I fallimenti di Gorbachev
Il leader russo rimarrà un personaggio tragico, travolto dagli eventi, ricordato con simpatia in Occidente e astio in patria. Ma la sinistra farebbe meglio a concentrarsi sui limiti e le contraddizioni di un sistema piuttosto che sulle debolezze dell’uomo
Mikhail Sergeevich Gorbachev, ultimo leader dell’Unione Sovietica, è morto Martedì scorso, poco più di un trentennio dopo la fine dell’Urss. Una fine, come abbiamo visto soprattutto in questi ultimi mesi, tutt’ora gravida di conseguenze per la Russia, per i suoi vicini e per il mondo intero. Vale quindi forse la pena di riflettere su quegli anni che, per citare il grande storico inglese Eric Hobsbawm, hanno segnato il termine del «secolo breve» e chiuso, almeno in Occidente, un ciclo ultracentenario di lotte e progressi sociali.
Non vi possono essere dubbi che dal punto di vista politico la parabola di Gorbachev fu un fallimento senza appello. Divenuto Segretario Generale del Pcus l’11 Marzo 1985, le riforme da lui intraprese portarono prima alla fine del Patto di Varsavia e del controllo sovietico sui paesi dell’Est e poi al dissolvimento della stessa Unione Sovietica il giorno di Natale del 1991 – il Partito era già stato sciolto e dichiarato fuori legge il 29 Agosto di quell’anno.
A metà anni Ottanta in pochi avrebbero scommesso sul crollo dell’Urss: il paese era largamente pacificato, le proteste politiche praticamente assenti e il dissenso marginale; dal punto di vista economico gli standard di vita, seppur non comparabili con quelli occidentali, venivano da due decenni di crescita. I trend macroeconomici segnalavano però una situazione tutt’altro che rosea: un’economia stagnante e un modello di crescita in crisi segnalavano criticità importanti per un paese con ambizioni egemoniche a livello globale. Si era passati da un rapido catch-up con gli Usa, tanto da far temere il sorpasso sovietico, a un forte rallentamento e a un allargarsi del gap con l’America. La crescita economica si era più che dimezzata nei due decenni precedenti la leadership di Gorbachev, mentre i costi di mantenimento dell’area di influenza erano ormai esorbitanti. I problemi di struttura dell’economia sovietica erano piuttosto chiari ai dirigenti del Partito che avevano a più riprese, e in particolare con Kosygin, provato a intervenire con riforme che rendessero più flessibile e snello il sistema centralizzato.
I tentativi di riforma erano però falliti, soprattutto a causa del sabotaggio della nomenklatura che era diventata il dominus dell’era brezhneviana e vedeva con sospetto qualsiasi tentativo di ridurne il potere di interdizione. Come nella critica di Djilas, la burocrazia sovietica si era trasformata in una «nuova classe» sui generis, che aveva il controllo, anche se non la proprietà dei mezzi di produzione, che usava per i propri scopi in potenziale attrito con gli interessi, appunto, della proprietà pubblica.
Questa introduzione è indispensabile per capire il senso, e il fallimento, delle riforme di Gorbachev. Che è spesso accusato, non senza ragione, di non aver capito a fondo le conseguenze delle sue azioni; ma che si trovava davanti a problemi molto ben radicati e di non facile soluzione. Andiamo con ordine.
La perestroika gorbacheviana iniziò in perfetto stile tecnocratico, dall’alto, come i precedenti tentativi di Kosygin e di Andropov. Prima timidamente: investimenti in beni capitali e un incremento della produttività del lavoro, mantenendo largamente intatto il modello di crescita estensivo su cui si basava l’economia sovietica. Poi, dal 1987, si fece più audace: l’introduzione di proprietà non pubbliche – soprattutto cooperative – e la responsabilizzazione delle imprese che venivano rese autonome all’interno di una cornice socialista: il Gosplan, il Comitato statale per la pianificazione, avrebbe stabilito i target di massima, ma le strategie di implementazione sarebbero state decentralizzate. Entrambi i tentativi si scontrarono, nuovamente, col muro di gomma della nomenklatura. La battaglia non era dunque solo economica, ma politica, e la glasnost fu quindi non tanto un ideale politico di democratizzazione quanto una scelta contingente per cambiare il patto politico brezhneviano, nell’impossibilità di scatenare purghe di massa come durante il periodo staliniano, e in scala minore sotto Kruschev. Gorbachev intendeva costruire una nuova legittimità per il suo progetto politico – e per l’autorità centrale di Mosca – appoggiandosi sull’opinione pubblica in opposizione all’apparato. Sottovalutando però alcune circostanze fondamentali. In primo luogo la crisi economica che seguì l’inizio delle riforme, e che era forse difficile da evitare data appunto la struttura poco flessibile del sistema sovietico, alienò immediatamente la popolazione; né fu particolarmente saggio il tentativo di proibizionismo verso l’uso smodato della vodka, che partiva da considerazioni più che condivisibili (basta leggere un qualsiasi romanzo di Dovlatov per capire la portata del problema), ma che causò un’immediata protesta spontanea. Soprattutto però non ci si era resi conto pienamente dei rapporti di forza e dei network informali esistenti all’interno della nomenklatura. La progressiva rimozione del partito, infrastruttura vitale non solo per il coordinamento dell’economia ma anche unico garante del controllo politico sulla nomenklatura locale, creò un vuoto di potere che fu riempito dallo stesso apparato che si voleva combattere.
In questa situazione di anarchia fu Boris Eltsin ad approfittare della situazione: non come promotore della rivolta democratica dal basso, come lo si descriveva in Occidente; ma come garante degli interessi della nomenklatura che cercava di trasformare il controllo dei mezzi di produzione in proprietà – cosa che infatti cominciò informalmente già negli ultimi anni dell’Urss per poi arrivare alla privatizzazione degli insider del 1993: l’origine dell’oligarchia post-sovietica e dell’anarchia che avrebbe caratterizzato la cosiddetta transizione finita poi, quasi inevitabilmente, nella reazione putiniana. Stretto tra i conservatori impauriti del cambiamento e il tradimento dell’apparato, Gorbachev rimase solo al comando di una barca a cui lui stesso aveva staccato il timone.
In molti hanno sottolineato come l’errore esiziale di Gorbachev fu la contemporaneità delle riforme politiche ed economiche, che generò solo un caos incontrollabile. Addirittura una fonte insospettabile come il Washington Post chiedeva in quegli anni, a gran voce, l’avvento di un Pinochet Sovietico. Questo mentre Deng Xiaoping portava i carri armati a Pechino e purgava il partito – cosa poi fatta a Mosca dal «democratico» Eltsin nel 1992. Con esiti però opposti: tanto una svolta democratica quanto il pugno di ferro hanno bisogno di una qualche forma di legittimità interna che nel caso di Gorbachev (e più tardi di Eltsin) era totalmente assente; mentre il regime cinese, forte di una crescita economica che liberava dal giogo della povertà decine di milioni di proletari, poteva evidentemente permettersi la repressione del dissenso.
Di conseguenza credo sia profondamente sbagliato imputare al solo Gorbachev la fine dell’Unione Sovietica e il marasma che ne seguì. Non vi sono dubbi che le riforme politiche aprirono una voragine, ma le cose andrebbero viste in un contesto più ampio. Se un partito complesso come il Pcus non seppe generare un dibattito politico e un’alternativa a Gorbachev; se le politiche economiche di quegli anni si ispirarono a concetti e policy occidentali – e non, come nel caso cinese a una riformulazione domestica che tenesse in considerazione le specificità del paese (come descritto nel bel libro di Isabella Weber); se pure le istituzioni che erano considerate le più efficienti come il Kgb e l’Armata Rossa si sciolsero come neve al sole durante il patetico tentativo di golpe nell’Agosto ’91; se, soprattutto, fu la nomenklatura comunista a tradire in massa; allora possiamo ben affermare, per dirla con Gramsci, «che il vecchio è morto».
Giocare coi counterfactual può essere esercizio divertente, ma in ultima analisi inutile. Dalla nostra esperienza quotidiana nella politica italiana sappiamo benissimo che istituzioni marce riescono comunque a riprodursi e a durare nel tempo anche quando il loro «compito storico» si è esaurito: ed è dunque più che possibile che l’Urss avrebbe potuto sopravvivere, non fosse stato per le riforme di Gorbachev. E forse questo avrebbe risparmiato le immani sofferenze patite dal popolo russo e in generale dalle nazioni post-sovietiche negli anni successivi; avrebbe forse anche potuto garantire un poco più di stabilità al sistema internazionale. Il crollo, però, fu talmente repentino che prese tutti di sorpresa: un collasso con pochi precedenti storici che finì non solo per determinare la scomparsa dell’Urss ma anche l’effettiva impossibilità di una transizione democratica. Dal vuoto di potere non emersero nuove forze sociali, né movimenti di opposizione che potessero prendere le redini del nuovo regime come invece avvenne nell’Est Europeo. In Urss non esisteva una vera alternativa politica – il Pcus era stato particolarmente efficace a uniformare il paese dietro la sua bandiera. E i gruppi di opposizione erano sparuti e senza alcuna coerenza politica – andavano dai nostalgici dello zar agli ultra-nazionalisti, ai liberali. Anche per questo la scommessa di Gorbachev di rilegittimare il suo potere con un sostegno di massa era, forse inevitabilmente, destinata a fallire. Privo del sostegno popolare, isolato nel suo partito Gorbachev godeva di un vasto prestigio internazionale – che non fu però sufficiente a mantenerlo al Cremlino. Anche perché dopo il golpe di Agosto l’Occidente gli voltò presto le spalle.
Gorbachev passerà alla storia come un personaggio tragico, travolto dagli eventi, ricordato con simpatia in Occidente e astio in patria. Ma la sinistra farebbe meglio a concentrarsi sui limiti e le contraddizioni di un sistema piuttosto che sulle debolezze dell’uomo. Così come la celebrazione di questi giorni dell’uomo che pose fine alla Guerra Fredda – un merito indiscutibile – non può nascondere il cumulo di macerie che lasciò dietro di sé.
*Nicola Melloni si occupa della relazione tra stato e mercato e tra cambiamenti economici e politici. Dopo un PhD a Oxford ha insegnato e fatto ricerca a Londra, Bologna e a Toronto. Scrive per Micromega e Il Mulino.
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