I ricchi non sono mai stati così ricchi
Rob Larson nel suo ultimo libro offre un’analisi dettagliata sulle diseguaglianze nel mondo: l’1% del pianeta possiede il 40% dell’intera ricchezza globale. Con una ricaduta disastrosa sull’ambiente e nuovi compiti per il movimento sindacale
Grazie anche a movimenti come Occupy e alle campagne presidenziali di Bernie Sanders, non è un segreto che gli Stati uniti e il mondo intero siano attraversati da forti diseguaglianze in termini di ricchezza e reddito. Ma molte persone potrebbero non essere consapevoli di quanto sia peggiorata la disuguaglianza, sia negli Usa che a livello globale, o di cosa potrebbe significare per il futuro dell’umanità.
Nel suo nuovo libro, Mastering the Universe: The Obscene Wealth of the Ruling Class, What They Do with Their Money, and Why You Should Hate Them Even More, l’economista e collaboratore di Jacobin Rob Larson fornisce una panoramica aggiornata sulla portata e sull’entità del crescente divario tra i ricchi e tutti gli altri. Sara Wexler lo ha recentemente incontrato per discutere degli uber rich, dei loro stili di vita grottescamente sfarzosi e delle minacce pericolose che l’estrema disuguaglianza pone alla libertà umana, a un pianeta vivibile e altro ancora.
Molte persone che considerano la disuguaglianza economica un problema potrebbero ancora non comprendere l’estrema entità delle disparità di cui lei parla in Mastering the Universe. Può fornirci alcune statistiche sulla ricchezza e sulla disuguaglianza di reddito che ritiene particolarmente scioccanti o sorprendenti?
Molte persone sono vagamente consapevoli che i ricchi hanno troppi soldi, ma forse non si rendono conto dell’enorme portata del problema. Il World Inequality Database (Wid), un consorzio di economisti sul cui lavoro mi baso nel libro, ha delle stime sull’attuale concentrazione di ricchezza nel mondo che sono davvero da capogiro. Negli Stati uniti, nel 2021, l’1% più ricco delle famiglie possedeva il 34,9% della ricchezza nazionale; a livello mondiale, l’1% possiede il 40,5% di tutta la ricchezza. Paese dopo paese, la prima famiglia su cento possiede circa un terzo di tutto ciò che c’è da possedere. In modo ancora più consistente, il 50 percento inferiore possiede tra il 3 e il -3% circa della ricchezza nazionale – in altre parole, «niente», per usare un concetto economico sofisticato.
Più sorprendente, forse, è che lo stesso 1% più ricco si è aggiudicato il 27% della crescita della ricchezza pro-capite mondiale dal 1980 al 2017. Si tratta di un dato importante, dal momento che sia i liberali che i conservatori sostengono che il modo migliore per affrontare la povertà o la disuguaglianza sia quello di far crescere l’economia, ma si scopre che negli ultimi decenni la classe dirigente si è ritrovata con una quota ancora più sbilanciata.
Infine, una delle cose più importanti su cui cerco di attirare l’attenzione nel libro è la connessione tra l’1% e l’economia delle imprese. Tendiamo a dire che le aziende non sono responsabili, ed è vero che non lo sono nei nostri confronti: non abbiamo licenziamenti di massa nel settore manifatturiero, fusioni bancarie e piattaforme tecnologiche che vendono i nostri dati perché queste cose sono popolari tra il pubblico. Ma le aziende devono rendere conto ai loro proprietari – i principali azionisti, che detengono quote di proprietà dei grandi imperi aziendali globali. Una ricerca di Edward Wolff ha rilevato che nel 2016 l’1% possedeva il 40% di tutte le azioni societarie e il 10% possedeva l’84%. I grandi profitti aziendali di oggi si riversano nelle tasche dei già ricchi, attraverso i tradizionali dividendi o i riacquisti di azioni.
Lei collega la discussione sulla disuguaglianza con la questione della libertà. I difensori del capitalismo sostengono che il capitalismo ci dà la libertà; con l’avvento del «libero mercato» e del capitalismo dei consumi, possiamo scegliere tra una vasta gamma di opportunità di lavoro, di beni e servizi.
I filosofi hanno storicamente sviluppato due ampie concezioni della libertà. La libertà negativa si riferisce al non essere soggetti all’interferenza forzata di altre persone o istituzioni, una «libertà da» coercizione esterna. La libertà positiva, invece, si riferisce alla capacità di consumare determinati beni o compiere determinate azioni, una «libertà di» fare le cose.
Spesso, liberali e conservatori affermano che il capitalismo offre una libertà negativa, poiché il governo non può dire cosa consumare o quale carriera intraprendere. I conservatori aggiungono spesso che la libertà positiva non è auspicabile, poiché tale libertà potrebbe comportare diritti indesiderati come la mensa scolastica o l’assicurazione sanitaria pubblica. Quindi, la linea generale è che il capitalismo fornisce una libertà negativa, ma non necessariamente positiva.
I socialisti spesso sostengono, tuttavia, che il capitalismo di fatto non fornisce nessuna delle due forme di libertà. Se la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici nel capitalismo contemporaneo ha più libertà di carriera, ad esempio, di quanta ne avrebbe nel feudalesimo o in uno Stato totalitario, siamo tutti soggetti all’enorme potere della piccola élite di ricchi che sono i principali azionisti delle gigantesche aziende globali di oggi. Quando il vostro capo vuole analizzare le vostre urine per assicurarsi che non vi stiate divertendo troppo durante le vostre ferie, o vi dice che dovete trasferirvi in Texas per mantenere il vostro posto di lavoro, o semplicemente chiude l’intero stabilimento e trasferisce la produzione all’estero, siete sicuramente soggetti all’interferenza coercitiva dei manager e degli investitori capitalisti, che possono mettervi nella condizione di affannarvi per trovare un nuovo lavoro mentre le bollette si accumulano.
Una parte del suo libro è dedicata agli stili di vita molto sfarzosi (per usare un eufemismo) degli ultraricchi. Forse può raccontare qualche aneddoto.
Scrivendo un libro come questo si scopre che c’è quasi troppo da scegliere. Per esempio, ci sono uomini stupefacentemente ricchi che comprano amati capolavori d’arte e li trattano come tappeti da buttare. Una persona ha fatto tagliare una costosa stampa modernista giapponese per adattarla al suo spazio; il re dei casinò Steve Wynn ha dato un’infame gomitata a Le Rêve di Pablo Picasso mentre lo mostrava agli ospiti.
Spesso queste famiglie acquistano questi capolavori come puro investimento, il che significa che scompaiono dalla vista del pubblico e finiscono in depositi gratuiti e climatizzati, senza che il pubblico possa goderne. Il Garçon a la pipe di Picasso è stato acquistato all’asta di Sotheby’s nel 2004 per 104 milioni di dollari ed è scomparso dalla vista del pubblico. I mercanti d’arte hanno dichiarato alla stampa di aver pensato che il dipinto fosse in un porto franco da qualche parte.
Una donna molto ricca degli Hamptons amava stupire i suoi ospiti cambiando regolarmente i fiori del suo gigantesco giardino. Ma si sentiva offesa dalla vista dei suoi giardinieri che lavoravano, e così ordinò che completassero il loro lavoro durante la notte alla luce delle lanterne. Mark Zuckerberg ha acquistato quattro case che confinavano con la sua abitazione di Crescent Park, solo per poterle abbattere e sostituirle con fogliame e altri ostacoli alla visuale. Considerando la storia della sua azienda che accumula dati degli utenti per venderli, il Wall Street Journal l’ha definita «un po’ ironica».
Il giornalista finanziario Robert Frank si è occupato di un’accademia per maggiordomi d’élite, dove si impara che le famiglie ricche vogliono che i loro bicchieri di vino a cena siano sempre riempiti a metà, ma che lo shampoo e il dentifricio siano sempre rabboccati, e che vogliono che i cassetti, i vestiti e gli oggetti personali siano disposti allo stesso modo in tutte le loro case:
Soprattutto… gli studenti imparano a non giudicare mai i loro datori di lavoro, che chiamano «principale». . . Se uno di loro si trova a Palm Beach e vuole mandare il suo jet a New York per prendere uno Chateau LeTour dalla sua cantina di South Hampton, il maggiordomo lo farà, senza fare domande.
Lei sostiene che la disuguaglianza di ricchezza prodotta dal capitalismo separa le classi in spazi fisici distinti. Lei chiama questo fenomeno «segregazione di classe». Che cos’è la segregazione di classe e quali sono i suoi effetti?
Chiunque cerchi di affittare o comprare una casa oggi ha familiarità con l’essere «tagliato fuori» da diversi luoghi e mercati. Con l’enorme ampiezza dei prezzi degli alloggi, si crea un semplice smistamento del mercato, che si traduce in segregazione di classe: le famiglie della working class si stupiscono spesso quando vedono un quartiere o una casa molto ricche, e allo stesso modo le persone benestanti sono note per essere colpite dalle condizioni delle aree povere.
A volte questa segregazione di classe può essere vista a occhio nudo, come quando i prezzi delle case e le condizioni cambiano radicalmente a seconda delle barriere fisiche come le autostrade o sul fatto di trovarsi letteralmente dal lato sbagliato di una ferrovia. Ma al di là delle divisioni all’interno della working class, i quartieri dei veri ricchi sono segregati dietro mura e posti di guardia di comunità recintate o da torri di lusso dei grattacieli, che tengono i loro abitanti lontani dalla vita di tutti gli altri.
A volte è alla luce del sole, come quando giurisdizioni liberali come New York e Londra hanno insistito affinché le immobiliari includessero nei nuovi edifici delle abitazioni a basso reddito, oltre a quelle a prezzo di mercato per i più abbienti. I costruttori hanno poi creato ingressi separati per gli edifici: uno grandioso con servizio di portineria per gli inquilini ricchi e uno utilitaristico, sorvegliato da telecamere, per le unità a basso costo – le cosiddette «porte povere». Un agente immobiliare ha confessato apertamente che lo scopo di avere ingressi separati è «per non fare incontrare i due strati sociali».
Lei sostiene che negli Stati uniti stiamo assistendo alla rinascita di un movimento sindacale a lungo sopito, necessario per affrontare l’estrema disuguaglianza. Ma lei parla anche del successo di aziende come Amazon, Apple e Starbucks nel reprimere i recenti sforzi di sindacalizzazione. I lavoratori possono ancora conquistare i sindacati quando le corporation sono probabilmente più potenti che mai?
Ci sono importanti fattori esterni e interni al movimento sindacale da considerare. La pandemia di Covid-19, ad esempio, ha avuto un effetto storico simile a quello di pestilenze del passato, riducendo le dimensioni della forza lavoro, poiché le persone hanno abbandonato il lavoro per paura della malattia o per assistere i propri cari malati, oppure si sono ammalate per mesi o sono morte. L’epidemia, durata anni, ha irrigidito il mercato del lavoro e aumentato il potere contrattuale dei lavoratori, in quanto i datori di lavoro si sono trovati di fronte a un clima difficile per le assunzioni e sono stati costretti a concedere aumenti reali e a migliorare i benefit.
Un altro fattore esterno è la crescente simpatia dell’opinione pubblica per i sindacati, nonché una visione relativamente benevola dell’amministrazione Biden nei confronti del lavoro organizzato e le nomine più favorevoli del National Labor Relations Board. Inoltre, all’interno del movimento, i lavoratori più giovani sono spesso più aperti alle organizzazioni. Forse ha a che fare con il fatto di essere cresciuti nell’era dei miliardari e delle grandi aziende.
Tutti gli strumenti classici dei datori di lavoro sono ancora in circolazione e vengono utilizzati con continui perfezionamenti. Tuttavia, abbiamo assistito a recenti vittorie sindacali, come la vittoria del sindacato Amazon JFK8 o il recente successo degli United Auto Workers nell’organizzazione di uno stabilimento automobilistico in Tennessee. Le sconfitte sono costanti nel mondo del lavoro, ma queste tendenze rendono la rimonta sindacale una possibilità reale.
Approfondiamo la questione del cambiamento climatico. In che modo, secondo lei, l’estrema disuguaglianza e la concentrazione della ricchezza guidano il cambiamento climatico?
Alcuni ricercatori stanno svolgendo un lavoro pionieristico sviluppando stime delle emissioni climatiche in base alla ricchezza. Il Wid stima che il 10% più ricco delle famiglie a livello globale emette circa il 47,6% del totale mondiale e che l’1% più ricco da solo emette il 16,8%, circa 110 tonnellate di CO₂ equivalente all’anno. Osservano che «quasi la metà di tutte le emissioni è dovuta a un decimo della popolazione globale, e solo un centesimo della popolazione mondiale (77 milioni di individui) emette circa il 50% in più dell’intera metà inferiore della popolazione (3,8 miliardi di individui)».
Cifre davvero impressionanti. Ma quando si scende nel dettaglio di questi numeri aggregati, la situazione diventa ancora più folle, con il giocattolo della classe dirigente, definitivamente ignaro del clima, che non è più il megayacht ma il jet privato. I prezzi dei jet privati raggiungono le decine di milioni per aerei con interni lussuosi, stoviglie e finiture di alta gamma. Secondo il gruppo di ricerca europeo Transport & Environment, i viaggi in jet privato hanno un’intensità di carbonio dieci volte superiore a quella dei voli commerciali (per non parlare dei viaggi in treno). Inoltre, ha rilevato che il 41% dei voli privati è costituito da tratte vuote: un aereo senza passeggeri, che vola per incontrare il suo ricco proprietario a Londra o al Burning Man.
In definitiva, però, non sono tanto i lussi della classe dirigente a rendere i ricchi i principali responsabili del cambiamento climatico, quanto la loro proprietà dell’economia produttiva. La stessa proprietà che dà loro tanto potere sulla società li rende anche la fonte della maggior parte delle emissioni. Matt Huber, nel suo grande libro Il cambiamento climatico come guerra di classe, utilizza dati pubblici per stimare che il settore industriale rappresenta il 54,8% dell’utilizzo di energia a livello mondiale, rispetto ai trasporti (25,5%) e all’uso residenziale (12,6%).
Mastering the Universe sostiene che il compito centrale della politica della working class oggi deve essere l’«espropriazione» della classe dirigente. Perché? Perché non è sufficiente tassare i ricchi e ridistribuire parte della loro ricchezza?
I liberali, che possono essere solidali con la critica socialista al potere delle imprese e alla disuguaglianza, spesso dicono che è eccessivo espropriare i ricchi – cioè socializzare la loro ricchezza e la loro proprietà. Perché invece non imporre loro pesanti tasse e limitare il potere delle loro imprese con regolamenti governativi e leggi antitrust? Il vantaggio di questo approccio è che i mezzi per raggiungere questi obiettivi più modesti esistono già, per la maggior parte, e queste misure non richiederebbero una riorganizzazione fondamentale delle relazioni sociali. Questo è stato in gran parte il motivo per cui i movimenti sindacali e socialisti del dopoguerra sono stati convinti a non cercare di rompere completamente con il capitalismo, ma a domarlo con riforme socialdemocratiche.
Il problema è che, con la proprietà cruciale delle risorse produttive della società ancora nelle mani dell’1%, possono prendere tempo fino a quando non riescono a fare una mossa per eliminare la tassazione progressiva, la regolamentazione e i sindacati – questo è ciò che è successo a partire dagli anni Settanta, ovviamente, inaugurando l’era neoliberista che ha visto la distribuzione della ricchezza quasi tornare al punto in cui era nella Gilded Age pre-socialdemocratica della fine del XIX secolo.
Riforme come la tassazione progressiva e le tutele per l’organizzazione sindacale sono importanti e fanno la differenza nell’affrontare la disuguaglianza. Ma non sono sufficienti a controllare l’incredibile potere della classe dirigente, ed è per questo che i socialisti si battono da tempo per la democrazia economica.
*Rob Larson è professore di economia al Tacoma Community College e autore di Bit Tyrants: The Political Economy of Silicon Valley, pubblicato da Haymarket Books. Sara Wexler è membro dell’Uaw Local 2710 e dottoranda alla Columbia University. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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