Contro la logistica della morte
Il prossimo 25 giugno, a Genova, portuali, studenti, palestinesi, pacifisti e solidali manifestano per il blocco delle navi che riforniscono Israele di armi
La logistica è lo scheletro su cui si fonda l’economia globale. A partire dagli anni Settanta con il passaggio dal modello fordista, dove la produzione avveniva principalmente in un solo luogo, a un modello post-fordista che prevede la realizzazione delle diverse componenti in più punti distribuiti su scala globale, la logistica ha assunto un peso sempre più importante. Attualmente lungo le varie tratte commerciali circa il 50% dei beni trasportati, che compongono il 12% del Pil mondiale, sono diretti verso altre aziende per essere impiegati in successivi processi produttivi. Se da domani ci trovassimo senza il settore del trasporto merci la quasi totalità delle aziende manifatturiere non riuscirebbe a portare avanti la propria produzione.
La nascita della logistica però va fatta risalire prevalentemente al settore militare, e pur movimentando oggi in maniera preponderante merci e componentistica varia è ancora deputata al trasporto di materiale bellico nei vari scenari di conflitto. Le armi infatti seguono quasi tutte le stesse rotte delle merci ordinarie, e sono di conseguenza gestite nel loro trasporto non da professionisti del mondo militare ma dai lavoratori e lavoratrici del settore della logistica.
I vari eserciti a livello globale si affidano strutturalmente alle grandi aziende del commercio internazionale. Sono stati gli Usa ad aver aperto la strada a una strategia di esternalizzazione del trasporto di materiale bellico, in linea con una più ampia visione di privatizzazione dei servizi governativi: nel 1996 fu infatti approvato dal Congresso il Maritime Security Programme, il cui obiettivo era assicurare all’esercito statunitense il ricorso strutturale a navi commerciali sotto controllo del dipartimento di Difesa per le sue operazioni militari. Ciò spiega perché il Pentagono finanzi con appositi sussidi aziende come la Maersk Line, Ups, Apl, Hapag-Lloyd, FedEx ecc. Proprio queste aziende, come molte altre del settore, sono da diversi anni al centro dell’impegno antimilitarista dei lavoratori portuali e delle realtà pacifiste.
Negli ultimi mesi le tratte del commercio internazionale sono diventate sature di armi, soprattutto in virtù dell’intensificazione delle operazioni militari israeliane in Palestina. Solo gli Stati uniti hanno inviato da ottobre a dicembre 2023 circa 10.000 tonnellate di armi, 15.000 bombe e 50.000 proiettili di artiglieria attraverso 244 aerei cargo e 20 navi portacontainer. Il risultato è il genocidio ormai sotto gli occhi di tutti.
La Maersk, colosso danese della logistica marittima, finanziata anche dal Pentagono, a partire dal 7 ottobre ha ricavato profitti derivanti dall’invio di armi e componentistica statunitense per circa 300 milioni di dollari. E in assenza di dati sulle altre compagnie navali esistono però diversi casi di portuali che rifiutandosi di caricare armi su navi dirette verso Israele hanno contribuito a mettere in luce come il genocidio in corso parta anche e soprattutto dai nostri porti, siano essi americani o europei.
La comunità palestinese e le organizzazioni sindacali palestinesi hanno fatto appello a livello internazionale per un boicottaggio della catena del genocidio, a cui hanno risposto più di 60 organizzazioni sindacali, tra cui le italiane SiCobas e Unione Sindacale di Base (Usb). Inoltre, nelle ultime settimane il Palestinian Youth Movement ha realizzato una campagna internazionale chiamata Mask Off Maersk.
La risposta italiana a questo appello si manifesterà a Genova in un blocco del porto per il prossimo 25 giugno, a cui parteciperanno realtà come i Giovani palestinesi, Il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (Bds), il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali (Calp), Pax Christi e la comunità studentesca in lotta per il boicottaggio accademico di Israele.
Ho intervistato Riccardo e Jose, entrambi membri del Calp. Jose è inoltre delegato sindacale per l’Usb.
I portuali genovesi sono sempre stati impegnati nelle lotte anticolonialiste e internazionaliste a sostegno dei popoli oppressi, anche in virtù del loro storico antifascismo militante. Come si declina oggi questo vostro impegno?
Riccardo: Partirei con le parole utilizzate dalla questura di Genova nell’indagine che l’ha portata a indagarci per associazione a delinquere. I filoni dell’indagine erano due. Uno era sul nostro contrasto al traffico di armi nel porto di Genova e il secondo sulla nostra concezione di antifascismo militante.
A Genova nel 2018 c’erano diverse sedi fasciste come Forza Nuova, Casapound, Fiamma Tricolore. Se a oggi di tutte queste sedi ne è rimasta solo una, il merito è di tutta la città. Sicuramente l’intervento che abbiamo fatto noi come Genova Antifascista è stato importante. Gli scontri del 23 maggio del 2019 e gli scontri poco tempo prima in Piazza della Vittoria, in occasione di una commemorazione fascista, sono riportati nelle indagini come uno dei momenti più alti di conflittualità dell’antifascismo militante, che ha poi portato a circa 56 denunce.
La precedente storia dell’antifascismo dei portuali parte invece dai nuclei di resistenza interni al porto durante il regime nazifascista, come anche dal 30 giugno del 1960 quando i portuali, gli operai, i giovani e la città tutta scese in piazza contro la possibilità che si svolgesse a Genova il congresso del Movimento sociale italiano. Quell’esperienza di lotta portò alle dimissioni del governo democristiano di Fernando Tambroni. Noi oggi cerchiamo di interpretare al meglio quel sentimento e lo coniughiamo con l’anticolonialismo. L’antifascismo è parte integrante del percorso del Calp dal primo giorno.
Il blocco del 25 giugno si inserisce in una strategia di lotta internazionale che vede la logistica come anello debole del sistema produttivo globale. Ci spieghi perché non ha senso prendere di mira una singola nave che trasporta le armi ma colpire in generale la logistica con lo strumento del blocco?
Riccardo: Noi con le diverse realtà genovesi contrastismo il transito di armi nel porto dal 2019. Quell’anno abbiamo iniziato con la compagnia saudita Bahri che trasportava armi verso il conflitto in Yemen. Fossilizzarsi su quando arriva una singola nave non ha molto senso perché quando c’è la possibilità che nasca un’iniziativa come la nostra queste navi iniziano a ritardare l’attracco. Rincorrere le varie navi è complicato e così ci siamo mobilitati stabilendo noi i tempi e sapendo che i porti sono tutti compromessi in questo tipo di traffici. Il blocco del porto è uno strumento per mettere in contraddizione le diverse compagnie navali tra loro, perché quelle che non commerciano armi si sentono solo danneggiate da questi traffici. La logistica e i trasporti sono un anello importante della catena militare ma che può essere spezzato. Nella logistica lavorano tanti lavoratori e lavoratrici che sentono il peso sulle proprie spalle della crisi economica e la guerra diventa un’aggravante. Tutto ciò agevola la costruzione di alleanze. Trasporti marittimi, aerei e ferroviari sono i settori dove i movimenti pacifisti possono intercettare i problemi dei lavoratori e con loro fare queste battaglie.
Appurato che la logistica è un anello della catena militare che può essere spezzato, esistono dei livelli di coordinamento internazionali dei portuali e dei lavoratori della logistica contro la guerra e contro il genocidio in corso in Palestina?
Jose: Il momento più importante nella direzione di costruire un coordinamento dei portuali a livello internazionale è stato l’incontro che abbiamo avuto ad Atene, organizzato dalla World Federation of Trade Unions [Wftu), di cui era stato presidente l’italiano Giuseppe di Vittorio, Ndr], a cui noi come portuali di Usb aderiamo. A questo congresso del Tui, la sezione dei trasporti della Wftu, era presente anche una sindacalista palestinese e noi come Calp abbiamo chiesto ai vari sindacati presenti di sottoscrivere un appello a favore della mobilitazione per la Palestina.
Da lì sono nati tre diversi momenti di lotta in supporto al popolo palestinese. Uno che ha visto coinvolti i portuali turchi che hanno bloccato le armi che dovevano approdare in Israele; uno dei portuali indiani, che sono 11 milioni e hanno scioperato contro il transito di armi nei porti indiani verso Israele; e infine quello che è successo ad Atene negli scorsi giorni con i portuali dell’Endep che hanno bloccato una nave contenente armi verso Israele che ha poi attraccato a Gioia Tauro. Con questi ultimi abbiamo collaborato a Bruxelles insieme anche ai portuali francesi sindacalizzati nella Cgt. I frutti li stiamo vedendo adesso, e stiamo anche discutendo su come costruire un coordinamento internazionale di portuali che prescinda anche dalle varie sigle sindacali. Io per esempio sono in stretto contatto con una serie di realtà portuali europee che fanno parte dello European Dockworker Council e non della Wftu. Il 25 a Genova sarà ancora più importante dopo la mobilitazione dei portuali del Pireo.
Perché proprio Genova? Sul manifesto del blocco del porto c’è scritto che la guerra inizia da qui. Il consiglio comunale di Genova il 30 gennaio in maniera bipartisan ha votato per un intervento internazionale nel Mar Rosso, area calda dove gli houthi si sono mobilitati in questi mesi in supporto alla resistenza palestinese attaccando le navi della logistica in transito. L’intervento del consiglio comunale si è poi materializzato nella Missione Aspides approvata in Parlamento.
Jose: Il primo fattore di preoccupazione è stato l’aumento del costo del posizionamento a terra del container, che è aumentato di circa il 350% e che non va a diminuire i ricavi delle agenzie marittime ma incide sull’inflazione, sul costo dei nostri beni di consumo. Questo effetto a cascata è uno dei fattori che dovrebbe spingere il governo italiano a intervenire non come acceleratore di nuovi conflitti, ma assumendo una posizione di mediazione ad esempio rispetto al genocidio in corso in Palestina. L’interesse della città di Genova c’è perché da lì passa il 12% delle merci a livello internazionale e il 40% di quelle merci sono dirette in italia e in Europa.
L’export di armi sta diventando un cane che si morde la coda. Dal 7 ottobre a oggi in alcune fabbriche come Piaggio e Lavazza c’è stata una diminuzione di produzione, con lavoratori in ferie forzate perché non arrivano le materie prime. Anche le chiamate tra i portuali stanno diminuendo, soprattutto nel porto di Genova e di Trieste. Le navi invece di passare dal Canale di Suez stanno decidendo di circumnavigare l’Africa arrivando direttamente nei porti dell’Africa del Nord o dei paesi del Nord Europa, bypassando l’Italia. Così l’attività che svolgiamo in solidarietà al popolo palestinese, ma anche agli altri popoli, è un modo per rimarcare anche la nostra sopravvivenza come lavoratori. Da un lato infatti esportiamo le guerre con conseguenti morti e dall’altro la guerra ci torna in casa sotto forma di inflazione e perdita del lavoro. Contraddizione che i governi fanno finta di non vedere.
Sul tema dei conflitti e del loro rapporto con i porti è importante ricordare come l’introduzione dei container e il conseguente passaggio dallo stoccaggio manuale dei portuali alla standardizzazione avvenne durante la guerra del Vietnam, nel 1965. Precedentemente all’uso dei container i portuali conoscevano le diverse stive delle navi e sapevano come posizionare al meglio le varie merci. Con la standardizzazione del processo della logistica nel tempo si è ridotto il numero di lavoratori necessari. In soli trent’anni nel porto di New York, dal 1954 al 1995, i portuali sono passati da 35.000 a 3.700 con un aumento del 300% delle merci movimentate. Un esempio di come le guerre impongono accelerazioni importanti nei processi produttivi e nell’introduzione di nuove tecnologie, determinando importanti trasformazioni nelle strutture economiche.
Riccardo: Nel periodo della guerra del Vietnam è iniziato il traffico delle navi portacontainer, che hanno ridotto di molto la manodopera dei porti. Vorrei fare un parallelismo storico con il periodo odierno. Se la guerra del Vietnam portò appunto alla containerizzazione, nel periodo dell’ipotetica terza guerra mondiale stanno inventando l’automazione. L’automazione potrebbe portare alla sostituzione dei lavoratori considerati non necessari. Già oggi ci sono porti europei come quello di Amburgo dove si sta facendo strada l’automazione di alcuni processi di carico-scarico. Se questo ragionamento fosse portato in tutti i porti italiani allora la riduzione dei posti lavoro sarebbe drastica. Il porto di Genova è più problematico per l’introduzione di alcuni elementi di superamento del lavoro manuale, essendo un porto lungo e con pochi grandi piazzali. Però in alcuni terminal l’automazione potrebbe arrivare in larga misura. La Guerra fredda, che poi non era più fredda, portò all’ascesa dei container, con la possibile terza guerra mondiale potrebbe arrivare l’automazione con l’espulsione dal mondo del lavoro di tanti lavoratori, cosa che potrebbe trasformare la logistica da anello debole ad anello forte della produzione del valore globale.
Tornando alla storia: nel 1954 a seguito di un tentativo di riforma da parte del governo italiano che voleva superare le cooperative dei lavoratori, introducendo nuove forme di reclutamento dei lavoratori, i portuali di Genova diedero vita a uno scioperò che durò ben 120 giorni. La logistica in quel caso venne bloccata anche grazie al sostegno internazionale di altri lavoratori e l’aiuto in Italia di vari gruppi come l’Unione di Donne italiane e altre Camere del lavoro, che sostennero la cassa di Resistenza. La solidarietà ai portuali genovesi arrivò anche dai portuali americani. Oggi questo sostegno da più realtà è possibile?
Riccardo: La lotta dei portuali di quegli anni fu fatta con l’aiuto di tutta la cittadinanza. Con l’aiuto di un grande mondo che si muoveva, dal Pci alle strutture autorganizzate, fino alla Cgil e c’era in generale una maggiore partecipazione ai processi politici. Negli anni la partecipazione si è ridotta. Eppure la battaglia che abbiamo fatto nel 2019 in porto contro i traffici di armi non sarebbe stata possibile se non avessimo avuto l’aiuto di tanti compagni e compagne genovesi, ma anche di tante realtà in Italia e in Europa.
Jose: Nel tempo i nostri rapporti con i portuali americani si sono raffreddati. In passato negli Stati europei esisteva un unico partito di appartenenza, quello comunista, e a livello sindacale c’era la rete della Cgil. Oggi tutti i tentativi di riorganizzazione internazionale partono da rapporti personali. L’Usb esiste da circa dieci anni e questa è per noi una fase di costruzione. La Cgil avrebbe le potenzialità per costruire i coordinamenti necessari, ma data la posizione concertativa assunta a oggi quel tipo di blocco è quasi impossibile da replicare. Lo sciopero politico lo abbiamo re-introdotto noi dopo trent’anni. Quando siamo partiti con gli scioperi e i primi blocchi contro la guerra nel 2019 erano più di trent’anni che non si facevano scioperi politici. La Cgil non ci ha appoggiato perché sosteneva che la produzione di armi e l’arrivo di queste navi cariche di materiale bellico significava lavoro e che per un sindacato non era possibile bloccare il lavoro. Noi ci chiediamo invece quanto valga una vita umana. La Cgil certamente non alimenta i venti di guerra, sostiene le realtà associazionistiche di tipo umanitario, ma quando il tema è sostenere gli scioperi contro i traffici di armi e contro la produzione bellica si tira indietro.
A livello internazionale e nazionale c’è una mobilitazione in corso negli atenei. Come universitari chiediamo che il nostro sapere non sia coinvolto nelle guerre e nei genocidi, così come voi portuali non volete che il vostro lavoro sia utilizzato per rafforzare le strutture di oppressione globale. Quali sono le prospettive future, oltre all’appuntamento del 25 giugno, per costruire ulteriori mobilitazioni insieme?
Riccardo: Quelle nelle università sono battaglie che stanno funzionando per interrompere gli accordi accademici con Israele. Ogni realtà deve avere una sua prospettiva chiara. Sicuramente una battaglia comune è quella di non permettere la cancellazione della 185/90, la legge che disciplina l’esportazione di armi. Se molte delle nostre battaglie sono state possibili è anche perché abbiamo fatto uso di questa legge sulla trasparenza dell’esportazione delle armi. Si tratta di un pezzo della nostra Costituzione che rischia di essere smantellata.
*Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino, è attivista del Collettivo di Comunicazione Chrono. Si interessa di lavoro, ecologia e del loro rapporto conflittuale con il sistema capitalistico.
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