
I gilet gialli possono parlare?
La narrazione dei fatti francesi di questi giorni trasuda disprezzo di classe. I poveri un giorno sono autentici e bravi, il giorno dopo diventano razzisti e omofobi. Nei due casi, la volontà è la stessa: impedire che prendano parola
Sono giorni che provo a scrivere un testo su e per i gilet gialli, ma non ci riesco. Qualcosa mi paralizza dell’estrema violenza e del disprezzo di classe che si abbattono su questo movimento, perché, in un certo senso, me ne sento coinvolto personalmente.
Faccio fatica a descrivere lo choc di cui sono stato vittima quando ho visto le prime immagini dei gilet gialli. Sulle foto che accompagnavano gli articoli, vedevo corpi che non compaiono quasi mai nello spazio pubblico e mediatico, corpi sofferenti, distrutti dal lavoro, dalla fame, dalla permanente umiliazione che i dominanti infliggono ai dominati, dall’esclusione sociale e geografica, vedevo corpi affaticati, mani affaticate, schiene spezzate, sguardi esausti.
La ragione del mio turbamento consisteva certamente nel mio odio per la violenza della società e delle sue ineguaglianze, ma anche, e forse prima di tutto, nel fatto che quei corpi che vedevo in foto assomigliavano a quelli di mio padre, di mio fratello, di mia zia… Assomigliavano ai corpi della mia famiglia, degli abitanti del paese dove sono cresciuto, di quella gente dalla salute devastata dalla miseria e dalla povertà che, a giusto titolo, ripeteva, durante la mia infanzia: «Noi non contiamo nulla, nessuno parla di noi». Per questo mi sentivo oggetto del disprezzo e della violenza che la borghesia ha immediatamente scatenato contro questo movimento. Perché in me, per me, chiunque insultasse un gilet giallo, stava insultando mio padre.
Dal momento stesso in cui è nato, abbiamo visto nei media gli “esperti” e i “politici” sminuire, condannare, deridere il movimento dei gilet gialli e la rivolta che essi incarnano. Vedevo sfilare sui social network le parole «barbari», «idioti», «buzzurri», «irresponsabili». I media parlano del «grugnito» dei gilet gialli: le classi popolari non si rivoltano, nient’affatto, grugniscono come bestie. Sentivo parlare della «violenza del movimento» quando veniva bruciata una macchina, rotta una vetrina o deturpata una statua.
Fenomeno diffuso di percezione differenziale della violenza: gran parte del mondo politico-mediatico vorrebbe farci credere che essa non consista affatto nelle migliaia di vite distrutte e ridotte alla miseria dalla politica, ma in qualche macchina bruciata. Bisogna davvero non aver mai conosciuto la povertà per arrivare a pensare che un tag su un monumento storico sia più grave dell’impossibilità di curarsi, vivere, nutrirsi o nutrire la propria famiglia.
I gilet gialli parlano di fame, di precarietà, di vita e di morte. I “politici” e parte dei giornalisti rispondono: «I simboli della nostra République sono stati deturpati». Ma di che parlano? Come si permettono? Da dove vengono? I media parlano anche del razzismo e dell’omofobia dei gilet gialli. Ma chi pensano di prendere in giro? Non vorrei parlare dei miei libri, ma è interessante notare che ogni volta che ho pubblicato un romanzo, sono stato accusato di stigmatizzare la Francia povera e rurale proprio perché evocavo l’omofobia e il razzismo del paese della mia infanzia. Giornalisti che non avevano mai fatto niente per le classi popolari si indignavano e si mettevano improvvisamente a fare la parte dei difensori delle classi popolari.
Per le classi dominanti, quelle popolari rappresentano, per riprendere l’espressione di Pierre Bourdieu, la classe-oggetto per eccellenza. Nel senso di oggetto del discorso manipolabile a piacimento: i poveri, un giorno autentici e bravi, il giorno dopo razzisti e omofobi. Nei due casi, la volontà di fondo è la stessa: impedire l’emergere di una parola delle classi popolari sulle classi popolari. Chi se ne importa se dall’oggi al domani ci si contraddice: basta farli tacere.
Ci sono affermazioni e gesti certamente omofobi e razzisti in seno ai gilet gialli, ma da quando i media e i suddetti “politici” si preoccupano di razzismo e di omofobia? Da quando? Che cosa hanno fatto contro il razzismo? Utilizzano forse il potere di cui dispongono per parlare d’Adama Traoré e del comité Adama? Parlano forse delle violenze della polizia che si abbattono quotidianamente sui neri o sugli arabi in Francia? Non hanno dato invece una tribuna d’onore a Frigide Barjot e a un signor tal dei tali in occasione del mariage pour tous, e, facendo ciò, non hanno forse reso l’omofobia un fatto accettabile e normale nelle tribune televisive?
Quando le classi dominanti e i media parlano d’omofobia e di razzismo nel movimento dei gilet gialli, non parlano né di omofobia né di razzismo. Dicono: «Poveri, chiudete il becco!». D’altro canto, il movimento dei gilet gialli è ancora un movimento tutto da costruire, non possiede ancora un linguaggio definito: se l’omofobia e il razzismo esistono tra i gilet gialli, è nostra responsabilità trasformare il loro linguaggio.
Ci sono diverse maniere di dire: «Soffro». Un movimento sociale è precisamente quel momento in cui si apre la possibilità per coloro che soffrono di non dire più: «Soffro a causa dell’immigrazione e della vicina che beneficia degli aiuti statali», bensì: «Soffro, a causa di quelli e quelle che governano. Soffro a causa del sistema di classe, a causa di Emmanuel Macron ed Edouard Philippe». Un movimento sociale è un momento di sovversione del linguaggio, un momento in cui il vecchio linguaggio vacilla. È ciò che sta accadendo oggi: si assiste da qualche giorno al riformularsi del lessico dei gilet gialli. All’inizio si sentiva parlare solo di benzina e apparivano talvolta parole spiacevoli come gli “assistiti”. Oramai si parla di disuguaglianze, aumento dei salari, ingiustizie.
Questo movimento deve continuare perché incarna qualcosa di giusto, di urgente e di profondamente radicale, perché trovano finalmente visibilità e ascolto volti e voci abitualmente costretti all’invisibilità. Non sarà una battaglia facile. Lo si vede chiaramente: i gilet gialli rappresentano una sorta di Rorschach per una bella fetta di borghesia, la obbliga a manifestare quel disprezzo di classe e quella violenza che solitamente esprime in maniera solo indiretta, quel disprezzo che ha distrutto talmente tante vite intorno a me e che continua a distruggerne, quel disprezzo che riduce sempre più al silenzio e che mi paralizza al punto da non riuscir a scrivere o a esprimere ciò che vorrei.
Ma dobbiamo vincere: siamo in tante e tanti a dirci che un’ulteriore sconfitta sarebbe insopportabile per la sinistra, e dunque per tutte quelle e tutti quelli che soffrono.
*Edouard Louis è un romanziere e saggista francese. È autore de Il caso Eddy Bellegueule (2014) e di Storia della violenza (2016). Il testo è stato tradotto da Antonio Montefusco e Raffaella Zanni. Qui l’articolo originale pubblicato su Les inrockuptibles.Qui la traduzione in inglese dell’articolo su Jacobinmag.com.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.