Iconografia della violenza razzista
Un percorso lega l'ammutinamento di un racconto di Herman Melville alla scena della morte di George Floyd: a volte le immagini hanno il potere di cogliere il cuore della storia
Herman Melville pubblica Benito Cereno alla fine del 1855 sulla rivista Putnam’s Monthly. In quegli anni il clima politico statunitense è infuocato e fila dritto verso la Guerra di Secessione che scoppierà nel 1861 e sarà la prima grande guerra tecnologica dell’età industriale con oltre un milione di vittime. Nei mesi di scrittura del racconto il dibattito sulla schiavitù impazza: lo alimentano iniziative legislative scandalose (nel 1850 lo Slave Fugitive Act sancisce la «restituzione» al padrone dello schiavo che avesse raggiunto uno degli stati abolizionisti), crisi politiche e sanguinosi scontri dovuti al processo di costituzione di nuovi stati (come il Kansas-Nebraska Act del 1854). Esplode anche il conflitto tra Nord antischiavista e Sud pro-schiavitù per il controllo del Congresso e ha un enorme successo di vendite il romanzo di Harriet Beecher Stowe La capanna dello zio Tom (1852), il quale dava un’immagine per molti aspetti edulcorata e tranquillizzante della questione razziale pur schierandosi in favore di una «temperata» soluzione umanitaria (lo stesso punto di vista, in fondo, di Abraham Lincoln).
Melville trae la storia del suo racconto da un fatto realmente accaduto e narrato dal capitano e imprenditore navale del Massachusetts Amasa Delano nel suo libro di memorie A narrative of voyages and travels in the northern and southern hemispheres (1817). Nel capitolo 18 di quel racconto di viaggio (genere amatissimo dal pubblico borghese di quell’età e ancor più dal nascente lettore americano) Delano riporta un evento del 1805, il salvataggio del Tryal, una nave che porta un carico di schiavi senegalesi trovatasi in panne sulle coste del Cile. Delano racconta da vero imprenditore e gentlemen, con tutto l’aplomb del caso, come viene ingannato da una vera e propria mascherata imbandita a sue spese, rimanendo per un’intera giornata totalmente cieco e ignaro, dall’alba al tramonto, su una nave in cui è in corso un ammutinamento feroce e gli schiavi hanno sanguinosamente conquistato la leadership .
Melville costruisce il racconto attorno a questo vero e proprio enigma cognitivo: come si può partecipare a una tremenda rivolta di schiavi – e ce n’erano state, a partire dalla rivoluzione dominicana di inizio secolo fino alla sanguinosa rivolta di Nat Turner del 1831 – e non accorgersene? Un mistero la cui soluzione, se mai ce n’è una, è nella mente e negli occhi di Amasa Delano. E lì Melville pone la sua indagine narrativa e il punto di vista della storia (che modifica e integra nel processo di scrittura ma sempre rimanendo ancorato ai suoi elementi centrali).
All’inizio del racconto Delano si avvicina con la sua lancia alla nave alla deriva intento a fornirle aiuto; accostandosi allo scafo decrepito gli si para davanti un’immagine, un’invenzione poetica che denuncia un luminoso passato e un presente di decadenza:
Il più notevole avanzo della passata grandezza era l’immenso ovale dello scudo di poppa, recante l’arruffato intaglio delle armi di Castiglia e di Leon incorniciate da gruppi mitologici o simbolici, il più in vista dei quali era, al centro, un satiro nero e mascherato con un piede sul collo prostrato di una figura contorta (on the prostrate neck of a writhing figure), pur essa mascherata (H. Melville, Benito Cereno, Milano, Rizzoli, 2011, p. 15 – in seguito il riferimento alla pagina nel testo).
Secondo Schlegel e altri autori romantici le immagini (pitture, quadri, ritratti, descrizioni o èkphrasis), inserite in un racconto, hanno (devono avere) l’eccezionale potere di agire da catalizzatori di senso, di concentrare il valore di una storia, di coglierne il cuore: si possono anche definire mise en abyme, piccole ma potenti repliche e anticipazioni dell’intera narrazione, un mondo in miniatura che riproduce per condensazione quel modello finito di un mondo infinito che è l’atto narrativo. Così, rileggendo Benito Cereno, un testo che non ti abbandona e che chiede di essere letto e riletto, il lettore scopre che l’enigma, l’ammutinamento temuto e celato, gli stava davanti aperto e squadernato sin dall’inizio: sul San Dominick – così viene significativamente rinominata la nave della rivolta – è in corso una violenta mascherata. Una rappresentazione in cui un satiro nero, l’uomo di colore, celando la sua identità (dunque la maschera che ne copre il volto), sottomette un satiro bianco, l’uomo bianco, anche lui sotto mentite spoglie; suggerendo con immagine iconica, con una immagine che guarda noi più di quanto noi possiamo guardare lei, che ogni forma di dominio schiavista e di sottomissione razziale è un sanguinoso gioco di ruoli e una tragica commedia delle parti.
La giornata di Amasa Delano passa, lunga e interminabile, dall’alba al tramonto, tra paure e crisi d’identità, shock visivi (troppe cose che non tornano), ipotesi fattuali (il borghese è pratico e ragiona sempre) e rimozioni (tutto quello che non riusciamo a sopportare ci è più facile cancellare). E alla fine, quando deluso per la poca ospitalità ricevuta a fronte della «dedizione repubblicana» prestata si appresta a tornare sulla sua sicura sponda d’Occidente, ecco il colpo di scena: Benito Cereno, il capitano spagnolo della nave di schiavi, si fionda sulla sua barca mendicando protezione; Delano per tutta risposta lo sbeffeggia come pirata da quattro soldi (ironia amarissima), salvo capire, da buon ultimo, che Babo, il fedele, efficiente e acutissimo assistente di colore, è in realtà il capo della rivolta, che insegue con un balzo feroce fino all’ultimo la sua vittima designata. E qui ritorna l’immagine iniziale, ma rovesciata:
Vedendo arrivare il negro capitan Delano aveva spinto da parte lo spagnolo quasi nell’atto stesso di abbrancarlo e, spostandosi a braccia levate per l’involontario rinculo, fu così pronto ad afferrare il servo nella sua caduta che, con quel pugnale puntato contro il cuore, parve che proprio lui il negro avesse preso a bersaglio del suo salto. Ma subito l’arma venne strappata e l’aggressore scaraventato sul fondo della scialuppa […]. A questo punto la sinistra di capitan Delano tornò ad afferrare il semiprostrato Don Benito, per quanto questi fosse in preda a un muto svenimento, mentre calcava il piede destro sul negro abbattuto (the prostrate negro) e la mano destra imprimeva un accresciuto impulso al remo di poppa. Gli occhi fissi dinanzi a sé, incoraggiava gli uomini a produrre il massimo sforzo (p. 157).
La scena ha insieme toni ironici ed epici. O meglio, dentro una patina epico-eroica e vagamente superomistica (Delano è davvero multitasking), c’è tutta la più amara e ambigua ironia possibile. Melville si trova d’altronde in una situazione assai scomoda, simile a quella di un suo affezionato lettore della generazione successiva, il Conrad di Cuore di tenebra (1899): deve volente o nolente raccontare quanto danno faccia il dominio bianco (schiavismo, colonialismo, imperialismo e via discorrendo) a chi del dominio bianco vive (la middle class occidentale). Brutta posizione, non a caso premiata con il sonoro insuccesso delle sue opere; da lì a poco Melville smette infatti di scrivere prosa e dopo un decennio o poco più di scritture convulse, prolifiche e sfibranti – nove romanzi, decine di racconti, migliaia di pagine, una vera e ancor oggi in parte misconosciuta «commedia umana» del mondo cosmopolita nascente – si dedica per trent’anni quasi esclusivamente alla poesia (fatto salvo il postumo Billy Budd) e alla composizione di Clarel (1876),lungo e misterioso poema epico nell’età della morte dell’epica.
Ma torniamo alla nostra immagine iniziale. Un atto di sottomissione, un vincitore che schiaccia uno sconfitto, che lo annulla in un gesto di dominio assoluto: i rimandi testuali e iconografici si sprecano e la critica li ha censiti con attenzione. Partiamo dalla Bibbia, Genesi 3,15, Dio che annuncia al serpente la sua condanna, l’uomo che schiaccerà il suo capo e lui che tenterà in eterno di morderne il calcagno (l’eterna lotta tra Bene e Male, origine del tema dell’uccisione del drago che anima la quest di ogni romance, come ci insegna tra altri proprio Moby Dick). Da qui le variazioni iconografiche: per prima quella del monumentale dipinto di Raffaello dal titolo San Michele sconfigge Satana (1518, figura 1), un modello che con buona probabilità passa a Melville attraverso la lettura e la visione di uno dei grandi testi storico-artistici vittoriani, il Sacred and Legendary Art (1848) di Anna Jameson, vero must della critica moralista erudita e positivista ottocentesca, libro di testo e guida standard del grand tour dei viaggiatori anglo-americani dell’epoca. La descrizione del dipinto raffaellesco della Jameson ha diretti indizi linguistici che rendono valida l’ipotesi di una sua fonte: i verbi prostrate e writhe e ancor più la similitudine con la perturbante malignity of a satyr che può avere spinto Melville a rigenerare la fonte visuale con la misteriosa, ibrida e inquietante figura mitologica; inoltre l’intera scena, con Lucifero rappresentato come un demone-drago prostrato e contorto e l’angelo vendicatore che lo sottomette con il piede destro, serafico e vincente, le mani entrambe impegnate ma agile e chirurgico nella sua performance, segue il ritmo del modello iconico.
La ricezione di Melville è tutto meno che passiva, piuttosto è creativa e trasgressiva, radicale e sovversiva, tanto che nella descrizione dei bassorilievi dello scudo di poppa capovolge, come in un «negativo» fotografico, l’autorevole fonte pittorica: è il demone, il nero, il satiro mascherato a dominare il bianco, l’angelo, l’emissario del Bene; salvo poi tornare allo schema originale nello scioglimento finale, quando vince la ragione dell’economia di mercato, i beni commerciali in carne e ossa vengono recuperati alle ragioni del diritto borghese e il bianco prevale sul nero (come è logica storica che tristemente sia).
Sotto questo modello si insinua però un riferimento che accompagna e rafforza il percorso visuale di Melville; siamo in presenza di un’immagine parlante e in un processo immaginativo (simile a quello dei sogni) le fonti non si negano ma piuttosto si sovrappongono e contaminano tra loro. Nel 1839, infatti, un Melville nemmeno ventenne si imbarca come marinaio semplice sulla Saint Lawrence, una nave da merci e passeggeri che fa spola tra New York e Liverpool; è un momento generativo, il battesimo del mare, la piena coscienza della condizione di borghese decaduto, la caccia esistenziale alla figura del padre (forse la vera Balena Bianca): Allan Melvill (la «e» verrà aggiunta dopo), commerciante tra America ed Europa e dunque spesso di stanza a Liverpool, fallito e poi precocemente deceduto durante l’adolescenza di Herman, dunque figura dolente e fondamentale nell’immaginario psicologico e narrativo dell’autore. Melville durante gli anni di esplosivo apprendistato e poi di rapida maturazione artistica – il suo primo romanzo, Typee, è del 1846; l’ultimo, The Confidence-Man è del 1857 – opera sulla propria biografia una sorta di sfruttamento totale, «mette a reddito» (la competizione borghese si impara ben presto e difficilmente si dimentica) tutte le sue imprese di viaggio e di mare, traspone un intero curriculum in narrazione; il viaggio a Liverpool è così l’argomento del picaresco Redburn. His first Voyage (1849), romanzo a torto dimenticato, fervido di una dickensiana «immaginazione sociologica», ironico e avvincente racconto-cronaca dei conflitti di classe nelle «società viaggianti» ottocentesche e della fauna sociale di reietti e sradicati che le popola: avventurieri e marinai, schiavi ed emigrati. Attraverso la voce di Wellingborough Redburn, Melville recupera i ricordi di quel primo viaggio; così come, almeno in parte, la figura del padre, ripercorrendo le strade di Liverpool con la vecchia guida della città che fu del genitore (e questo «salvataggio della figura paterna» è uno dei passaggi più delicati e riusciti del testo). Nel capitolo 31 del romanzo – dal titolo umoristico Con la sua vecchia noiosa guida fa un noioso giro per la città – vagabondando per il cuore della città che fu il porto commerciale più grande dell’Ottocento, Redburn si imbatte in un gruppo scultoreo che gli si imprime profondamente negli occhi e nella mente:
L’ornamento in questione è un gruppo statuario in bronzo, eretto su un piedistallo e su un basamento di marmo, raffigurante Lord Nelson mentre muore fra le braccia della Vittoria. Un piede poggia su un nemico sconfitto e l’altro su un cannone. La Vittoria depone un serto sulla fronte dell’ammiraglio morente mentre la morte, sotto le spoglie di un orrendo scheletro, insinua la mano ossuta sotto l’abito dell’eroe e ne afferra il cuore. Una composizione davvero impressionante e piena di realismo: non riuscii mai a guardare la Morte senza provare un brivido di paura. Alla base del piedistallo, a intervalli regolari, stanno quattro nudi incatenati, un po’ più grandi del naturale, seduti in varie pose di umiliazione e sconforto […]. Rappresentano le più importanti vittorie di Nelson, ma io non potei mai osservarne le membra scure e le catene senza pensare involontariamente a quattro schiavi africani venduti al mercato. Ripensai alla Virginia e alla Carolina e al fatto storico che la tratta degli schiavi africani costituiva, un tempo, il principale commercio di Liverpool (H. Melville, Redburn, Marlin, Cava de’ Tirreni, 2006, pp. 187-188).
Anche qui si annodano vari fili, tra storia e immaginario culturale, a partire dalla contraddizione fondamentale: l’America di quegli anni aveva abolito la tratta negriera (nel 1808) ma non la schiavitù, dunque rimaneva uno dei porti privilegiati del commercio clandestino e illegale dei bucanieri quanto di quello «legale» delle nazioni che ancora praticavano il commercio di uomini (come testimonierà lo «scandalo internazionale» della nave negriera americana Creole, che nel 1841 portava un carico umano dalla Virginia alla Louisiana, approdata nelle Bahamas dopo la rivolta degli schiavi a bordo e infine liberata dagli inglesi).
Ma è la fonte iconografica ad aprire un’ ulteriore prospettiva; si tratta del Nelson Monument (1813), progetto di Matthew Cotes Wyatt e opera scultorea di Richard Westmacott, eretto al centro della città in ricordo dell’eroe di Trafalgar (figura 2). Si tratta di certo di una delle fonti generative dell’iconografia della cruenta battaglia tra satiri del racconto melvilliano, come testimoniano la apollinea compostezza, il piede che schiaccia il nemico e il corteo di schiavi-prigionieri sul piedistallo. Ma un altro dettaglio pare importante, la morte ossuta che appare sotto un lenzuolo a contaminare di declino la vita e di sconfitta la vittoria. La figura della morte del Nelson Statuary impressiona potentemente Melville e lo testimonia il ritorno di questa iconografia in più punti dello stesso Benito Cereno.
Siamo ancora nella scena della fuga del comandante e dello svelamento della rivolta; ecco come appare agli occhi di Delano la figura di Babo che pur sconfitto e relegato al fondo della scialuppa cerca di accoltellare il master divenuto servant ma ormai sfuggito al suo controllo:
Abbassando gli occhi, capitan Delano vide la mano libera del servo prendere la mira con un secondo pugnale – più piccolo del primo e tenuto fino allora nascosto nelle pieghe dei calzoni – lo vide contorcersi al fondo della scialuppa e puntare al cuore del padrone, mentre la faccia livida di vendetta esprimeva il concentrato proposito dell’animo (p. 157).
Il volto del demone raffaellesco e le movenze della morte del gruppo statuario di Nelson si fondono qui in un’unica perturbante forma composita di forte energia narrativa. L’immagine della morte ritorna infine nella scena della riconquista della nave da parte degli uomini di Delano, condotti dal suo primo ufficiale che è anche un ex privateer’s-man, ovvero un corsaro e bucaniere (altra amara ironia di Melville: dopo aver rovesciato lo schema servo-padrone ora mostra come la pirateria fosse ammessa, incentivata e praticata se funzionale agli interessi delle potenze occidentali). Mentre infuria la battaglia la nave dei rivoltosi priva di un timoniere va alla deriva e il velo che ne copre la polena cade, mostrando una macabra figura:
Fra lo scricchiolio degli alberi, la nave girò pesantemente nel vento sottraendo adagio la prua alla vista delle imbarcazioni, mentre lo scheletro sul rostro scintillava ai raggi orizzontali della luna e gettava sull’acqua un’ombra ossuta e gigantesca. Un braccio disteso dello spettro sembrava incitare i bianchi a vendicarlo (p. 165).
Un’immagine horror, macabra, da romanzo gotico; non a caso i primi lettori del testo, nell’America dell’Ottocento, ebbero gioco facile a derubricare il racconto – allora, ma forse purtroppo ancor oggi, «troppo avanti coi tempi» – quale narrazione «di genere» alla Poe, novella metafisica e fantastica. Quello scheletro è invece il corpo scarnificato del socio negriero di Cereno, Aranda, ucciso dai neri all’inizio della rivolta, sottoposto a un macabro rito di dissezione ed esposto a lugubre monito con sotto la scritta «Seguid vuestro jefe», Follow your leader. Come è stato giustamente detto, Benito Cereno, questo racconto di straordinaria potenza, è anche una parabola sulla leadership, sul comando e sulla sovranità. Lo scheletro del negriero è infatti posto a sostituire la polena originaria raffigurante niente meno che l’archetipo dell’occidentale conquistatore, Cristoforo Colombo; Melville gioca col lettore con i simboli e gli archetipi culturali come il gatto con il topo. Nella guerra tra razze gli eroi si tramutano in macabri spettri e gli angeli in demoni in un vortice di inversioni e reciproche maledizioni.
Un vortice tragico e senza fine. Ce lo ricorda l’ultima immagine, quella che per nessuna ragione avremmo voluto mostrare, ma che pure ha dato un senso doloroso a questa ricostruzione (figura 3). Più che una «immagine» un ennesimo reperto penale divenuto icona epidemica dello scempio della sovranità e della cultura democratica e repubblicana in quella che qualcuno si ostina ancora a definire «la più grande democrazia del mondo»; ma che è piuttosto il simbolo di un fallimento storico del quale dobbiamo presto tirare le somme.
25 maggio 2020, Minneapolis, Stato del Minnesota: il poliziotto razzista Derek Chauvin, novello e ributtante Amasa Delano, emulo di un presidente che fa della violenza politica urlata quotidianità mediatica, pone ginocchio e corpo sul prostrato, contorto e inerme George Floyd fino a soffocarlo, senza giustizia né ragione, nonostante la ripetuta richiesta di aria.In un mondo che cerca ancora con tragica violenza, fuori di sé, il serpente da schiacciare e il Drago-Satana da crocifiggere, la richiesta di respirare rimane inevasa. Non possiamo respirare mentre una nazione e un Occidente che volevano redimere il mondo scoprono di essere la ragione del suo smarrimento più profondo.
Riferimenti bibliografici
A.Delano, A narrative of voyages and travels in the northern and southern hemispheres, Boston, E.G. House, 1817, in particolare pp. 318-353.
M. Cometa, La scrittura delle immagini, Cortina, Milano, 2012.
D. Göske, Dark Satyrs, White Enthusiasts: Hawthorne’s and Melville’s Variations on “Saint Michael and the Dragon”, in Princeton University Library Chronicle, Vol. 54, No. 2-3, 1993.
R. Luraghi, La guerra civile americana. Le ragioni e i protagonisti del primo conflitto industriale, Milano, Rizzoli, 2013.
B. Placido, Le due schiavitù, Einaudi, Torino, 1975.
D. Robillard, Melville and the Visual Arts. Ionian Form, Venetian Tint, The Kent State University Press, Kent-Ohio, and London-England, 1997.
A. Scacchi, A una voce sola. Il racconto della storia in Benito Cereno di Herman Melville, Lozzi & Rossi, Roma, 2000.
A. Scuderi, Vero e insieme falso: l’enantiosema borghese in letteratura, in Between IX, 2018.
S. Stuckey, The Tambourine in Glory: African Culture and Melville’s Art, in R. S. Levine (ed.), The Cambridge Companion to Herman Melville, Cambridge, Cambridge University Press, 1998.
E. J. Sundquist,To Wake the Nations, Cambridge (MA), Harvard University Press, 1998.
*Attilio Scuderi è docente di letterature comparate all’Università di Catania. Si è occupato di autori italiani e stranieri del Novecento, di studi culturali e tematici, e di mitocritica. Tra i suoi libri: L’ombra del filologo. Romanzo europeo e crisi della cultura umanistica (Le Monnier, 2009); Il paradosso di Proteo. Storia di una rappresentazione culturale da Omero al postumano (Carocci, 2012), L’arcipelago del vivente. Umanesimo e diversità in Elias Canetti (Donzelli, 2016).
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