
I globalisti
Una storia del neoliberalismo letta dal punto di vista della capacità di un gruppo di intellettuali di occupare gli interstizi tra scienza e politica per rispondere alla crisi del liberismo ottocentesco
Uscito nel 2018, Globalists di Quinn Slobodian è uno dei contributi più interessanti alla storia intellettuale del neoliberalismo. Come molti suoi precursori in questo campo di studi in espansione (Daniel Stedman Jones, Philip Mirowski e Dieter Plehwe, o, in Francia, Francois Denord), Slobodian vede il neoliberalismo innanzitutto come una serie di idee pensate per far fronte, negli anni Venti, alla crisi del liberoscambismo ottocentesco. Storia delle idee dunque, ma in egual misura storia di intellettuali, delle loro reti, e della loro capacità di occupare fondamentali nodi di scambio tra scienza e politica. Da un lato, dunque, analisi storica di idee economiche e giuridiche, dall’altro ricostruzione di reti ed enfasi sul rapporto tra intellettuali e istituzioni.
Da questo punto di vista, Slobodian è in linea con la storiografia precedente, come lo è nel sostenere che le origini del movimento siano in Europa, tra le due guerre mondiali. Un’altra tesi centrale del libro – che il neoliberalismo non vada pensato come un’istanza contro lo stato, ma come un progetto di utilizzo dello stato – era già stata proposta in studi precedenti. Slobodian, tuttavia, ne fornisce una versione particolarmente convincente, oltre che empiricamente ben supportata grazie alla scelta di concentrarsi sulla produzione del diritto commerciale internazionale. In contrasto con l’immagine dominante del movimento, infatti, i «globalisti» di Slobodian credono nel potere della forza pubblica. Si propongono, solamente, di utilizzarlo per proteggere ció che nel libro viene definito un «oggetto sublime»: l’economia globale. Il termine in apparenza descrittivo non tragga in inganno. L’«economia globale» è un ordine economico ben definito, in cui i diritti del capitale sono protetti dalla forza della legge. A differenza degli allievi di Milton Friedman in Cile, peró, i neoliberali europei sono animati da una sfiducia irriducibile nei confronti dello stato nazionale, sfiducia che li porta ad abbandonare quel terreno di azione e a puntare quasi esclusivamente sulla scala globale per la realizzazione del loro progetto.
Imperi, nazioni, democrazie
L’esperienza storica fondativa della visione neoliberale è, secondo l’autore, la dissoluzione dei grandi imperi transnazionali in Europa centro-orientale e la loro sostituzione con nuovi stati nazionali. Il contesto generato dal crollo simultaneo di Ottomani, Asburgo, e Russi era visto dai primi neoliberali come pericolosamente propizio al «nazionalismo economico», alla tentazione, cioè, di un certo grado di autonomia nazionale dal mercato globale. Le vaste zone di libero scambio ospitate da imperi ormai defunti divennero immediatamente oggetto di nostalgia e ideale a cui ambire. Il pericolo, invece, era rappresentato da nazionalizzazioni, protezionismo, e altre violazioni del diritto del capitale a circolare. «Critici irriducibili della sovranità nazionale», i globalisti di Slobodian credevano che «dopo l’impero, le nazioni dovessero rimanere inserite in un ordine istituzionale internazionale a protezione del capitale e del suo diritto di muoversi nel mondo».
Centrale nell’analisi di Slobodian è, come è facile immaginare, la questione della democrazia, sistema politico verso il quale i suoi neoliberali hanno un’attitudine ambigua. Pur a grandi linee favorevoli al principio elettorale, non credono nella sua assolutezza. Testimoni delle implosioni democratiche in Italia negli anni Venti e in Germania negli anni Trenta, i globalisti sostengono una democrazia con dei limiti necessari a salvarla da sé stessa. Da un lato, dunque, la democrazia viene vista positivamente, come un regime capace di evolversi pacificamente, stabile, e tendenzialmente favorevole al libero scambio. D’altro canto un regime democratico implica una certa permeabilità del potere politico alle sollecitazioni dal basso, cosa problematica soprattutto in campo economico.
L’inizio della traiettoria di Mises è, a questo proposito, istruttiva. Dottore di ricerca in legge dell’Università di Vienna, Mises negli anni Venti prese parte agli sforzi antisindacali portati avanti dalla Camera di Commercio, con la quale collaborava da tempo. Più che sulla tattica impiegata – l’uso di una legge anti-terrorismo per rendere illegali le organizzazioni sindacali – è interessante concentrarsi sulla giustificazione presentata: il tentativo di eradicare i sindacati viene difeso, infatti, in quanto tendente a una più ampia «depoliticizzazione dell’economico».
Un regime democratico, in altre parole, è, secondo i neoliberali della «Scuola di Ginevra», costantemente vulnerabile rispetto a «interessi particolari», specialmente pericolosi se organizzati politicamente e decisi a usare la forza pubblica per redistribuire la ricchezza alla propria base. Questa tendenza delle organizzazioni della società civile verso la «cattura dello stato», tipica delle democrazie, distorce il mercato interno tramite politiche redistributive e corporativiste. Se poi si produce in uno stato nazionale, impatta i diritti del capitale anche a livello internazionale, tramite politiche protezioniste. La soluzione a queste distorsioni del mercato risiede in un costituzionalismo economico, un sistema giuridico capace di proteggere i diritti del capitale dalle aggressioni interne tipiche dei regimi democratici e da quelle internazionali, tipiche degli stati nazionali. Così come una costituzione mette le basi dello stato al riparo dalle maggioranze del momento, una costituzione economica mette al riparo i fondamenti di politica economica sia dalle organizzazioni sociali che in un regime democratico tendono alla cattura del potere pubblico sia dal protezionismo tipico del «nazionalismo economico». Una costituzione economica pensata su scala globale, per mettere questo «ordine istituzionale internazionale» oltre la portata dello stato-nazione democratico.
Slobodian richiama una distinzione di Carl Schmitt tra imperium – il mondo del potere politico, diviso in unità discrete e relativamente autonome – e dominium – il mondo dell’economia, interconnesso e operante attraverso i confini politici. Se per Schmitt l’autonomia dell’economico rispetto al politico era da censurare, il progetto dei neoliberali europei fu invece trovare un modo di proteggere il dominium, il «mondo della proprietà», dalle intrusioni dell’imperium. Ci si potrebbe chiedere che fine abbia fatto l’idea del laissez faire e del mercato che si auto-regola. Slobodian risponderebbe che è assente, e che il tratto distintivo del neoliberalismo ginevrino è la convinzione che il mercato non possa sopravvivere senza un qualche tipo di protezione.
Testimoni della crisi del ’29 e contemporanei di Polanyi, Mises e Hayek riflettevano, come lui, sulle interazioni tra società e mercati, ed erano alla ricerca di un equilibrio tra i due capace di salvaguardare l’economia capitalista. Dunque, non stato contro mercato, ma stato a servizio del mercato: «la vera enfasi delle proposte neoliberali non è sul mercato in sé, ma sul ridisegnare stati, leggi, ed altre istituzioni per proteggere il mercato».
Il ventesimo secolo del neoliberalismo Europeo è una battaglia tra l’economia globale e le sue distorsioni sia corporativiste-democratiche che protezioniste-nazionaliste. É scandito, come nota Slobodian, da eventi diversi rispetto a quelli delle cronologie tradizionali del periodo. La Seconda Guerra Mondiale e la Guerra Fredda, ad esempio, hanno un ruolo molto marginale, mentre i due momenti post-imperiali (negli anni Venti, in Europa centro-orientale, e nel secondo dopoguerra, globalmente, con la fine degli imperi coloniali europei) sono decisivi nella battaglia tra «nazionalismo economico» e neoliberalismo. In entrambi i casi, troviamo i neoliberali preoccupati dall’effetto distorsivo delle politiche dei nuovi stati sull’economia globale. Nel periodo tra le due guerre li vediamo impegnati oltre che nella battaglia anti-sindacale, anche in quella anti-protezionista, scagliandosi contro dazi, tariffe doganali, e altri ostacoli nazionali al commercio. L’Europa di stati nazione che era uscita dalla Grande Guerra era un’Europa di «muri» che violavano la libertà di commercio e che andavano, naturalmente, abbattuti.
Troviamo dinamiche simili anche negli anni Settanta. Obiettivo polemico dei neoliberali nel decennio che segue la grande ondata di decolonizzazione è il New International Economic Order (Nieo), un ambizioso piano di riforma della governance globale supportato sia da paesi emergenti del G-77 che da economisti occidentali quali Jan Tinbergen e Wassily Leontief, tentati dall’idea di «pianificazione Keynesiana a livello mondiale». Il Nieo costituiva un attacco diretto alla visione neoliberale, con richieste di «giustizia distributiva, riparazioni coloniali, sovranità nazionale permanente sulle risorse naturali… aumento degli aiuti internazionali e regolamentazione delle corporazioni transnazionali».
La battaglia, condotta e vinta principalmente all’interno del Gatt (General Agreement on Tariffs and Trade) da una seconda generazione di neoliberali (Jan Tumlir, Frieder Roessler, e Jan-Ulrich Petersmann), fotografa il neoliberalismo europeo nel suo momento di maggiore maturità storica. Da un lato, infatti, sono evidenti le continuità ideologiche con la prima generazione: basti pensare alla definizione data del G-77 da Petersmann come un gruppo «organizzato come dei sindacati» capace di trasformare «l’idea nazionale dello stato sociale in un mondo internazionalizzato del welfare». Dall’altro, è da sottolineare come lo scontro si sia spostato su scala globale e come i riferimenti al piano nazionale siano ormai buoni solo come metafore. Non si tratta solamente della realizzazione della vecchia ambizione di un sistema internazionale capace di tenere a bada le tentazioni autarchiche dei nuovi stati, ma soprattutto di aver trovato il terreno più consono per lo scontro giuridico-istituzionale: il diritto commerciale internazionale. L’emergere di una governance globale capillare, incanalata in varie istituzioni, altamente giuridicizzata, costituisce infatti un habitat nel quale l’expertise di economisti e, soprattutto, giuristi puó avere la massima forza d’impatto.
Alcuni degli individui coinvolti nella battaglia contro il Nieo saranno protagonisti nell’Uruguay Round a fine anni Ottanta e finiranno con l’avere un loro ruolo nella fondazione del Wto nel 1995, considerato come uno dei massimi successi del movimento.
La legislazione del sublime
A livello storico-teorico, uno degli aspetti più interessanti del libro di Slobodian è la rassegna delle varie concettualizzazioni dell’economia globale prodotte dai teorici del movimento nel mezzo secolo che separa la Vienna degli anni Venti dalla Ginevra degli anni Ottanta. Vi sono, ovviamente, importanti continuità, dall’insistenza sull’interconnessione degli attori economici oltre le frontiere alla costante ostilità nei confronti di «distorsioni politiche», al sistema dei prezzi. Tuttavia, sarebbe sbagliato ignorare una trasformazione importante, che separa i neoliberali europei dai loro corrispettivi americani, e che spiega, in parte, la strategia istituzionale, e in particolare la svolta legale, del movimento: l’abbandono di un’idea dell’economia come oggetto quantificabile e, almeno parzialmente, conoscibile da parte dell’economista in favore di una visione dell’economia globale come sistema auto-regolante e per questo necessariamente inconoscibile. Un oggetto definito da Slobodian come «sublime».
L’origine accademica di Hayek e Mises è nella ricerca sul business cycle, nello studio di dati economici nel tentativo di prevedere l’andamento del mercato globale. Questa ricerca – conseguenza dall’economia di guerra, le cui necessità di pianificazione richiesero la produzione di una grande quantità di rilevazioni statistiche della vita economica – era sin dall’inizio pensata con un fine pratico, quello di orientare sia investitori privati che governi. Oltre alla raccolta ed elaborazione di dati, infatti, buona parte dell’attività di questi ricercatori consisteva nella creazione di rappresentazioni grafiche, immediate, intuitive dello sviluppo dell’economia globale: mappe dell’Europa divisa da muri corrispondenti alle barriere doganali, spirali che rappresentavano la contrazione del commercio globale dopo la crisi del ’29, barometri capaci di predire futuri andamenti economici. Lo spazio di circolazione di questi oggetti scientifici erano sia circoli governativi e industriali che, a volte, il grande pubblico.
Più che sull’aspetto di lobbying, è interessante soffermarsi sull’epistemologia implicita in questa strategia. Si tratta infatti di una strategia che sottintende un rapporto preciso tra potere e intellettuali, basato sulla conoscenza, razionale ma esoterica, che uno scienziato ha del proprio oggetto di studi. Sottintende, insomma, una visione del mondo economico come conoscibile, quantificabile, rappresentabile e, conseguentemente, plasmabile dall’azione umana, tramite la mediazione essenziale dello scienziato. Come ci si affida a un medico per questioni di salute, insomma, governi e investitori erano invitati ad affidarsi agli economisti per orientarsi nel mercato.
Questa visione dell’economia globale come conoscibile e manipolabile viene però gradualmente abbandonata da Hayek a favore della visione accennata prima, e cioè quella di un’economia globale «sublime», necessariamente inconoscibile. Influenzato dalla cibernetica e dalle teorizzazioni di sistemi auto-regolanti che venivano sviluppate in quella disciplina, Hayek propose la visione di un sistema alla continua ricerca di equilibrio, in cui i prezzi vanno interpretati come segnali che trasmettono pezzi di informazione ai vari attori, che invece ne costituiscono i nodi interconnessi. L’interazione tra prezzi e attori costituisce il feedback mechanism, con il quale è proibito interferire, pena la dissoluzione dell’economia globale in blocchi semi-autonomi e, per così dire, sub-ottimali. In un sistema del genere l’informazione è strutturalmente diffusa, e dunque incompleta: per evitare interferenze con il feedback mechanism, insomma, è necessario che i singoli attori abbiano solo una visione parziale dell’economia globale. Accentrare le informazioni non solo è impossibile, ma comporterebbe anche una distorsione del funzionamento sistemico. Sono dunque fuori portata sia la pianificazione economica che, più intrigantemente, la conoscenza dell’economia globale.
É chiaro che si tratta di una naturalizzazione mistica dei meccanismi dell’economia capitalista, visti non come risultanti da decisioni umane, ma in termini di una razionalità di sistema che trascende la razionalità degli attori che in esso operano. Le metafore usate da Hayek vanno in questa direzione, come quando parla di strade di campagna che si formano spontaneamente, un’ordine che «pur risultante dalle scelte di molta gente, non è stato coscientemente pianificato da nessuno». É necessario sottolineare alcune profonde differenze con altre correnti del neoliberalismo, a partire dalla sfiducia nella capacità della scienza economica di conoscere e quantificare l’economia globale: «Hayek derideva l’uso della matematica in macroeconomia per ‘impressionare i politici… ciò di più vicino alla pratica della magia tra economisti professionisti’». La stessa tendenza all’individualismo, generalmente vista come punto cardine di ogni pensiero neoliberale, in realtà si sposava male con la visione strutturalista di Hayek. Secondo Slobodian, è più corretto vedere Hayek «come proponente dell’idea di homo regularis [più] che di homo economicus: il primo comandamento non è massimizzare il profitto, ma reagire agli stimoli secondo regole in modo da massimizzare le possibilità di sopravvivenza». Regole che, come le strade di campagna, emergono evolutivamente dalle interazioni tra prezzi e attori, segnali e nodi del sistema.
Una contraddizione sostanziale balza all’occhio. Da un lato, l’economia globale è un oggetto «sublime», ma dall’altro il progetto di Hayek e discepoli è la sua protezione tramite un framework giuridico. L’economia è un sistema inconoscibile e auto-regolante e, contemporaneamente, oggetto di intervento legislativo per proteggere il meccanismo di auto-regolamentazione. Un oggetto sublime e inconoscibile che puó, tuttavia, essere normato e regolato. Come dice Slobodian, «non conoscere la totalità pur conoscendo le regole necessarie al suo mantenimento è l’essenza del neoliberalismo della Scuola di Ginevra». In altre parole, non bisogna associare alla visione di Hayek un fatalismo nel quale il mercato si regola da solo, ma il contrario, un set di regole necessarie alla sua protezione e un’azione politica tesa a imporre queste misure legali. Il modo in cui questa alterità totale, simile a un Dio protestante, possa generare un ordine normativo non viene spiegato in grande dettaglio. L’illustrazione più chiara è ancora una volta una metafora, quella dei granelli di polvere di ferro che si dispongono secondo le linee di un campo magnetico: un risultato impossibile da ottenere intervenendo sui singoli granelli ma possibile grazie all’uso di una calamita, e cioè un intervento (legislativo) generico capace di indirizzare il sistema verso il proprio equilibrio.
Le ragioni di questa svolta sono varie. Da un lato, vi sono precise influenze intellettuali provenienti dalla cibernetica e dalla biologia – Slobodian cita Ludwig von Bertalanffy e la sua teoria dei sistemi. Dall’alto peró vi è anche la cooptazione del mainstream della professione economica in direzione keynesiana, e dunque la necessità da parte dei neoliberali di avere un’argomentazione forte contro l’idea di pianificazione. Necessità alla quale sacrificano la conoscibilità del mondo economico, spostando la battaglia dal piano economico a quello giuridico, più politicamente fertile.
Gli esperti che non andavano in Tv
Una delle lezioni più interessanti riguarda le modalità di azione politica di gruppi di intellettuali. Leggendo le oltre 300 pagine del libro di Slobodian, è difficile non provare una certa ammirazione per l’efficacia di quelli che sono stati, in fin dei conti, piccolissimi agglomerati umani, sprovvisti di forza numerica per quanto ben inseriti nei nodi importanti. Per quattro decenni, i «globalisti» hanno operato in varie istituzioni perseguendo una visione sufficientemente coerente pur al netto di qualche importante cambio di direzione. Slobodian chiarisce che non si tratta di un trionfo storico, ma di una serie di vittorie e di sconfitte per il movimento, e ha ragione. Inoltre, è pur sempre azione politica generalmente supportata dal capitale internazionale, quindi capace di attingere a risorse e reti di supporto importanti. Tuttavia, alcuni dei risultati raggiunti sono innegabili, soprattutto nel campo del diritto commerciale internazionale e nell’Unione europea (pur nutrendo qualche dubbio sull’Unione, vista inizialmente come blocco protezionistico, alcuni neoliberali lavorarono nelle istituzioni europee, contribuendo a plasmarle).
Il segreto di questa efficacia, come anticipato, sta nella capacità d’inserimento e di azione in nodi cruciali tra scienza e potere, spazi sociali nei quali un buon mix di expertise e ideologia può portare a importanti risultati concreti. Esempio principe è il campo giuridico, meglio se sovranazionale, nel quale l’esperto puó contribuire alla stesura di testi che avranno la forza della legge a loro supporto. Di che intellettuali stiamo parlando? Tendenzialmente di uomini di classe medio-alta, altamente istruiti, in possesso di capacità che garantiscono loro accesso a reti di potere e permettono di muoversi tra accademia, istituzioni internazionali, e progetti su commissione. Occorre peró riflettere sul tipo di pubblico a cui sono abituati. Se è banalmente vero che i loro sforzi si rivolgono a qualcuno, e dunque hanno tecnicamente un pubblico, non bisogna dimenticare che non hanno di fronte il grande pubblico. Si tratta, per così dire, di intellettuali privati, abituati a lavorare dietro le quinte, in istituzioni all’interno delle quali si relazionano con un numero limitato di persone, e la cui capacità di intervento è principalmente sul piano tecnico. Al netto di qualche eccezione, non si tratta di intellettuali pubblici, ma di semi-oscuri professori, avvocati, e lobbyisti.
Come acutamente osserva Slobodian, il momento di maggior trionfo del movimento segna l’inizio di un cambiamento importante. Nel 1995 viene istituito il Wto, ma solo quattro anni dopo succede una cosa nuova: l’istituzione, e l’ideologia che la anima, vengono contestate, prima nelle piazze di Seattle e, due anni dopo, a Genova. Slobodian, nato nel 1978, fa parte della generazione che scese in piazza, e descrive gli eventi di Seattle come «il momento in cui collettivamente iniziammo a capire ció che stava succedendo e a reclamare la story line». Oltre alla dimensione autobiografica, l’evento è importante perché, rendendo visibile il neoliberalismo Ginevrino, lo rende contestabile, trascinandolo così definitivamente nell’arena democratica. Questo ingresso in politica, peró, cambia radicalmente le regole di ingaggio. Il puro lavoro di pressione istituzionale non è, infatti, sufficiente in democrazia, dove occorre anche perseguire il consenso. E dunque, pur mantenendo una buona dose di esperti «dietro le quinte», occorre dotarsi di nuove figure, cioè di intellettuali pubblici, disposti a sporcarsi le mani nel dibattito per portare avanti l’ideologia e il movimento. Occorrono, insomma, esperti che vadano in Tv.
Una storia scritta dal presente
Una potenziale critica del libro è che costituisce un esempio di storia scritta dal presente, radicata in temi di attualità e da essi influenzata. In parte, la critica è fondata. Non si puó, ad esempio, evitare di notare una strana somiglianza tra la visione dei «globalisti» e quella di alcuni critici contemporanei della globalizzazione: per entrambi, l’unico spazio per la democrazia è lo stato nazione, mentre l’internazionalismo è esclusiva del capitale. Il punto non è se l’autore rivendichi o meno questa visione ma se essa influenzi la scelta degli aspetti da sottolineare nell’analisi dei globalisti. A volte, l’impressione che essa aleggi nel testo e che operi dietro le quinte è reale. Tuttavia, va anche sottolineato come Slobodian eviti accuratamente ogni eccesso teleologico, chiarendo che non si tratta della storia di un trionfo e che il neoliberalismo è di fronte a sfide difficili.
Si tratta, insomma, di un contributo interessante, pieno di spunti su cui riflettere e a cui vale la pena dedicare una o più letture, non solo per capire alcuni aspetti centrali del movimento neoliberale, ma anche per una serie di riflessioni più generali sul rapporto tra intellettuali e politica.
*Tommaso Giordani è uno storico delle idee. Si occupa principalmente del pensiero politico europeo nella prima metà del Novecento.
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