Criminalizzare la solidarietà
Il governo italiano punta ad uno slittamento dei confini giuridici, definendo «criminali» atti che non violano alcuna norma. La libertà di movimento è una priorità per la sinistra che non voglia rinnegare l'internazionalismo
Il 29 giugno abbiamo assistito all’ultimo episodio della stagione di criminalizzazione delle migrazioni e della solidarietà nei confronti dei migranti nel Mediterraneo. L’attivista tedesca Carola Rackete, capitana della nave di salvataggio Sea-Watch 3, è stata arrestata dalle autorità italiane perché dedita a salvare persone a rischio di annegare nel mediterraneo. Nonostante i magistrati le abbiano dato ragione, la criminalizzazione delle missioni delle Ong da parte del governo continua.
Lo stallo era iniziato ai primi di giugno, quando le autorità italiane avevano ordinato alla Sea Watch 3, che aveva appena salvato circa 53 persone, di restare fuori dalle acque territoriali del paese. Sono seguite due settimane di stillicidio in cui i passeggeri e l’equipaggio hanno dovuto affrontare il sole cocente sul mare e la pressione psicologica di un’attesa senza fine. Com’era già accaduto di recente per altre navi di salvataggio, il governo italiano insisteva nel chiedere alla Sea Watch 3 di deviare verso Tripoli, nonostante la guerra civile che sta dilaniando il paese.
Il 25 giugno il ricorso dell’equipaggio alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è stato respinto e così la capitana Rackete ha deciso di disobbedire agli ordini e di entrare nelle acque italiane, optando per lo scontro frontale e pubblico con il governo italiano.
Ora, il Ministero dell’Interno italiano guidato dal leader di estrema destra della Lega Matteo Salvini, sta preparando l’espulsione di Rackete dall’Italia. Una mossa furbesca da parte del governo per cedere alle richieste tedesche di estradizione senza perdere la faccia. Tuttavia, Rackete potrebbe essere trascinata davanti ai tribunali per rispondere alle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Lei fa parte di una piccola Ong tedesca radicale, Sea-Watch, che ha lavorato per anni nel monitoraggio delle attività marittime della fortezza Europa e per salvare la vita di persone in difficoltà quando necessario.
Tra le primavere arabe e l’«estate della grande migrazione» del 2015, azioni come queste venivano accolte dai commentatori e dai politici come parte della coscienza collettiva, come una risposta umanitaria necessaria di fronte a una crisi deplorevole. Al contrario Sea-Watch 3, come molte altre navi di soccorso, è stata sequestrata quando era ormeggiata in porto.
Anche se ora è ferma, l’assalto dei media italiani alla nave continua a ritmo serrato. La vetta delle accuse contro i migranti e gli attivisti solidali è stata raggiunta dall’ex senatrice della Lega Angela Maraventano: all’arrivo nel porto di Lampedusa ha gridato: «Non lasciateli scendere dalla nave, sono commercianti di carne umana. Assassini! Dovreste tornare da dove siete venuti! Se scendono da lì, qualcuno si farà male». Le correnti vorticano e il sangue ribolle.
I “Crimini” di Carola
Vale la pena chiedersi che cosa si intende per «criminalizzazione». Di solito il termine si riferisce a due processi diversi ma collegati. Da un lato, la creazione di nuove leggi che prevedono sanzioni giuridiche specifiche per azioni che fino a quel momento venivano ignorate dalla legge, se non addirittura tutelate. Dall’altro «criminalizzazione» può significare un processo di costruzione di un discorso pubblico coerente in cui determinati atti sono percepiti come criminali anche quando non viene violato alcun limite giuridico reale. In questo secondo senso, la criminalizzazione delle missioni di salvataggio dei migranti è stata avviata anni fa, con una campagna denigratoria orchestrata parallelamente alla repressione di una working class internazionale che tenta di attraversare i confini dell’Europa.
La criminalizzazione giuridica della migrazione in Italia, invece, ha avuto un’evoluzione nelle ultime settimane. Vantandosi pubblicamente della sua capacità di punire chi assiste gli immigrati clandestini che sfidano il regime delle frontiere europee, il governo a guida Lega-Cinque Stelle ha scelto proprio il momento immediatamente precedente alle elezioni europee per annunciare un nuovo disegno di legge sulla sicurezza. Il testo minaccia multe salate per chi è giudicato colpevole di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e fornisce al Ministro dell’Interno Salvini poteri più ampi relativamente al controllo dell’ingresso delle navi nelle acque territoriali.
Prima di chiederci come siamo arrivati a questo punto, in cui i capitani di navi vengono trascinati davanti ai tribunali semplicemente per aver salvato vite umane, dovremmo chiederci cosa intendano lo Stato italiano e i suoi sostenitori quando affermano che le azioni della capitana Rackete sono «criminali». Chi sono esattamente le vittime dei suoi crimini? E se le Ong sono «assassine», chi viene assassinato?
Un «incidente» sbandierato è stato il presunto speronamento di una motovedetta della Guardia di finanza, avvenuto durante le manovre di Rackete per guidare la Sea Watch 3 nel porto di Lampedusa. Il neoliberista e centrista Partito Democratico, che si trova in mezzo a una secca elettorale, ha persino deciso di controbilanciare i suoi già deboli segnali di solidarietà con la Sea Watch 3 esprimendo vicinanza alle «vittime» delle forze dell’ordine. Un altro deputato ha poi fatto notare che il reato contestato – aggressione contro «nave da guerra» – è molto difficilmente applicabile nel caso di una piccola motovedetta come quella. Altri hanno sottolineato la lentezza con cui la Sea Watch 3 è entrata in porto, a dispetto dei toni surreali di uno degli ufficiali della GdF, che ha parlato di «cinque minuti di puro terrore». Le accuse del governo italiano contro Rackete sono state demolite dall’udienza preliminare di martedì 2 luglio, in cui il tribunale ha difeso le azioni compiute dalla capitana. I dettagli, però, in questo frangente non sembrano contare molto, nel contesto di un più ampio processo di slittamento dei confini giuridici con l’obiettivo di criminalizzare la Sea Watch 3 e la sua capitana. Quello che è chiaro è che la polizia e il ministro degli Interni hanno sapientemente creato le condizioni in cui un tale scontro, fisico e giuridico, diventa inevitabile.
Nel discorso del governo e dei suoi sostenitori, le vittime più significative dei presunti crimini di Rackete sono «tutti italiani». L’arrivo via mare di centinaia di migliaia di proletari africani e asiatici negli ultimi sette anni è visto adesso da un vasto strato della società italiana come una minaccia diretta alla propria sicurezza economica e fisica. Eppure, allo stesso tempo, le vittime dei crimini della capitana includerebbero gli stessi migranti, poiché la colpa della morte di migliaia di persone nel Mediterraneo è addossata ai «trafficanti di esseri umani» che organizzano i viaggi e non alle politiche europee e italiane in materia di immigrazione. Questo nonostante il fatto che queste stesse politiche abbiano quasi del tutto cancellato la possibilità di ottenere un visto di lavoro o familiare per entrare in Europa attraverso un percorso normale e sicuro per tutti, tranne che per i più ricchi. E attraverso un attento spostamento discorsivo, le missioni delle Ong volte a salvare vite umane sono state identificate con gli stessi «trafficanti di esseri umani».
Da trafficanti a capitani
È strano e inquietante come una protesta contro la crudeltà dei trafficanti che lucrano sul traffico di esseri umani si sia trasformata nella penalizzazione giuridica degli attivisti e delle Ong internazionali che offrono solidarietà ai migranti. Come ha detto l’ex senatrice della Lega a Lampedusa: «Sono mercanti di carne umana». Lo shock e il disgusto provocato dagli orrori dei campi di concentramento libici e dai naufragi di massa nel Mediterraneo sono stati incanalati non verso un appello solidale all’emancipazione, ma verso la richiesta di più repressione.
Le tappe di questa trasformazione, di questo sfruttamento delle emozioni collettive, possono essere tracciate con una certa precisione. Consapevolmente o meno, ciò che ha dato inizio a tutto è stata la pratica di identificare e arrestare sistematicamente coloro che guidano i battelli di legno e di gomma che arrivano carichi di migranti dal Nord Africa. Nella stragrande maggioranza dei casi gli arrestati sono giovani migranti che non hanno niente di diverso dagli altri passeggeri, se non l’essere doppiamente vittime: hanno vissuto i campi di concentramento libici come gli altri e inoltre sono stati obbligati a guidare la barca spesso sotto la minaccia di morte.
Da anni ormai va avanti la prassi di arrestare due o tre persone per ogni piccola imbarcazione intercettata. Vengono poi avviate indagini che in troppi casi portano a condanne da sei mesi a dieci anni di carcere. In Grecia, molti conducenti di imbarcazioni, turchi e siriani, sono stati condannati fino a venticinque anni. E il fenomeno non si ferma: a giugno, per esempio, due senegalesi salvati da una nave cargo – uno dei quali un adolescente sedicenne – sono stati arrestati per lo stesso presunto crimine. Sono migliaia i migranti colpiti da queste sanzioni in Italia, centinaia di loro si trovano tuttora in carcere. La scala è molto più ridotta rispetto alla carcerazione di massa dei giovani neri negli Stati Uniti, ma è possibile ravvisare qualche somiglianza.
I piloti di barche sono diventati rapidamente il capro espiatorio dell’immigrazione italiana, nonostante siano innocenti (e, anzi, dimostrino coraggio ed eroismo) e spesso vengano assolti dalle corti d’appello. Così, dopo che questi giovani neri sono entrati ormai in pianta stabile nel mirino dei media, è diventato fin troppo facile passare dalle accuse agli autisti dei gommoni a quelle contro le Ong impegnate nei soccorsi in mare. Le reti internazionali dell’estrema destra che hanno alimentato questo cambiamento di tono sono state senza dubbio aiutate anche da elementi dei servizi di sicurezza italiani.
Blog strampalati e politici estremisti hanno cominciato a introdurre l’idea che le Ong stiano in qualche modo approfittando delle missioni di salvataggio, che operino in combutta con i trafficanti libici e che ci siano di mezzo i «soldi di Soros» e una cospirazione ebraica per la sostituzione della razza bianca. Ben presto, queste nuove versioni di vecchissime menzogne si sono spostate dai margini al centro dell’arena politica. Quando il precedente governo a guida Pd ha firmato un accordo omicida per chiudere la via del Mediterraneo finanziando e addestrando direttamente la cosiddetta Guardia Costiera libica – spesso gestita dagli stessi trafficanti di esseri umani – le calunnie e le falsità avevano già messo radici. Il contagio si è esteso dai trafficanti libici ai piloti di imbarcazioni di migranti, poi dai piloti di imbarcazioni di migranti ai capitani delle Ong.
A cosa servono questi capri espiatori? Quest’ultimo drammatico episodio di repressione è stato senza dubbio utilizzato per distogliere l’attenzione da una situazione economica infelice e dalle contraddizioni delle politiche del governo italiano. Da anni la tecnica della distrazione di massa viene usata per coprire i fallimenti politici, e questa volta il capro espiatorio è stato trovato nella «Ong straniera», che si sposa bene con il nazionalismo virulento di Salvini. Così sul profilo Twitter di Salvini gli attacchi ai leader dell’Ue, in cui si sottolinea il suo fermo sostegno ai tagli e ai condoni fiscali per i ricchi (mentre l’Ue chiede aumenti dell’Iva e tagli alla spesa), si accompagnano agli attacchi sul carattere «straniero» della Sea Watch 3: una Ong tedesca che gestisce una nave che batte bandiera olandese.
Quando l’ex senatrice della Lega ha gridato: «Dovreste tornare tutti da dove venite», la sua xenofobia si rivolgeva tanto all’equipaggio tedesco quanto ai migranti salvati. Questa xenofobia performativa nasconde il fatto che una Ong italiana, Mediterranea, che gestisce una nave battente bandiera italiana, ha affrontato una criminalizzazione simile all’inizio di quest’anno. O, cosa ancora più significativa, che una nave della Guardia costiera italiana, la Diciotti, è stata bloccata e minacciata l’estate scorsa per aver sbarcato migranti salvati in un porto italiano.
Non c’è alcuna possibilità che il governo abbia dimenticato almeno quest’ultimo incidente, visto che Salvini è sfuggito solo per un soffio alle accuse penali che gli sono state imputate per il suo rifiuto di permettere ai migranti di sbarcare, durato settimane. A salvarlo è stato l’autoproclamato partito dell’«onestà», ovvero quello dei suoi compagni di coalizione del Movimento Cinque Stelle, che ha votato in difesa della sua immunità parlamentare. I capitani che salvano vite in mare sono criminalizzati, a prescindere dalla bandiera che issano, mentre il ministro degli interni è intoccabile.
La solidarietà verso i migranti è internazionalismo
All’estrema destra per salire al potere è bastato cavalcare l’ondata di xenofobia e di demonizzazione. L’arresto di Carola Rackete è un nuovo numero in questo spettacolo mediatico di repressione di cui il governo italiano è maestro. Può essere un problema relativo per le Ong se questa prima fase di criminalizzazione – la feroce critica pubblica dei migranti e della solidarietà – sfoci effettivamente in una seconda fase fatta di condanne vere e proprie e di multe. L’obiettivo degli attacchi viene comunque raggiunto: arresti, spettacolo pubblico, emorragia di finanziamenti ai gruppi di solidarietà, un’ombra generalizzata di sospetto che cala su una serie di semplici atti di generosità e umanità. L’obiettivo dello Stato italiano non è quello di mettere fine alla crisi, ma al contrario di esacerbarla, non di eliminare l’opposizione, ma di esagerare costantemente la minaccia che rappresenta e di celebrare ogni sua presunta sconfitta.
Nel frattempo, gli sbarchi dei migranti continuano, spesso senza clamore. Negli stessi giorni in cui il circo mediatico si concentrava sulla Sea Watch 3 centinaia di persone sono sbarcate sulle coste italiane usando piccole e agili imbarcazioni. Il blocco dei visti d’ingresso in Italia, gli accordi con i dittatori e i trafficanti libici, la repressione degli attivisti della solidarietà e l’approvazione di nuove leggi penali non sono ancora riusciti a impedire completamente di superare le barriere ai proletari che si muovono da diverse parti del mondo. La cosiddetta politica dei porti chiusi ha puntato i riflettori sulle missioni di salvataggio e ha allontanato le Ong dalle spiagge. Ma fermare le missioni delle Ong non significa fermare le barche che attraversano il Mediterraneo, significa solo sentirne meno parlare, naufragi compresi.
Le cinquantatré persone salvate da Sea Watch 3 erano appena fuggite dai campi di concentramento e dalla guerra civile libica. A Tripoli continuano i bombardamenti, l’aeroporto è chiuso e i carri armati e le milizie di Haftar circondano la città. Decine di migliaia di persone sono fuggite. Chi è rimasto intrappolato lì – libici e migranti – ha lanciato disperate richieste di aiuto. Martedì 2 luglio scorso Fayez al-Sarraj, il premier libico sostenuto dall’Onu, si è recato a Milano per chiedere maggiore sostegno militare. Il contesto in cui la destra europea, con Salvini al timone, ha deciso di flettere i muscoli non è quindi solo italiano, ma internazionale.
La sinistra dovrebbe difendere con coerenza la libertà di movimento delle persone e opporsi al regime di frontiera razzista e classista dell’Europa. Il fatto che questi non siano i tempi migliori dovrebbe rendere ancora più forte la nostra difesa di questa libertà. I vari mitologici appelli lanciati dai sostenitori dell’idea che la sinistra italiana e europea stia combattendo una battaglia persa contro le masse popolari e dovrebbe quindi rinnegare i suoi principi, sono soltanto indice di una miopia catastrofica e di una tragica mancanza di internazionalismo.
Nonostante tutto, una coalizione internazionale di piccole Ong radicali – Mediterranea, Sea-Eye e Open Arms – sta continuando a operare missioni di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo, anche se alcune imbarcazioni sono ancora sotto sequestro da parte dello Stato italiano. E se i nostri governi fanno leggi per ostacolare ulteriormente le loro attività, dobbiamo infrangere queste leggi.
*Richard Brodie è un traduttore e un attivista antirazzista che vive a Palermo. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
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