
Femonazionalismo
Come è possibile che i politici xenofobi dicano di voler difendere le donne immigrate? Per capirlo dobbiamo indagare più la sostanza che la forma, individuare il modo in cui i populisti cercano di costruire un popolo specifico
L’identificazione di un nemico contro cui si coagula il soggetto populista può sembrare efficace per descrivere in modo accurato le campagne contemporanee anti islam e anti immigrazione che contraddistinguono la propaganda populista: ma come spieghiamo il fatto che le donne musulmane e le migranti non occidentali più in generale costituiscono un’eccezione? In altre parole su quale base sono sottratte al campo nemico e identificate come oppresse par excellence? Se l’identità del popolo che si plasma nella costruzione del momento populista richiede l’identificazione dell’Altro – del nemico – in quali condizioni allora questo nemico può essere diviso in due campi diversi, ovvero il campo dei nemici (maschi) e il campo delle vittime (femmine)?
Per rispondere a queste domande, o meglio, per mostrare che un approccio formalista non può rispondervi in modo adeguato, iniziamo a osservare alcuni punti deboli del modo in cui Laclau definisce il populismo. L’accezione che ne dà come politica che rende il popolo un soggetto politico con richieste omogenee e forgia la sua identità attraverso l’identificazione di un nemico, è suscettibile di almeno tre obiezioni principali. Per prima cosa l’idea che il popolo sia costituito da un’operazione di omogeneizzazione attraverso la creazione di una catena di rivendicazioni equivalenti offusca le differenze e le divisioni – in particolare di genere, ma anche di classe, razza e orientamento sessuale – che risiedono nel supposto corpo politico uniforme chiamato «il popolo». In secondo luogo l’affermazione che sia possibile caratterizzare il progetto politico populista (ma anche ogni progetto politico) in modo formalista, senza analizzarne il contenuto specifico o il programma – cioè senza doversi interessare al «livello ontico», con le parole di Laclau –, rischia di essere fuorviante. Come ha notato a dovere Slavoj Žižek, «la serie di condizioni formali che Laclau enumera non è sufficiente per giustificare la definizione del fenomeno populista; bisogna anche considerare il modo in cui il discorso populista rimpiazza l’antagonismo e costruisce il nemico». L’approccio formalista tende ad astrarre dalle determinazioni concrete in cui questi partiti articolano la propria azione politica, oscurando lo specifico insieme di idee, principi e miti attraverso cui essi esprimono la propria visione della società. È solo attraverso un esame delle caratteristiche intorno alle quali i populisti tentano di mobilitare e creare un popolo specifico come soggetto politico definito che è possibile comprendere la loro enfasi recente sui diritti delle donne e sulle donne musulmane come vittime da salvare.
Infine la definizione di populismo nei termini della costruzione del popolo attraverso la creazione di una frontiera interna che lo divida dall’Altro si richiama alla caratterizzazione della politica di Carl Schmitt fondata sull’opposizione amico/nemico. Secondo Schmitt «la specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici è la distinzione di amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o una spiegazione del contenuto» (La categoria del politico, Il Mulino, 1972). Come detto prima, per Laclau il populismo e la politica coincidono: il populismo cioè sembra essere un «tipo di dispositivo politico trascendentale-formale che può essere incorporato in diversi tipi di dispositivi politici», per dirlo con l’efficace formula di Žižek. Come per Schmitt, la politica per Laclau possiede una logica autonoma; è definita a livello formalista e non sostanziale; soprattutto la dicotomia amico/nemico che la definisce descrive un tipo di antagonismo diverso dall’antagonismo degli interessi economici o di classe.
Ma ciò che è importante notare a questo punto è che la dimensione schmittiana del lavoro di Laclau ci permette di distinguere alcune delle ragioni per cui ritengo che la sua teoria del populismo – così come la maggior parte delle narrazioni che sottolineano la matrice populista di questi partiti – sia inadeguata a spiegare l’«infida empatia per le donne musulmane» dei partiti di destra contemporanei (per prendere in prestito la definizione di Leila Ahmed). Innanzitutto i limiti della definizione di populismo di Laclau sono evidenti quando prendiamo in considerazione l’interpretazione di Derrida del concetto schmittiano di politica. Per Derrida la visione della politica di Schmitt è un «deserto brulicante di persone», un deserto dove «non vive nessuna donna». In altre parole la metafora di Derrida sottolinea con forza che teorizzare la politica come quello spazio in cui si consuma l’antagonismo tra amico e nemico (chiaro riferimento al campo militare) rappresenta una concezione della politica come attività maschile-muscolare dalla quale è probabile che le donne siano escluse fin dall’inizio.
Non c’è da stupirsi se Tereza Orozco ha evidenziato che il concetto vitalistico di Schmitt di una politica basata su «una maschilità autoritaria e repressiva» è così intrecciato al suo complessivo modello di politica da renderlo «l’intra-discorso del politico». Quando la politica è intesa come antagonismo muscolare – come nella metafora amico/nemico – sembra che le donne possano entrare nel Kampfplatz [campo di battaglia, Ndt] solo per ricoprire il ruolo ancillare di infermiere per i soldati feriti, o per figurare come il bottino di guerra del maschio vincitore che umilia così il suo avversario maschio sconfitto, prendendo possesso delle «sue» donne. Il fatto che Laclau adotti la dicotomia formale e maschio-centrica di Schmitt limita la nostra comprensione delle ragioni per cui partiti di destra come il Partito per la libertà olandese (Partij voor de Vrijheid, Pvv), il Front national francese ((Fn) e la Lega utilizzino i diritti delle donne per dipingere gli uomini stranieri non occidentali come una minaccia (spesso sessuale) e le donne straniere non occidentali (musulmane o meno) come vittime. In altre parole il ricorso di Laclau alle metafore machiste della politica come un campo di battaglia tra nemici (implicitamente) maschi non si presta a decifrare le ragioni per cui le donne «native» sono reclutate in queste campagne e le ragioni per cui le donne nemiche sono descritte come bottini di guerra e come vittime da salvare.
In contrasto con tale formalismo ritengo che soltanto analizzando gli slogan concreti e le politiche introdotte da questi partiti – ovvero il contenuto e non solo la forma – possiamo comprendere le ragioni di cui sopra. Il popolo chiamato ad agire contro l’Altro non è un demos informe, ma uno specifico ethnos o natio. Di conseguenza il nemico contro cui i populisti invitano il popolo a forgiare la propria identità non è un significante vuoto che può essere riempito da qualsiasi collettività o gruppo ma, nel contesto contemporaneo, un determinato significante politico, nazionale ed economico, ovvero il migrante non occidentale e in particolare il musulmano. Le persone migranti sono considerate delle intruse soprattutto perché sono straniere e portatrici di differenze (culturali, religiose, storiche, economiche e così via), interferendo così nella serie di equivalenze che costituiscono il popolo come unico soggetto politico-nazionale.
Perché il concetto di populismo possa essere utile a descrivere partiti come il Pvv, il Fn e la Lega, deve essere integrato nell’apparato concettuale delle teorie del nazionalismo. La prospettiva nazionalista, come nota Alexandre Dézé in un articolo sul n. 54 della rivista Lectures critiques «offre la possibilità di sottolineare due dimensioni inerenti ai partiti di destra […] lo stile e la retorica politica, populista e contestataria» e «la loro dottrina incentrata sulla difesa dell’identità nazionale e sul trattamento xenofobo e razzista di temi come l’immigrazione». Anche se aderisce alla definizione di populismo come chiave per definire i partiti di destra radicale, Cas Mudde in Populist Radical Right Parties in Europe (Cambridge University Prss, 2009)ritiene che «la destra populista radicale costituisca una forma specifica di nazionalismo». Propongo pertanto di leggere il populismo come uno stile politico o un dispositivo retorico, non come il significante concettuale più efficace per spiegare le politiche e le idee sostenute dai partiti di destra.
Identificare la matrice nazionalista di questi partiti, inoltre, permette di comprendere le forti strutture di genere sottese al nazionalismo. Come afferma Anne McClintock nel libro da lei curato Dangerous Liaisons: Gender, Nation, and Postcolonial Perspectives (University of Minnesota Press, 1997), «nonostante l’investimento ideologico del nazionalismo nell’idea di unità popolare, le nazioni hanno rappresentato storicamente l’istituzionalizzazione della differenza di genere. […] Invece di esprimere la puntuale fioritura dell’essenza organica di un popolo senza tempo, le nazioni sono sistemi controversi di rappresentazione culturale che limitano o legittimano l’accesso delle persone alle risorse dello stato-nazione». Approfondire il lato di genere delle ideologie nazionaliste può pertanto aiutarci a comprendere l’attenzione crescente del Pvv, del Fn e della Lega verso le questioni che riguardano le donne, e in particolare la loro proclamata solidarietà per le sofferenze delle donne musulmane.
I partiti di destra nell’ultimo decennio hanno prestato sempre maggior attenzione alle questioni di genere denunciando gli uomini musulmani e immigrati come minacce sessuali. Le politiche di genere che hanno proposto tuttavia – soprattutto nel caso del Fn e della Lega – sono connesse ai classici interessi della destra, come i tassi di fertilità delle donne. Alla fine degli anni Duemila l’Italia ha assistito all’attuazione di varie misure per incrementare il tasso di natalità delle «donne della nazione». Ad esempio il Fondo nuovi nati introdotto dal governo Berlusconi (che, ricordiamo, includeva la partecipazione della Lega) dava diritto a chi era diventata madre tra il 2009 e il 2011 di richiedere un prestito bancario agevolato e di accedere ai sussidi di genitorialità. I genitori immigrati non in possesso della nazionalità italiana erano esclusi da alcuni di questi sussidi, riservati ai cittadini italiani. In Francia il Fn ha avviato una campagna a sostegno delle famiglie, a suo dire in risposta a un calo drammatico del tasso di natalità, in particolare tra «le donne di nazionalità francese». Come sono ansiosi di riferire nel loro sito, «degli 832.799 bambini nati e registrati nel 2010, solo 667.707 sono nati da genitori entrambi di nazionalità francese». Nei Paesi Bassi il leader del Pvv Geert Wilders è stato al centro dell’attenzione mediatica – e giudiziaria – perché in un’intervista per il quotidiano olandese Volkskrant ha fatto riferimento ai tassi di natalità delle persone musulmane e ai ricongiungimenti familiari come a uno «tsunami di musulmani» che minacciava di sommergere il paese.
Come dimostrano tali esempi, l’allarmismo di questi partiti rispetto al calo della fertilità femminile in Europa occidentale è legato al fatto che privilegiano criteri nazionali/etnici di inclusione, invitando le donne «native» a «riprodurre» la nazione in senso letterale. Tali partiti sono tutti ferventi sostenitori di un nazionalismo basato su Volk e Kultur (cioè etnia e cultura), che promuove un’idea della nazione come insieme organico in apparenza omogeneo rispetto alla dimensione religiosa, culturale e razziale/etnica. Articolano un programma politico che privilegia gli interessi economici nazionali (o regionali) agli interessi europei o internazionali. Inoltre inventano riferimenti a delle origini, a un ethnos e una cultura comuni per dimostrare i legami con comunità mitiche e perdute, escludendo così gli immigrati dallo spazio della nazione. Ad esempio lo slogan «Stopper l’immigration, renforcer l’identité française!» (fermiamo l’immigrazione, rinforziamo l’identità francese) ha decorato per un po’ di tempo la pagina web del Fn, con un link al suo programma in materia di immigrazione. Allo stesso modo il Pvv nel suo programma propone di mettere fine all’entrata di nuovi immigrati nel paese, di proibire la doppia nazionalità e di stabilire un controllo nazionale sulle politiche migratorie statali: «We bestrijden de dubbele nationaliteit! Nederland moet zelf over het immigratiebeleid gaan, niet Brussel!» (Ci opponiamo alla doppia nazionalità! I Paesi Bassi dovrebbero decidere delle politiche migratorie, non Bruxelles!). Infine la Lega, oltre a sostenere un programma islamofobo e anti immigrazione, ha anche inventato una nuova «nazionalità» costruendo il mito delle origini degli italiani del nord (i padani) che dovrebbero discendere dai celti e che per questo dovrebbero venerare divinità pagane come il dio Po.
Riconoscere che le nozioni di Volksnation e Kulturnation costituiscono il sostrato fondamentale delle politiche di questi partiti ci permette di affrontare le dimensioni di genere del nazionalismo. Possiamo identificarle già a livello iconografico: la rappresentazione della nazione o della città per mezzo di un corpo femminile è riscontrabile in numerose culture dell’antichità. La tendenza delle lingue romanze ad attribuire il genere femminile sia alla nazione che alla città è un ulteriore esempio della sessualizzazione originaria della comunità nazionale. Soltanto in epoca moderna, nel contesto storico politico di ascesa del moderno stato-nazione, la costruzione delle ideologie nazionaliste ha coinciso con l’elaborazione di uno specifico immaginario di genere. Marianne in Francia; una donna con una corona di mura cittadine in Italia; una vergine (Stedemaagd) a rappresentare la città di Amsterdam nei Paesi Bassi: in tutti e tre i paesi le donne incarnano o simboleggiano la nazione. Ma quali donne e a quale scopo? Secondo Massimo Leone il declino dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia sono coincisi con la rappresentazione della nazione moderna attraverso il corpo di una donna «del popolo», al posto delle figure tradizionali di dee o regine. Con la perdita dell’aura sacra che un tempo circondava la monarchia i cittadini dello stato moderno non potevano più identificarsi con l’autorità regale ma avevano bisogno di simboli più terreni e popolari.
Questa tuttavia non è l’unica ragione: rappresentare la nazione con le sembianze di una donna ha permesso di naturalizzare il progetto politico nazionalista. A differenza dello stato moderno, concepito come «prodotto artificiale di un patto tra individui razionali a tutela dei loro diritti, la nazione è intesa e vissuta come prodotto storico, se non addirittura naturale», scrive Tamar Pitch su il manifesto del 26 febbraio 2011. Anche se la nazione è un prodotto storico e sociale – o una comunità immaginaria, nella potente definizione di Benedict Anderson – naturalizzarla ne permette e rinforza la legittimità poiché la sua presunta naturalezza implica la sua necessità, immutabilità e il diritto alla lealtà.
*Sara R. Farris è senior lecturer in sociologia presso la Goldsmiths-University of London. Questo testo è tratto da Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne (Alegre) uscito in inglese con il titolo In the name of women right (Duke University press). La traduzione è di Marie Moïse e Marta Panighel.
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