I can’t breathe, senza cittadinanza
La legge Bossi-Fini che regola l'immigrazione mantiene il cappio al collo di migliaia di persone. Restano col fiato sospeso, appesi a un contratto di lavoro. Ecco un altro modo per impedire di respirare
In Italia esiste una legge razzista che costringe gli italiani e le italiane senza cittadinanza a chiedere il permesso (di soggiorno) per respirare nel proprio paese. Si tratta di una situazione di evidente ingiustizia che riguarda un milione di bambini, adolescenti e giovani adulti, ma che fatica a diventare la priorità da affrontare sia per chi governa che per l’opinione pubblica. L’attenzione è sempre focalizzata su qualcos’altro anche quando è il razzismo a finire sotto i riflettori, come nel caso delle recenti proteste negli Stati Uniti. In Italia una marea di indignazione si è sollevatacontro le falle del sistema e i crimini della polizia d’oltreoceano, ma i molti che a loro volta, in Italia, sono stati bersaglio del razzismo culturale o addirittura istituzionale sono rimasti perplessi.
Ai neri e nere italiani, ai giovani di origine straniera, agli italiani di fatto ma non per legge è sembrata del tutto incoerente l’incapacità del proprio paese di guardarsi allo specchio e condannare fermamente anche le proprie grandi falle. Falle di un sistema che permette, se non addirittura produce, odio verso chi non è italiano da molte generazioni, a cominciare da chi ha la pelle nera, e che si fonda su leggi discriminatorie, a cominciare dalla legge sull’accesso alla cittadinanza italiana. Falle dovute anche all’invivibile legge sull’immigrazione, che mantiene col cappio al collo fin da bambini, dipendenti dal permesso di soggiorno dei genitori che, se revocato, spalanca le porte alla voragine dell’irregolarità e al rischio di espulsione verso paesi di origine che non conoscono proprio o non riconoscono più.
«E ora mi date la cittadinanza, vero?», ha esordito in questi giorni provocatoriamente l’italiano non riconosciuto John Modupe, dopo aver seguito su giornali e canali social i tantissimi commenti solidali con la protesta negli Stati uniti. Tra questi anche quelli di influencer, vip, musicisti, artisti famosi, politici e intellettuali pronti a spendersi per eventi geograficamente distanti. Il giovane afroitaliano, cresciuto a Parma e figlio di un Pastore, autoproduce da anni il podcast OMJ («Oh My John») e dai suoi microfoni esige un minimo di coerenza: fare gli antirazzisti anche in casa propria. Che oggi vuol dire anche sostenere concretamente una riforma della legge sulla cittadinanza italiana, la legge 91 del 1992, che discrimina pesantemente nell’accesso a pari diritti.
Diventare italiani per cittadinanza vuol dire il respiro sereno e la sicurezza che, per i coetanei che l’hanno ereditata, sono scontati. Ad esempio circolare tranquillamente in Europa, e finalmente anche in altri continenti, non aspettare i lunghi e incerti rinnovi del permesso né ripetere sempre le stesse lunghe file presso gli uffici della Polizia, inquadrati come potenziali criminali. Vuol dire avere la libertà di accedere a qualsiasi concorso pubblico e poter accettare qualsiasi lavoro e non per forza la raccolta di pomodori o l’assistenza agli anziani a cui i figli sembrano destinati come i genitori per conservare la sicurezza di un contratto e quindi di un permesso a restare. Essere cittadini permette di votare nel paese dove, crescendo, hai sviluppato la consapevolezza e la responsabilità di far parte della società oppure ambire persino a borse di studio all’estero che interromperebbero la continuità della residenza, importante perché è un requisito fondamentale per l’accesso alla cittadinanza italiana.
Una battaglia per respirare liberamente era stata già portata avanti dal movimento #ItalianiSenzaCittadinanza, composto soprattutto da ventenni che la scorsa legislatura sono scesi ripetutamente in piazza perché l’allora Governo di centrosinistra, a maggioranza Pd, si decidesse a riconoscerli cittadini. Ma allora aveva manifestato con loro soltanto una minoranza di insegnanti, associazioni di genitori e alunni, attivisti e studenti che avevano compreso la gravità della situazione. E li avevano sostenuti anche le storiche organizzazioni nazionali della Campagna «L’Italia sono anch’io», che avevano raccolto firme e depositato un proprio testo di riforma della legge, ma che erano riuscite a coinvolgere nelle piazze solo una piccola parte dei propri iscritti.
Per questo può risultare amaro per molti figli di immigrati assistere oggi al grande interesse per le proteste antirazziste negli Stati uniti da parte di tanti italiani senza che venga accompagnato spontaneamente alla lotta contro il razzismo di «casa propria». Consapevolezza interna di cui ci sarebbe un gran bisogno perché intanto la situazione è addirittura peggiorata: la riforma della cittadinanza non è mai diventata legge a causa della vigliaccheria dei senatori della scorsa legislatura ed è avanzato l’accanimento razzista della Lega, con i suoi Decreti Sicurezza (votati insieme al Movimento cinque stelle) e i tentativi di imporre discriminazioni nelle scuole. Come scrive EF Maïga, italiana senza cittadinanza di origini ivoriane, in un suo commento, «In questo nostro paese dove la popolazione maggioritaria è accecata dalla propria bianchezza, dove la popolazione di origine straniera è relegata alla pessima legge sull’immigrazione, noi siamo tenuti ancora più lontani dalla Cittadinanza e si permette così che le discriminazioni si insinuino sempre più. Come ad esempio nel caso di Lodi del 2018, dove per una sindaca leghista è stato facilissimo negare il diritto degli alunni e alunne di origine straniera addirittura a mangiare accanto ai propri compagni e a sedere nello stesso bus scolastico».
Nel frattempo si cominciano a notare dei miglioramenti perché i figli dell’immigrazione sono cresciuti in età e numero ma anche nella consapevolezza della necessità di attivarsi in prima persona per il migliorare il paese.
«Credo fermamente che la rabbia, la determinazione, la fame di prendere la parola e di riappropriarci della nostra posizione, che nutriamo noi nuove generazioni, si stia finalmente manifestando nella sua essenza» ha scritto ancora EF Maïga.
Non è quindi un caso ma un dato di coerenza che in Italia, tra i primi a organizzare o partecipare alle iniziative di piazza a sostegno delle proteste degli Stati uniti, al grido di «Black lives matter!», siano state organizzazioni guidate, fondate o quantomeno partecipate da italiani di origine straniera. Che hanno subito parlato del razzismo che oggi lega il loro paese agli Stati uniti, come le ripetute aggressioni e addirittura gli omicidi di persone nere, ma allo stesso tempo hanno puntato il dito contro il sistema italiano di leggi discriminatorie, a cominciare da quella per l’accesso alla cittadinanza: una macchina legale che produce diseguaglianze tra le giovani generazioni.
Così domenica 7 giugno dal camion-palco di Milano è stata Selam Tesfai, attivista di origini eritree e tra le fondatrici del comitato «Abba vive», a ricordare con tutta la sua forza che «in Italia Black lives matter significa anche non rinviare più la Riforma della legge sulla cittadinanza» mentre a Roma l’emozionata stilista afroitaliana Stella Jean faceva lo stesso dal microfono di Piazza del popolo. Con loro migliaia di manifestanti, molti figli e figlie di immigrati orgogliosi delle proprie origini ma anche dell’essere italiani del presente, consapevoli che le loro vite devono contare. Sono anche ragazzi e ragazze che durante la fine della scorsa legislatura, tra il 2016 e il 2017, avevano seguito con emozione su tv e giornali la battaglia per la riforma della legge senza avere ancora il coraggio di scendere direttamente in piazza. E i giovani che non si sentono rappresentati da partiti o grandi sigle, nè da chi governa o da noti corpi intermedi, e che scelgono di partecipare a raduni convocati da realtà più vicine e su slogan in cui si riconoscono di più, personalizzati sui singoli cartelli che portano con sé. Così come gli ex adolescenti che anni prima erano stati trascinati alle manifestazioni dai genitori e che oggi sentono davvero che si tratta della loro lotta. E, ancora, ci sono gli ex alunni e alunne delle scuole interculturali che hanno già vissuto i vantaggi dell’Italia di oggi, «tutto il mondo in un solo paese», oppure quelli arrabbiati che hanno subito in prima persona il razzismo. Tra loro anche i neomaggiorenni di ieri che non si erano ancora resi conto dell’impatto reale delle discriminazioni sulle proprie vite e che oggi, per diventare italiani di diritto, dovranno superare i lunghissimi 4 anni di esame delle pratiche imposti dal primo decreto sicurezza.
Una nuova generazione vuole il diritto a respirare liberamente, senza continuare a chiederne il permesso e senza aver paura di diventare un bersaglio per il colore della pelle o per le proprie origini.
*Paula Baudet Vivanco, giornalista, è stata redattrice di Metropoli La Repubblica e Collabora con Idos (Dossier statistico immigrazione) e con la Fondazione Migrantes. È tra i fondatori dell’associazione Carta di Roma e del movimento #ItalianiSenzaCittadinanza. Jovana Kuzman, è laureanda in Scienze politiche all’università Roma Tre e collabora con Oxfam Italia nel progetto Amplify. Attivista del movimento #ItalianiSenzaCittadinanza è in attesa della Cittadinanza dal 2018.
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