È sempre la stessa storia. Non sono più le stesse donne
A proposito del femminicidio di Giulia Cecchettin, del femminicida Filippo Turetta, e delle parole «nuove» di Elena Cecchettin
La notizia di un’altra donna uccisa fa riprendere il filo di una narrazione che non finisce mai, rianima le stesse parole, la stessa rabbia per lo stesso orrore.
Le donne continuano a essere ammazzate. Sono anni che le donne lo scrivono, lo dicono, lo urlano nelle piazze.
Forse perché ogni uccisione si alimenta della stessa retorica, della stessa dinamica, della stessa relazione tra uomini e donne, del linguaggio della violenza vecchio di secoli, quello del potere. Io stessa ne scrivo da anni, assumendo la voce delle donne, investigando quella degli uomini.
«Cominciamo sempre da qualcosa di banale, e finisce che non so più da dove siamo partiti, e dove vuole arrivare. Discutiamo per niente, e sembra che sia tutto lì, tutto quello per cui vale la pena vivere. Una questione di vita o di morte. Si scalda, in un attimo è in fiamme. […] Non capisco perché con lei non sia mai semplice. È lei che non è semplice. Mi sfinisce, non c’è nessuno che mi sfinisca come lei. Parla, parla, non la smette più quando comincia.
Che rompi coglioni che sei, Nina. Stai buona, su. Fai la brava, ce la fai a stare un po’ zitta? Mi fai parlare?, non mi interrompere, cazzo, lo vedi come fai? Ci godi a farmi incazzare?, quanto ci godi? È una pazza, un’isterica. Ecco, sì, isterica. E quando alla fine se ne va via mollandomi lì impazzisco, la odio, la ucciderei».
Padreterno è uscito nel 2015, ancora non c’era la parola femminicidio. In quel romanzo, raccontavo di un uomo che cerca le ragioni della violenza con la quale tratta la donna che dice di amare. Le cerca dentro di sé, che vuole dire dentro la sua educazione, la scuola, la società, la cultura, la Storia. Non so se ci sono riuscita, di sicuro era la prima volta. Volevo che fosse un uomo a parlare, un maschio bianco etero istruito colto, un figlio della media borghesia, un uomo sapiente, beneducato, mediamente ricco, un uomo medio, un uomo qualunque, che non avesse qualche stereotipo ideologico, classista, razzista, colonialista, perbenista sulle spalle, povero, migrante, disoccupato, alcolista, nero, giovane alterato da sostanze stupefacenti, di destra, disturbato, pazzo.
Volevo che fosse un uomo che si mette a parlare di sé in relazione alle donne incontrate, amate e odiate della sua vita, prima fra tutte la madre.
Quest’uomo non esiste, non esiste ancora. Una società che finalmente interroga gli uomini non c’è. Non c’è un uomo che usi parole come molestia, abuso, violenza, femminicidio, con la consapevolezza che possano riguardarlo, che consideri tossica una certa volontà di potere prevaricante dentro una storia d’amore, che ammetta di essere all’interno di un sistema millenario di privilegi, di goderne e di non volerne perdere i vantaggi.
Non c’è un uomo che riconosca un gesto come violento, una battuta come sessista, un uomo che si metta a discutere con un altro uomo su come sta guardando una donna, su come la sta molestando, che riconosca nel suo modo di vedere le donne l’orrore storico con cui il sistema patriarcale le ha sempre viste e assoggettate al suo sguardo. Non c’è ancora un uomo che denunci un altro uomo perché tratta una donna come fosse una sua proprietà, un suo bene, una sua preda, un bottino di guerra, una protesi del suo stesso corpo, banalmente un oggetto anziché un soggetto. Troppo? Va bene, magari qualcuno ce n’è.
Le donne vengono uccise da uomini con cui hanno avuto una relazione. Non è forse questo il problema? Che chi uccide sia stato o sia il nostro compagno, il fidanzato, il marito, l’uomo che amiamo o abbiamo amato? Che il male di certe relazioni non è il conflitto in sé ma l’incapacità o la non volontà di attraversarlo?
Giulia Cecchettin è l’ultima di una serie di donne uccise dal proprio partner, una ogni due giorni, in questo paese, diverse per età, ceto, classe, colore della pelle, etero, se si sta al fatto che chi l’ha uccisa era il suo compagno, marito, ex, uccise da un un uomo esponente di quella che sappiamo ormai tutte essere una cultura che ama i suoi assassini. Questo vuole dire patriarcale, diciamolo, un sistema in cui il maschio è sempre un bravo ragazzo, un gran lavoratore, un padre di famiglia, un fidanzato fedele, un uomo gentile, un figlio beneducato, uno studente modello, un uomo forte, un soldato coraggioso, un prete dolcissimo. Potrei continuare, ma li conosciamo gli uomini così, capaci di renderci felici e di ucciderci. Lo so che non ci piace, ma non è che chi ci uccide non ci ha amato, non ci ha fatto godere, non ha avuto parole buone e gesti amorevoli, non ci ha fatto i biscotti. La dolcezza, il desiderio, la gioia non sono solo le manifestazioni di un amore equilibrato, fatto di reciprocità, di conflitti attraversati con rispetto, di libertà condivise, di un’alleanza di corpi da stringere ogni giorno. Sono l’altra faccia di un sistema di segni che non esclude controllo, manipolazione, oppressione, abuso, delegittimazione, ludibrio. Sono i segni della violenza, li vediamo, a volte li riconosciamo, e magari li combattiamo, ci ribelliamo, ma fanno parte di un codice così interiorizzato che non ci facciamo neanche caso. «Dai, non esagerare, figurati, è solo una manifestazione del fatto che ti vuole bene, di quanto ti vuole, di come ti ama». Quante volte le donne vengono zittite, messe a tacere o a sedere, da chi le ama, da chi dà loro lavoro (sic!), quante volte uomini che le fanno sentire belle immediatamente dopo le umiliano commentando il loro corpo o quello di qualcun’altra, quante volte le esaltano e poi le usano, le lusingano e denigrano un attimo dopo, dopo essere stati rassicurati, appena dopo essersi sentiti amati. Quante volte uomini minacciano, attaccano, dopo aver detto loro che magari era finita, dopo aver realizzato che magari certi gesti e certe parole e certe battute, anche no, non ci piacciono, non ci fanno bene, non ci fanno stare al mondo come vogliamo?
Il modello patriarcale, eteronormato, diciamolo, non funziona più, fondato com’è sul dominio, la prevaricazione, la gerarchia suprematista. Lo hanno combattuto le donne del secolo scorso, cambiando leggi e migliorando le condizioni economiche e sociali delle donne. Ma una cultura radicata da millenni non la cambia una legge, lo sappiamo, e non perché non sia allettante, desiderabile, una vita senza imposizioni patriarcali di ogni genere. L’uso del corpo delle donne alimenta ancora un sistema perfetto, un capitalismo privato e di stato che fonda la propria sussistenza sullo sfruttamento. Tuttora, sì, non diciamoci che le cose sono così cambiate. Mi soffermo sulla questione del sapere, che sembra avere poca eco ma che è spesso al centro di molte delle violenze subite dalle donne.
«Stupida, credi di sapere tutto tu, hai sempre ragione tu, non capisci niente, te ne stai un po’ zitta, dai, parli sempre tu, mi fai parlare? Lo vedi che non mi fai parlare?», dice ancora Teo, l’uomo del mio romanzo che non sa bene come fare con l’intelligenza di Nina.
Frammenti di discorsi noti, vero? Mi piacerebbe poter dire di non averli sentiti. Il sapere delle donne non piace agli uomini. Non ne godono, non lo rispettano. Si mettono subito in una posizione di fragilità, di insicurezza, di perdita di autorità. La questione della supremazia si basa anche sulla volontà di mettere in una posizione di ignoranza le donne. Non sto qui a nominare tutte le donne che hanno preferito l’ombra di un nome maschile o hanno subito e subiscono l’onta di un anonimato. Ma quante ancora faticano ad avere il loro nome in una conferenza? Quante faticano a venire chiamate a discutere temi che non siano considerati «femminili»? Quante vengono ancora zittite in pubblico da uomini che ne sanno meno di loro e che millantano di sapere, ma anche quante vengono messe a tacere se esprimono un giudizio, un’opinione, un desiderio? Quante guadagnano la stessa cifra facendo lo stesso lavoro, quante corrono ancora strappate alla propria autoaffermazione dal lavoro di cura, tra figli, genitori, mariti, malattie e problemi, quante subiscono battute sessiste passate per complimenti, quante si devono rimpicciolire per far parte di un mondo che le vuole piccole, pronte a ringraziare per avere quello che spetta loro di diritto, grate di fronte a un sistema paternalistico che impone l’inchino, per non dire qualcosa che finisce con -ino, che gratifica se gratificato, che promuove se omaggiato, che ama se amato? Le donne continuano a morire anche perché si stanno laureando.
Giulia Cecchettin è l’ennesima donna uccisa dal suo partner. Ma cosa ha smosso il suo corpo ritrovato dopo giorni di ansia di persone vicine, di attenzione mediatica che non vede l’ora di fare show, di fare contraddittorio, amante di pietismi e vittimismi? Soprattutto, cosa ha fatto scendere di nuovo in piazza migliaia di persone in queste ore?
Di solito la narrazione che segue un femminicidio è un misto di dolore e rabbia, da parte delle donne ancora in vita, di indifferenza, distacco, spettacolarizzazione o vittimizzazione, da parte degli uomini, dei media, dello Stato. A meno che chi racconta non parli le parole consapevoli di un femminismo che ci ricorda che cultura patriarcale è un modo di organizzare la società, quindi l’economia, quindi la politica, quindi le relazioni, quindi l’amore. Così ha fatto Elena Cecchettin, sorella di Giulia. Ha detto ai microfoni di giornali e tv generaliste ciò che di solito sentiamo nelle piazze femministe. Ha chiamato Filippo Turetta il figlio sano del patriarcato, parola che pare uscita oggi per la prima volta come una maledizione dal vaso di Pandora, ha definito cultura dello stupro quella di cui ci nutriamo uomini e donne da sempre ogni giorno. Ha fatto della morte di una sorella un fatto privato e politico insieme. Consapevole o no è il soggetto imprevisto che ha fatto dell’ennesimo femminicidio non solo un orrore personale ma un manifesto politico, non solo un’occasione di lutto privato ma l’occasione di un’elaborazione del lutto collettiva. Le sue parole, lucide, accese, hanno invitato gli uomini, in generale, sì, a ripensarsi, a ridefinirsi, a prendere atto, e rivoluzionare il loro modo di stare al mondo.
Il cosa è chiaro, il come lo trovino gli uomini, sembra dire. Che si dichiarino, che si autodenuncino, che si confrontino. Che non tacciano, anzi parlino.
*Caterina Serra è, scrittrice e sceneggiatrice. Tra le sue opere il romanzo-reportage Tilt (Einaudi 2008) e il romanzo Padreterno, una storia sulla violenza di genere (Einaudi 2015). A questo indirizzo il suo blog.
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