parlato di cecità. L’ha fatto l’attrice Maria Chiara Giannetta, co-conduttrice della quarta serata, quella del 4 febbraio. Il suo monologo non è andato in onda nel pieno del prime time, era in scaletta attorno alla mezzanotte, ma si tratta pur sempre del Festival, quindi l’hanno ascoltato milioni di persone. Lo commento per questo, per la vasta diffusione che gli ha assicurato il contenitore in cui è stato collocato. Non perché in sé abbia qualcosa d’inedito. Lo commento dalla mia posizione di non vedente, e di non vedente che si occupa anche di retorica, cioè di come sono fatti i discorsi.
Anzitutto, qualche parola sul perché sia stata proprio Maria Chiara Giannetta, che è una persona vedente, a trattare il tema della cecità. Il trait d’union è il ruolo che l’attrice ha interpretato nella serie Rai Blanca, in cui il suo personaggio (protagonista ed eponimo della serie) perde la vista a 13 anni, per poi ritrovarsi nonostante ciò a collaborare a indagini di polizia. Non do un giudizio sulla serie, perché non la conosco. Mi limito a dire, ma qualcuno lo avrà di certo già notato, che lo spunto narrativo non è nuovo. Quello dell’inquirente anomalo è par excellence il topos del poliziesco contemporaneo, e per una ragione molto prosaica, che attiene ai fondamentali della narratologia: dato che una storia è tale perché presenta un’eccezione, cioè una deviazione dal corso normale delle cose, un investigatore che non può investigare con tutti e cinque i sensi è un personaggio che già di per sé è l’abbozzo di una storia. Se poi al nostro investigatore togliamo il senso in cui l’attività investigativa quasi s’identifica, tanto da stilizzarsi nel simbolo holmesiano della lente d’ingrandimento, l’eccezione su cui si può innestare la storia diventa addirittura macroscopica. Su quest’intuizione, Carlo Lucarelli ha costruito il personaggio di Simone Martini, che appare per la prima volta in uno dei suoi romanzi più celebri, Almost Blue, a cui Tommaso De Lorenzis ha dedicato un bellissimo articolo nel ventennale della pubblicazione. Uno spunto del genere, però, richiede una dose massiccia di sospensione dell’incredulità. E Lucarelli lo sa bene, perché nelle sue mani una così grande sospensione dell’incredulità diventa materiale letterario: diventa cioè l’innesco di quella catena di sinestesie che è la lingua del personaggio. Lucarelli sa perfettamente che nessun cieco direbbe mai davvero, come lui fa dire a Simone Martini, che «l’azzurro, per esempio, con quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare». La forza del suo personaggio sta proprio in questo: nella sua costitutiva inverosimiglianza, nella sua totale letterarietà. Una letterarietà che non ha alcuna pretesa di mimesi della «visione del cieco», per dirla col verso che dà il titolo a un altro romanzo noir italiano fortemente sperimentale.
Per parlare della cecità, Maria Chiara Giannetta, le sue autrici e i suoi autori hanno scelto invece l’altra strada, quella dell’immedesimazione. Hanno voluto raccontare al pubblico di Sanremo come ha fatto lei a calarsi nel personaggio della non vedente Blanca, invitando chi l’ascoltava a fare altrettanto per un istante. Dico subito che il monologo è stato certamente scritto e detto con le migliori intenzioni. Così come non c’è alcun dubbio che le persone non vedenti che erano sul palco insieme a Giannetta abbiano fatto bene a presenziare. La mia critica non riguarda l’intenzione ma il risultato, cioè la scrittura e la performance del monologo. Risultato che, a sua volta, non è altro che l’effetto del modo consueto di pensare la disabilità, ossia il vero punto della questione.
Secondo una divisione classica, il discorso ha tre funzioni. In latino: docere, delectare, movere; informare, essere piacevole dal punto di vista artistico, mobilitare le emozioni. Ogni discorso dovrebbe contenere tutti e tre gli elementi, miscelati in dosi diverse in base alla finalità da perseguire. Prossima a questa è l’altra tripartizione, per cui il discorso può appellarsi all’istanza logica o argomentativa, a quella etica o valoriale, a quella patetica o passionale. Chi ha scritto il testo che Giannetta ha messo in scena venerdì sera ha chiaramente puntato tutto sul movere, sull’istanza patetica. Ma quali emozioni mirava a suscitare quel discorso? Per capirlo, ancor prima delle parole, va ascoltata la musica che ha accompagnato il testo. Quando si mette in musica un testo, con la musica si fanno scelte espressive che sono tanto determinanti quanto quelle verbali. Quasi tutto il monologo è accompagnato da un tema in mi bemolle maggiore, dato al pianoforte e alle tastiere: lento, quasi fermo, struggente. Il messaggio che passa attraverso la musica, dunque, è che per le storie di cecità raccontate da Giannetta bisogna provare commozione. Magari suscitata dall’ammirazione per la forza di volontà di chi combatte le condizioni avverse della vita, ma pur sempre commozione.
Né si può dire che tra la tonalità emotiva della musica e quella del discorso ci fossero scarti apprezzabili. Come dicevamo, il pretesto del monologo è la mimesi della vita di alcune persone non vedenti, che Giannetta ha sperimentato per rendere il personaggio di Blanca. Il testo recitato a Sanremo voleva provare a comunicare quale fosse l’insegnamento che ognuna di loro ha impartito all’attrice: il saper vivere un tempo altro e non imposto dall’esterno, il saper chiedere aiuto, la forza d’animo, l’autoironia. Chi parla e dice «io», nel testo, è dunque l’attrice vedente, che migliora sé stessa calandosi nei panni di chi non vede. Infatti, è Giannetta a parlare per quasi tutto il tempo, salvo per alcune brevi parole pronunciate in chiusura da una delle persone presenti insieme a lei.
È stato notato, a ragione, che sul palco dell’Ariston c’era un’attrice vedente che parlava dell’essere non vedente, sostituendosi a chi non vedente lo è davvero. E si è detto che, in ciò, il monologo sanremese non ha fatto altro che riproporre un modulo discorsivo consueto, traduzione in forma verbale d’una dinamica di potere, per cui il soggetto diverso dal paradigma della normalità – quale che sia – non parla ma è parlato, non agisce ma è rappresentato. Sono critiche giuste, a patto di non estremizzarle: cioè a patto di non pretendere che a parlare di una fragilità debba essere soltanto chi la vive. Una posizione, questa, che presa rigidamente può persino forcludere la pensabilità di una sintesi politica delle lotte, o delle istanze di progresso. Quindi bisogna intendersi: nessun problema se qualcuno parla della mia condizione di non vedente: però lo deve fare esattamente. E per farlo esattamente , non basta la compassione. Non basta, diceva il Gaber dei tempi migliori, «il gusto della lacrima in primo piano». La compassione riafferma la vittima in quanto vittima, e la nega in quanto soggetto che agisce, avanza istanze proprie e diverse da quelle della vittima, pretende di uscire dallo stato di minorità.
Tuttavia, io sono convinto che quello di Giannetta non fosse un monologo sulla cecità. Era un monologo di una persona vedente che raccontava ad altre persone vedenti cos’ha imparato immedesimandosi per un tempo limitato in una non vedente. Tant’è che il testo inizia con la richiesta al pubblico di chiudere gli occhi: dunque, di tentare a propria volta d’immedesimarsi. Il tema del discorso è l’imparare da chi si trova nella condizione della cecità, non cosa significa davvero trovarcisi. Per quanto possa apparire l’argomento centrale del testo, e forse nelle intenzioni volesse anche esserlo, la condizione della cecità è esterna alla comunicazione tra la locutrice e il pubblico destinatario. Criticare il monologo perché a parlare è stata un’attrice vedente è esatto, per le ragioni che si sono dette. Ma la critica rischia anche di mancare il bersaglio. Il problema del monologo a mio avviso è ancora più grande del fatto che una vedente ha ragionato di cecità con altri vedenti. Il problema sta tutto nella battuta con cui il monologo si conclude. Dopo aver detto di essersi messa nei panni di quelli che lei chiama i suoi «guardiani», Giannetta si congeda così: «Ve l’assicuro: è stata una figata».. L’enorme problema di quel testo sta in quelle quattro ultime parole, in quel predicato nominale. Sta in quel passato prossimo, «è stata». L’immedesimazione con una persona non vedente, per l’attrice Maria Chiara Giannetta, è un’esperienza temporanea: ha avuto un inizio e una fine. In quell’immedesimazione, lei è stata libera d’entrare, e da quell’immedesimazione ha potuto uscire a proprio piacimento. Prima e dopo quell’essere stata, c’è una normalità da cui muovere e alla quale fare ritorno. Per noi, invece, non c’è un fuori dalla cecità: la nostra vita è tutta interna a una condizione che Giannetta ha esperito solo per ragioni artistiche, che per lei è iniziata e finita a volontà. Non ho alcun dubbio che quell’immedesimazione le abbia cambiato la vita. Lungi da me il sospettare l’inautenticità dei sentimenti che ha espresso con il suo monologo. Ma in quel «è stata» c’è (lo ripeto: senza alcuna intenzione malevola) tutto il senso dello scampato pericolo: c’è la separatezza tra lo spazio della finzione, in cui s’interpreta un personaggio e ci si prepara per farlo, e lo spazio della realtà, nel quale si ritengono magari degli ammaestramenti tratti dalla finzione, ma si è comunque un’altra cosa.
E nemmeno ho dubbi che l’immedesimazione sia stata una figata. Ma per chi lo è stata? Può essere una figata (anzi, lo è senz’altro) intravedere modi di vita altri rispetto alla norma, come quelli che può additare la vita di un non vedente. Ma la vita di un non vedente no: quella non è affatto una figata. È piena zeppa di problemi: e non tutti si possono superare con l’ottimismo della volontà o aggirare con l’autoironia. Mancava il docere, nel monologo sanremese: cos’ha davvero imparato, l’uditorio, che già non sapesse? Che noi non vedenti abbiamo una vita abbastanza autonoma è noto. È risaputo che ci spostiamo con il bastone, con il cane guida, con entrambi o senza entrambi. E all’elenco – se vogliamo – anche un po’ stereotipico fatto all’Ariston si dovrebbe aggiungere tutto il software che ci facilita un po’ le cose: dalle app per la navigazione gps o satellitare a quelle per il riconoscimento dei colori, dagli screen reader agli assistenti vocali e via elencando. Quel «è stata una figata» sarà sì un incoraggiamento a sperare, ma relega all’ombra la parte difficile dell’esistenza di ognuno di noi: quella che, per me, significa dover fare i conti con problemi strutturali che quasi mi impediscono di fare il mio lavoro, con una tenuta emotiva instabile e con un affaticamento cronico. E che per altre e altri significa qualcosa di ancora diverso. Perché è vero, come ha detto Giannetta all’Ariston, che si può vivere secondo un tempo altro dalla norma: ma bisogna avere la libertà di poterlo fare. E la gran parte di noi questa libertà non ce l’ha. Quel «è stata una figata» ha un sottinteso, non saprei dire quanto cosciente: cioè che le cose, tutto sommato, vanno bene come sono; che in fondo di fronte alla cecità conta soprattutto la postura individuale. Insieme alla parte meno glamour della nostra esistenza, nel monologo sanremese scompare qualcosa come una società, o come una politica che ci riguarda.
Non c’è nulla di sorprendente in questo. L’orazione di Giannetta percorre lo stesso schema argomentativo che per lo più orienta il discorso pubblico sulla disabilità. La persona disabile tanto più è degna d’attenzione quanto più s’impegna a «essere come tutti». E tanto più è meritevole di lode quanto più è straordinaria: ad esempio per i suoi trionfi paralimpici. Due delle storie raccontate a Sanremo, infatti, erano storie di atlete.
Questo discorso ha ovviamente un presupposto. Il presupposto è che la norma sia la vita dei più, e che la norma sia il parametro giusto a cui conformarsi. L’eccezione ha dignità di racconto solo se eccede verso l’alto. È quell’idea invalsa d’integrazione per cui, data la tua diversità, meriti solo se fai qualcosa che nessuno chiederebbe mai di fare alla persona qualunque. Ma l’uguaglianza sociale sostanziale passa per tutt’altra strada. Una strada mondata dal preconcetto per cui l’integrazione del disabile in società si ricava deduttivamente dalla sua conformità a un modello. E mondata anche, per converso, dal pietismo che lava la coscienza, come se noi non ci accorgessimo di esserne l’oggetto. Noi, che così trattati ci sentiamo persone dimidiate.
Si sa, il linguaggio sovente fallisce, perché le parole non sono le cose. Dire la disabilità è difficile: è difficile anche per chi, come me, è disabile e usa la parola per mestiere. C’è sempre uno scarto tra l’esperienza del limite che il tuo corpo ti pone, e il modo in cui riesci a raccontare quel limite a chi non lo esperisce. Di sicuro, non è una figata, e non ha l’andamento d’un monologo tinta pastello in mi bemolle. Le buone intenzioni non bastano: bisogna sapere quello che si dice, e saperlo bene. Questo è il compito di un’intera esistenza, non di qualche mese di studio del personaggio.
*Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Scrive di uso politico del diritto penale e di antifascismo. Ha una seconda identità di pianista e critico musicale
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