Il capitalismo cannibale
Nancy Fraser spiega che bisogna approcciare il concetto di produzione, e di lotta di classe, in modo esteso oltre la sfera strettamente economica. In modo da cogliere la relazione tra crisi, collasso ambientale e riproduzione sociale
Negli ultimi tre decenni, la filosofa politica statunitense Nancy Fraser ha fornito alla sinistra alcune tra le teorie più convincenti. A volte, queste idee sono esplicitamente politiche, come quando Fraser chiede al femminismo di recidere i suoi legami con l’élite economica e di abbracciare una working class in grado di aggredire le cause profonde dell’oppressione. Altre volte sono fortemente teoriche, come quando Fraser analizza l’interazione tra il capitalismo e le «condizioni di fondo» da cui il capitalismo dipende ma che non può sottomettere completamente.
Il lavoro recente di Fraser la vede impegnata in una sintesi tra livello pratico e teorico, allo scopo di evitare il disastro incombente di quello che lei, nel libro di prossima uscita, chiama «capitalismo cannibale»: la prospettiva che il capitalismo, invadendo tutte le sfere della vita, arrivi a distruggere le sue e, cosa più importante, le nostre condizioni di sopravvivenza.
In una recente intervista con Martín Mosquera, editor di Jacobin América Latina, Fraser ha spiegato che vuole fornire una radiografia del capitalismo moderno e delle sue crisi per dare agli attivisti una road map per agire politicamente e all’unisono, come parte di un insieme più ampio. La sinistra, dice Fraser, sta iniziando a recuperare un senso di potere unitario dopo decenni ossessionati dalla rottura di sé stessa in sotto-unità sempre più piccole e introspettive. Ma c’è ancora molto lavoro da fare. Per costruire il potere collettivo, dobbiamo capire meglio come si incastrano tutte le parti della società capitalista moderna. Abbiamo bisogno, insiste Fraser, di abbracciare un movimento politico in stile populista in cui le diverse rivendicazioni possano trovare espressione ma vengano tenute unite da un’agenda socialista che ci dia una visione comune di dove siamo diretti. Nella sua intervista a Mosquera, Fraser ha parlato degli scenari futuri che si profilano all’orizzonte se non agiamo con decisione per minare il potere del capitale e delle sfide della costruzione di un fronte comune di lotta politica.
Nel tuo lavoro più recente, hai sviluppato quella che chiami una «concezione estesa del capitalismo». Perché i concetti esistenti di capitalismo devono essere ampliati? Sono troppo focalizzati sul capitalismo come sistema economico?
Sì, è così. Ho sviluppato una concezione ampliata di capitalismo per allontanarmi dalle versioni del marxismo basate su struttura-sovrastruttura, che vedono il sistema economico come il vero fondamento della società e trattano tutto il resto come una mera «sovrastruttura». In quel modello la causalità scorre in una sola direzione, dalla base economica alla sovrastruttura giuridico-politica. Ciò è profondamente inadeguato. La mia alternativa è incentrata sul ripensamento della relazione del sottosistema economico della società capitalista con le necessarie condizioni di possibilità di fondo: processi, attività e relazioni che sono considerati non economici, ma che sono assolutamente essenziali per l’economia del capitalismo, come la riproduzione sociale, la natura non umana e i beni comuni.
Ciò complica l’immagine della relazione struttura-sovrastruttura. Dire che qualcosa è una condizione di fondo necessaria significa che il sistema economico capitalista non può funzionare senza di essa: la capacità del capitalismo di acquistare forza-lavoro e metterla al lavoro, di accedere a materie prime ed energia, di produrre merci e venderle con profitto, di accumulare capitale, nulla di tutto ciò può accadere a meno che queste condizioni «non economiche» siano in atto. Pertanto, le condizioni di fondo hanno il loro peso causale. Non sono semplici «epifenomeni».
Prendiamo l’esempio della riproduzione sociale: le attività, spesso svolte da donne al di fuori dell’economia ufficiale, che sostengono gli esseri umani che costituiscono la «forza lavoro». Così, per esempio, la nascita, la cura, la socializzazione e l’educazione delle nuove generazioni; ma anche, il rifornimento di lavoratori adulti, che devono essere nutriti, lavati, vestiti e riposati per tornare al lavoro il giorno successivo: tutto ciò è necessario per il funzionamento dell’economia capitalista. Questo argomento è stato sviluppato dalle femministe con la cosiddetta teoria della riproduzione sociale, che è una variante del femminismo marxista. Dimostra che se la riproduzione sociale non funziona, può davvero creare problemi alla produzione economica. Significa che l’accumulazione di capitale è vincolata da rapporti di parentela, tassi di natalità, tassi di mortalità, eccetera. Quindi, abbiamo già un quadro più complicato della causalità unidirezionale.
Un caso parallelo potrebbe essere fatto per le condizioni di fondo naturali o ecologiche. La produzione e l’accumulazione capitalistiche presuppongono la disponibilità della materia prima da cui dipende la produzione: fonti di energia, pozzi per lo smaltimento dei rifiuti. E se queste condizioni sono compromesse, anche questo può intaccare i lavori. Ne abbiamo un esempio interessante proprio ora con il Covid-19, che è, a un certo livello, una disfunzione ecologica. Il virus è emerso come una minaccia per l’uomo attraverso uno spillover zoonotico, un trasferimento a noi dai pipistrelli attraverso alcune specie intermedie, forse pangolini, probabilmente a seguito di migrazioni di specie indotte dal clima e dallo «sviluppo». Il risultato è stato un’enorme contrazione dell’intero sistema economico. Il Covid-19 è un ottimo esempio di causalità che va nella direzione opposta.
Come fai notare, il capitalismo non è un sistema economico completamente autonomo, nel senso che attinge e dipende da condizioni di fondo in qualche modo esterne. Ma anche se tutte queste sfere sono relativamente indipendenti l’una dall’altra, il sistema economico può ancora agire e trasformare le altre sfere. Non è una delle peculiarità del capitalismo quella di avere la capacità di plasmare spazi al di fuori di esso, come accade con la natura?
C’è sicuramente qualcosa di speciale nell’economia capitalista che le conferisce un grande dinamismo causale: l’imperativo di accumulare capitale e di espandere senza limiti il «valore». Come sappiamo, un’economia capitalista non è quella in cui fai un po’ di soldi e poi ti siedi e ti godi la vita nella tua bella tenuta e consumi tutto. C’è piuttosto l’imperativo del reinvestimento, finalizzato a generare quantità sempre maggiori di plusvalore, profitti sempre maggiori, e sempre più capitale. Questa è una forza potente, che spinge i possessori del capitale ad andare oltre, a cercare di piegare le condizioni non economiche alla loro volontà. Ma la loro capacità di farlo non è assoluta. È soggetta a respingimenti, anche da parte di una natura che procede secondo i propri ritmi, secondo i propri tempi. La temporalità della riproduzione ecologica non è, alla fine, all’interno del controllo capitalista. Quindi, ha senso parlare di sfere «relativamente autonome» che vengono poste come «non economiche».
Ma la spinta espansionistica del capitale è una costrizione bruta e cieca, ed è cablata nel sistema. È molto più potente della volontà dei singoli esseri umani che possiedono il capitale e sono incentivati ad ampliarne il valore, per così dire, compiendo la «sua volontà». Questa spinta è così potente che è riuscita a rimodellare le proprie condizioni di fondo (famiglia, natura, forme statali e così via), seppure con alcuni limiti, come ho appena detto. Quello che sto cercando di suggerire è che i marxisti hanno assolutamente ragione a insistere sul potere e sulla forza modellante della dinamica dell’accumulazione. Ma è un errore tradurre quell’idea in un nesso causale struttura-sovrastruttura. C’è molto respingimento, perché queste condizioni di fondo hanno le loro grammatiche e temporalità di riproduzione e perché nascondono valori «non economici» di cui le persone si preoccupano e che influenzano le loro azioni.
Come sottolinei, la crisi del Covid è un drammatico esempio di come queste esternalità interagiscono in modi complicati con il capitalismo, portando al tipo di crisi capitalista che hai descritto come «multidimensionale». Altrove, hai anche suggerito che, almeno dal 2008, l’attuale fase del capitalismo finanziarizzato e neoliberista sta attraversando una crisi – forse terminale – che potrebbe alla fine comportare uno spostamento storico verso una diversa forma di accumulazione capitalista. Come valuti la crisi attuale?
Voglio sottolineare alcuni punti che sono già impliciti nel modo in cui poni la domanda. Uno è che dovremmo distinguere tra crisi di settore e crisi generali. Una crisi di settore significa che c’è un’area significativa in un dato regime capitalista di accumulazione o fase di sviluppo capitalista che è apertamente disfunzionale, mentre altre sembrano essere più o meno a posto. Spesso tendiamo a pensare alle crisi economiche come settoriali proprio in questo senso. Gli storici potrebbero indicare numerosi esempi di crisi settore di questo tipo, che riguardano un solo ambito della società. Ma sono diverse da una crisi generale dell’intero ordine sociale. Il concetto di crisi generale suggerisce una convergenza o una sovradeterminazione di diversi importanti impasse e disfunzioni. Non solo un settore, ma tutti o quasi tutti i principali settori della società sono in crisi e queste crisi si aggravano a vicenda. Era il caso degli anni Trenta, per esempio.
Sospetto che ora stiamo vivendo una crisi generale di questo tipo. Certamente, abbiamo assistito a gravi forme di crisi economica, come il quasi tracollo finanziario del 2007-2008. E sebbene possa sembrare che i nostri governanti avessero trovato un modo per rimediare, quella crisi non è stata davvero risolta. La finanziarizzazione pervasiva rimane una bomba a orologeria. Ma, come mostra il recente rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), i nostri problemi economici sono convergenti con un’altra crisi molto grave, persino catastrofica: vale a dire, il riscaldamento globale. Questa crisi ecologica avanza da molto tempo e ora sta diventando palpabile. Sempre più segmenti della popolazione globale, compresi quelli che sono stati relativamente difesi dai suoi effetti peggiori, si stanno risvegliando.
C’è anche, come ho detto prima, una crisi della riproduzione sociale, che sta stressando o impoverendo le nostre capacità di creare, prendersi cura e sostenere gli esseri umani: assistenza all’infanzia e agli anziani, istruzione e assistenza sanitaria. Mentre gli stati disinvestono dai servizi pubblici e livelli salariali depressi ci costringono a dedicare più ore al lavoro retribuito, il sistema divora il tempo e l’energia necessari per il lavoro di cura. Quindi anche quel settore è in crisi, soprattutto in condizioni di pandemia. Si potrebbe dire che il Covid abbia notevolmente esacerbato la preesistente crisi della riproduzione sociale. Ma sarebbe altrettanto corretto affermare che la crisi preesistente della riproduzione sociale (compreso il disinvestimento dalle infrastrutture sanitarie pubbliche e dalle prestazioni sociali) ha notevolmente esacerbato gli effetti del Covid.
Infine, affrontiamo anche una grave crisi politica. Si tratta, a un certo livello, di una crisi di governance, nel senso che anche stati potenti come gli Stati uniti non hanno la capacità di risolvere i problemi che il sistema genera. Sono esauriti, paralizzati dall’ingorgo e sopraffatti dalle megacorporation, che hanno catturato praticamente tutte le agenzie di regolamentazione e hanno progettato enormi tagli alle tasse per sé stessi e per i ricchi. Privati di entrate per decenni, gli stati hanno permesso che le loro infrastrutture crollassero e hanno esaurito le loro scorte di beni pubblici essenziali, come abbiamo visto per i dispositivi di protezione individuale (Dpi). Sono, per definizione, incapaci di affrontare questioni come il cambiamento climatico, che non possono essere confinate all’interno di alcun confine giurisdizionale. Il risultato è un’acuta crisi di governance a livello strutturale. Ma c’è anche una crisi politica a un altro livello, una crisi di egemonia in senso gramsciano: la diffusa defezione dalla politica come al solito, dai partiti politici e dalle élite stabilite che sono state macchiate dall’associazione con la neoliberalizzazione e la comparsa di populismi prima impensabili. Alcuni potenzialmente emancipatori, altri decisamente no.
Il risultato è che ora ci troviamo di fronte a un groviglio di crisi multiple: una crisi economica, una crisi della riproduzione sociale, una crisi ecologica e una crisi politica bilaterale. A mio avviso, questo si aggiunge a una crisi generale della società capitalista. I suoi effetti si manifestano dappertutto, prima qui, poi là, poi da qualche altra parte, come un cancro in metastasi. Ogni sforzo per spegnere un focolaio porta solo ad accenderne, affliggendo altri settori, regioni, popolazioni, fino a travolgere l’intero corpo sociale. L’esperienza della crisi generale è diventata palpabile per molte persone, ma ciò non significa che produrrà un crollo totale o un climax rivoluzionario in tempi brevi. Le crisi capitalistiche possono andare avanti per decenni, purtroppo. Si potrebbe dire che tutta la prima metà del ventesimo secolo fino alla sconfitta del fascismo alla fine della Seconda guerra mondiale è stata solo una lunga e turbolenta crisi generale del capitalismo liberal-coloniale. Quindi, potremmo essere costretti a dovercela sfangare per molto tempo.
Il Covid sembra aver limitato le nostre capacità predittive. Tuttavia, è importante riprodurre diversi scenari futuri basati sulle tendenze in atto, anche solo per pensare a come muoverci verso scenari più emancipatori e lontano da quelli catastrofici.
Concordo. Sono felice di pensare a possibili scenari, pur sottolineando che non sto facendo previsioni. Inizierei cercando di capire se la crisi attuale è «evolutiva» o «epocale». Questa è una distinzione che dobbiamo alla scuola di Binghamton. Una crisi epocale è una crisi del capitalismo in quanto tale; la sua risoluzione richiede il superamento di quel sistema, la sua sostituzione con qualche nuova forma di società non o post capitalista. Al contrario, una crisi di sviluppo è specifica di un dato «regime di accumulazione» o fase all’interno della storia del capitalismo e può essere risolta, almeno temporaneamente, con la sua sostituzione con un nuovo regime, diverso eppure ancora capitalista. In tal caso, le divisioni costitutive del sistema tra produzione di merci e riproduzione sociale, «economia» e «politica», società umana e natura non umana, sfruttamento ed espropriazione non sarebbero eliminate ma «soltanto» ridisegnate.
Queste divisioni esistono in una forma o nell’altra in ogni fase del capitalismo, ma sono terreno di contraddizione. Ciascuno di essi nasconde una tendenza alla crisi (economica, ecologica, sociale o politica) che prima o poi è destinata a creare problemi. Un dato regime può riuscire ad ammorbidire o attenuare quelle contraddizioni per un po’, ma non per sempre. Alla fine, scoppiano in bella vista e il regime entra in una crisi aperta, scatenando una frenetica ricerca di soluzioni e intense lotte su come questi rimedi dovrebbero essere. Ma coloro che stanno vivendo quelle lotte non possono sapere con certezza se il risultato sarà un nuovo regime all’interno del capitalismo o un’alternativa postcapitalista. Ciò diventa chiaro solo a posteriori, con il senno di poi.
Finora, ogni crisi generale nella storia del capitalismo si è rivelata «semplicemente» evolutiva. La crisi generale della fase mercantile ha portato al regime liberal-coloniale del diciannovesimo secolo, la cui crisi ha portato a sua volta al regime statale della metà del ventesimo secolo, che a sua volta ha lasciato il posto al capitalismo finanziarizzato dell’epoca attuale. In ogni caso, il nuovo regime ha provvisoriamente disinnescato la crisi di sviluppo del suo predecessore prima di soccombere alla sua stessa crisi. In ogni caso, però, molti attori sociali credevano che la crisi che stavano vivendo fosse epocale e si sarebbe conclusa con l’abolizione del capitalismo. Ma hanno sottovalutato l’inventiva del sistema, la sua capacità di autotrasformarsi.
Dovremmo tenere a mente questa storia mentre cerchiamo di capire la nostra situazione. È possibile che alcuni aspetti della nostra attuale crisi possano essere evolutivi, specifici del regime finanziarizzato. Ma forse non del tutto. Il filone ecologico è quello che mi fa pensare che potremmo trovarci di fronte a qualcosa di diverso, una vera e propria crisi epocale, la cui risoluzione richiede il superamento una volta per tutte del capitalismo.
Se è così, allora ci sono diversi scenari possibili. Alcuni desiderabili, come l’ecosocialismo democratico globale. Certo, è difficile dire esattamente come sarebbe, ma supponiamo che smantelli la «legge del valore», abolisca lo sfruttamento e l’espropriazione e reinventi le relazioni tra società umana e natura non umana, tra produzione di beni e cura, tra «politica» ed «economia», la pianificazione e i mercati democratici. Questo è l’esito «buono» del nostro spettro di possibilità. Dall’altra parte ci sono alcuni risultati non capitalistici che sono davvero terribili: una massiccia regressione della società verso uomini forti in guerra tra loro o un regime autoritario globale. C’è anche, ovviamente, una terza possibilità, ovvero che la crisi non si risolva affatto, ma continui semplicemente a macinare in un’orgia di autocannibalizzazione della società fino a quando non rimane molto di umano.
Come ho detto, non sto facendo previsioni. Ma dirò che se queste sono le nostre opzioni attuali, faremmo meglio a combattere per il primo scenario. Ciò significa lavorare per costruire un nuovo blocco controegemonico che possa unire tutte le forze potenzialmente emancipatrici dietro un progetto di trasformazione ecosocialista. In un recente articolo sulla New Left Review, ho cercato di delineare questa strategia e spiegarne il pensiero. La mia idea è che un tale progetto sia meglio concepito come anticapitalista e transambientale: anticapitalista perché il capitalismo nasconde una tendenza strutturale intrinseca alla crisi ecologica ed è il principale motore storico-sociale del cambiamento climatico; e transambientale perché la contraddizione ecologica del sistema è inestricabilmente intrecciata con le sue altre contraddizioni (economiche, politiche, sociali) e non può essere risolta astraendosi da esse. Il risultato è che gli attivisti verdi devono fare causa comune con coloro che combattono per i diritti di lavoratori e lavoratrici, per i mezzi di sussistenza e la sicurezza alimentare; per una rivalutazione del lavoro di cura e degli investimenti pubblici nella riproduzione sociale; contro l’espulsione e l’esclusione dei migranti; contro l’espropriazione della terra, l’autoritarismo e l’oppressione razziale-imperiale.
Ciò che rende possibile una tale coalizione transambientale in linea di principio è il fatto «conveniente» che tutti questi mali della società hanno radici in uno stesso sistema sociale: il capitalismo. Quel sistema potrebbe, o meglio, dovrebbe essere trattato come il nemico comune dei vari soggetti della coalizione e come un punto focale congiunto dei loro vari attivismi. Se adottassero una posizione anticapitalista, le correnti ecopolitiche ora divise potrebbero unirsi tra loro e con i movimenti sociali «non ambientalisti». Penso ai movimenti per la decrescita, la giustizia ambientale e un Green New Deal, che oggi sono spesso in contrasto. Per come li vedo, ognuno dei tre ha intuizioni autentiche e punti ciechi disabilitanti. Scommetto che le intuizioni potrebbero essere amplificate e i punti ciechi corretti se queste correnti fossero ricollocate in un blocco controegemonico che è transambientale e anticapitalista. In tal caso, i loro programmi specifici, come il Green New Deal, apparirebbero meno come fini a sé stessi che come «strategie socialiste di transizione» (per usare una vecchia formulazione trotskista) in rotta verso una trasformazione più radicale, che potremmo chiamare «ecosocialismo democratico».
In ogni caso, è impossibile dire cosa accadrà esattamente e quando, perché ciò dipende, ovviamente, da ciò che fanno le persone. Quello che io stessa sto facendo in questi giorni è cercare di spiegare meglio la dinamica della crisi attuale nelle sue diverse dimensioni. Intendo tracciare una mappa della totalità sociale in cui attivisti e potenziali attivisti possono localizzare le loro varie preoccupazioni, che altrimenti tendono a rimanere parziali e sconnesse. In questo modo, spero di trasmettere un senso di dove e come queste varie preoccupazioni si inseriscono nel quadro generale; inoltre, per mappare lo stato di avanzamento tra le forze sociali contendenti. Il mio obiettivo più ampio è pratico: chiarire come queste forze e queste tensioni possano essere mobilitate nel modo più efficace per una soluzione emancipatrice della crisi.
Quella che descrivi suona un po’ come una strategia populista: nell’idea che la società sia fatta di interessi o preoccupazioni intrinsecamente parziali, la sfida è fondere questi diversi interessi in un agente politico coerente. Hai anche parlato favorevolmente del populismo di sinistra in passato, ma gli eventi recenti sembrano suggerire che, come movimento, ha una vitalità politica limitata. Nel frattempo, il populismo di destra sembra funzionare meglio.
Ho iniziato a pensare seriamente al populismo sulla scia di Occupy Wall Street. Sono rimasta molto colpita dalla narrazione del 99% e dell’1%, che è essenzialmente populista. Sebbene manchi della precisione e del rigore analitico dell’analisi di classe, è immediatamente comprensibile ed emotivamente potente. È incredibile la velocità con la quale questo tipo di linguaggio abbia preso piede negli Stati uniti. Ciò è stato in parte dovuto al fatto che è stato enormemente amplificato da Bernie Sanders, che ha parlato di un «sistema» che è stato «manipolato» dalla «classe dei miliardari». Quella parola, «manipolato», si è rivelata straordinariamente potente, un punto che non è sfuggito a Donald Trump, che in seguito se ne è appropriato e le ha dato una svolta diversa.
In ogni caso, l’irruzione del linguaggio populista nell’universo politico statunitense è stata piuttosto traumatica. Non solo ha fatto presagire una grande crepa nell’egemonia neoliberista, ma ha anche rotto con la retorica particolaristica prevalente in alcuni circoli «di sinistra», allora impegnati a scomporre categorie politiche collettive (come le «donne») in unità sempre più piccole e separate. Il discorso sul «99%» contro «l’1%» è andato nella direzione opposta, verso un collettivo più ampio. Ciò mi ha suggerito un interesse crescente negli Stati uniti per la costruzione di una coalizione di sinistra globale. Sembrava esprimere il bisogno che le persone sentivano, forse senza nemmeno rendersene conto, di un’analisi incentrata sui collegamenti, che potesse aiutare a superare la frammentazione della sinistra e costruire un fronte unito, tutti fattori che ho interpretato come segnali positivi.
Allo stesso tempo, l’appropriazione da parte di Trump della retorica populista ha reso imperativo distinguere il populismo di sinistra dal populismo di destra. Ognuno di loro offre una mappa della gerarchia sociale, chi sta sopra e chi sta sotto, chi ha il piede sul collo di chi. Ma le due mappe differiscono nettamente. Il populismo di sinistra è binario e divide la società in due gruppi: una piccola élite oligarchica che accumula enormi ricchezze grazie alla stragrande maggioranza – da qui il suo progetto di mobilitare «il 99%» contro «l’1%». Al contrario, la mappa del populismo di destra è tripartita e divide la società in tre gruppi. In cima si trova l’élite «succhiasangue», in fondo la sottoclasse «scroccona», mentre intrappolati tra loro e preda di entrambi c’è la «gente» virtuosa. Quindi il populismo di destra prende di mira l’1%, ma anche gli immigrati, le persone di colore, le minoranze sessuali, eccetera. È un’immagine molto diversa della società e del progetto politico.
Una seconda differenza è che il populismo di destra definisce i suoi nemici in termini particolaristici e sostanziali. Nel gergo di alcuni sostenitori di Trump, ad esempio, quelli in cima sono «la cabala internazionale ebraico-pedofila», mentre quelli in fondo sono «stupratori messicani» o «negri pigri», entrambe le estremità caratterizzate concretamente, in termini culturali. Al contrario, i populisti di sinistra definiscono il nemico funzionalmente, in termini del suo ruolo nel sistema sociale, da qui «Wall Street» o «la classe dei miliardari». È vero, naturalmente, che i termini funzionali possono scivolare in termini identitari, come quando «Wall Street» si trasforma in «banchieri ebrei». Quindi, non c’è un muro assoluto tra i due populismi, e quelli di sinistra devono avere cura di fermare ogni imminente scivolone. Ma questa differenza, come la precedente, è politicamente e moralmente significativa. E non dimentichiamo: la sociologia binaria «funzionale» del populismo di sinistra è molto più vicina alla verità dell’identitarismo tripartito della destra. La finanza espropria davvero la stragrande maggioranza delle persone nel capitalismo contemporaneo, mentre «il sottoproletariato» non depreda «il popolo».
Sarà da vedere se il populismo di sinistra, così definito, possa servire come formazione di transizione che ottiene vittorie, amplia la sua portata, approfondisce la sua critica sociale e diventa più radicale. C’è anche la questione se possa educare le persone nel corso della lotta, rendendo più comprensibile il sistema che stanno combattendo, spiegando esattamente come quel sistema viene manipolato. La mia ipotesi è che il populismo di sinistra offra un punto di accesso percorribile alla lotta di classe. Sono meno sicura che possa riuscire a generare un’intuizione genuina su come funziona davvero il «sistema» e su cosa deve essere fatto davvero per cambiarlo. Sospetto che ci sarà bisogno dell’aiuto dei marxisti su questi ultimi punti. Ma vedremo.
Ora, detto questo, sono pienamente d’accordo con te che i trascorsi fino a oggi del populismo di sinistra nei confronti del suo rivale di destra non sono significativi. Certamente, il populismo di destra ha avuto più successo nel conquistare e mantenere il sostegno di un gran numero di persone. Ma parte del problema è il ruolo vergognoso svolto in molti paesi da partiti e leader apparentemente socialdemocratici e socialisti nell’installare o consolidare il neoliberismo: Bill e Hillary Clinton negli Stati uniti, Tony Blair in Inghilterra, Gerhard Schröder in Germania. Entrambi i populismi si sono sviluppati in risposta a quella débâcle, ma la variante di sinistra ha lottato per distinguersi da quei «neoliberali progressisti» che ci hanno portato alla finanziarizzazione, anche se hanno cercato di catturare la base della classe operaia che ha abbandonato quei partiti.
In ogni caso, non vedo altre strategie disponibili. È fondamentale per la sinistra parlare a quelle frazioni della classe operaia che ora sostengono il populismo di destra. Ed è un’operazione delicata. Da un lato, non dobbiamo concedere un centimetro ai razzisti all’interno di quel gruppo. D’altra parte, non dobbiamo presumere che questi ultimi costituiscano la stragrande maggioranza degli elettori della classe operaia di Trump o Jair Bolsonaro. Se lo facciamo, è finita. Dobbiamo invece partire dal presupposto che una fetta significativa di quegli elettori può essere conquistata dalla sinistra, attraverso il populismo di sinistra. E sappiamo per certo che molti di loro hanno votato non molto tempo fa per personaggi come Lula e Barack Obama, spostandosi solo dopo, quando le loro speranze sono state deluse. Ciò che un populismo di sinistra può e deve fare è accogliere le sue rimostranze legittime, offrendo una diversa interpretazione di ciò che le muove, spiegando chi esattamente sta manipolando cosa, perché l’attenzione su una sottoclasse disprezzata è un vicolo cieco, perché non saranno mai abbastanza forti da sconfiggere il vero colpevole (capitale globale e finanza globale) se sostengono i partiti che dividono la working class. In altre parole, la nostra migliore speranza a questo punto è un populismo di sinistra che possa, nel tempo, trasformarsi in un movimento socialista di qualche nuovo tipo.
Come si inserisce la lotta di classe in questa evoluzione dal populismo di sinistra a un movimento socialista? Alcuni potrebbero obiettare che il populismo punta a unire più antagonismi in un «popolo» simbolico, il che non è del tutto compatibile con la politica socialista, o almeno quella versione della politica socialista che intende il potere della classe operaia come «strutturale», cioè, a partire dai luoghi di produzione, dove i lavoratori possono potenzialmente utilizzare la loro leva come produttori per generare successi politici materiali. Sembra che il tuo pensiero su quelle che chiami «lotte di confine» contenga alcuni indizi. Si ha la sensazione che le «lotte di confine» abbiano a che fare con la lotta di classe nel contesto della tua concezione ampliata del capitalismo. Giusto?
Almeno all’interno del marxismo tradizionale e dei principali movimenti socialisti e operai, storicamente c’è stata una tendenza a pensare alle lotte di classe in senso stretto, cioè come lotte nei luoghi di produzione sul tasso e sulla distribuzione del plusvalore estratto attraverso lo sfruttamento dei salariati nelle fabbriche. E poi, naturalmente, queste lotte dovrebbero espandersi oltre i cancelli della fabbrica, sviluppare una dimensione politica e assumere altre cause più lontane. Ma continuo a pensare che, nel complesso, quest’immagine della lotta di classe, in quanto essenzialmente interessata al lavoro salariato negli ambienti industriali, rimanga un’immagine molto potente.
Quell’immagine della lotta di classe ha portato molti a polemizzare con ciò che Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau chiamano «essenzialismo di classe». In quei dibattiti, sostengono che la lotta di classe non è l’unico tipo di lotta nelle società capitalistiche e che non ha il monopolio su ciò che costituisce una giusta visione della società. Coloro che condannano l’essenzialismo di classe dicono che socialisti e marxisti non hanno il monopolio di nominare tutte le forme di oppressione e ingiustizia. E, di fatto, le società capitaliste sono state storicamente spazi in cui ci sono state tremende lotte del lavoro non libero e dipendente e varie altre forme di oppressione o dominio che non rientrano nei parametri convenzionalmente definiti della lotta di classe. In altre parole, una posizione è dire: «Le lotte di classe hanno questo significato molto specifico e, quindi, dobbiamo identificare le lotte non di classe, che significano qualcos’altro».
Ma, da un’altra prospettiva, si potrebbe dire che il problema sta nella loro definizione ristretta di lotta di classe. Se torniamo alla prima parte della nostra conversazione, è la concezione ampliata del capitalismo di cui stavamo discutendo che ci permette di vedere le lotte di classe sotto una luce diversa. Proprio come il capitalismo non è solo un’economia, la classe non è solo la lotta nel luogo di lavoro. Se comprendi il capitalismo come insieme di tutte queste condizioni di fondo, necessarie per i luoghi molto specializzati in cui il plusvalore viene accumulato grazie al lavoro salariato sfruttato, puoi anche comprendere che la riproduzione sociale è una componente ugualmente essenziale del sistema e il modo in cui le parti combaciano. Se dici lo stesso della natura, dei beni pubblici, delle capacità normative e delle forme giuridiche che consideriamo politiche, allora potrebbe benissimo essere che le lotte su questi fronti siano anche lotte anticapitaliste, o almeno lotte che riguardano componenti essenziali di un sistema capitalistico. Se declinati nel modo giusto – e non lo sono sempre, badate bene – possono anche essere intesi come lotta di classe.
Le lotte per la riproduzione sociale hanno storicamente fatto parte della lotta di classe. È ciò che sta dietro la potente richiesta del movimento operaio di un salario familiare. Quella richiesta era sia una lotta sulle condizioni di lavoro che una lotta sulle condizioni della riproduzione sociale e della vita domestica. Si è rivelata una soluzione non sempre ottima per le donne o per quelle fasce di classe operaia che non sono mai state considerate ammissibili a un salario familiare. Ma come vedi, a seconda di come si parla di lotta di classe, le cose possono complicarsi molto rapidamente.
Quindi, in un certo senso, la soluzione migliore è ridefinire la classe e la lotta di classe in modo più ampio. Ma, allo stesso tempo, dobbiamo stare molto attenti a distinguere cosa significa dire che c’è un diverso senso di lotta di classe. Lo sostengo con una preoccupazione precisa: trovare i modi migliori per promuovere il tipo di ampie alleanze di cui abbiamo bisogno per assumere poteri molto grandi e radicati che devono essere affrontati e smantellati.
Dire che queste lotte apparentemente diverse sono tutte lotte di classe sembra, a prima vista, aprire delle possibilità: ci siamo dentro tutti insieme e abbiamo tutti lo stesso nemico. Ma se prendiamo questa strada e adottiamo una visione allargata del capitalismo – e quindi una visione allargata della lotta di classe e della lotta anticapitalista – allora spetta a noi essere molto attenti ai modi in cui tali lotte non sono immediatamente armonizzate. Questo è il compito del lavoro politico, ed è davvero un duro lavoro. Questo ci riporta all’idea del populismo di sinistra: devi creare una mappa che mostri come queste lotte si incastrano e come certi modi di costruirle tendano a creare inutili giochi a somma zero, che potrebbero essere evitati con un approccio diverso.
Nello spiegare le lotte di confine, a volte introduco la prospettiva di Karl Polanyi. Senza usare il termine, Polanyi era davvero concentrato sulle lotte di confine tra quello che chiamava il mercato autoregolato – potremmo semplicemente dire l’economia – e la società. Ciò che è intrigante e fruttuoso in questo approccio è l’idea che la battaglia non riguardi solo la distribuzione del plusvalore. È ciò che determinerà la grammatica della vita. Riguarda il modo in cui, in una data comunità, il capitale avrà mano libera o meno.
Ciò solleva domande profonde riguardo chi nella società ha il potere di plasmare la grammatica della vita. Nelle società capitaliste, questi interrogativi vengono surrettiziamente rimossi dall’agenda politica e affidati a nostra insaputa al capitale e a coloro che sono incaricati di accumulare capitale.
Parlare di lotte di confine significa cercare di andare oltre il tema della distribuzione e arrivare alla questione del modo in cui è organizzata la grammatica della vita sociale. Le lotte per i confini dicono che c’è un problema reale e fondamentale su dove tracciamo il confine tra società e natura, lavoro retribuito e altre attività coinvolte nella cura delle comunità e delle relazioni familiari, e così via. Queste domande si riducono a: quali sono i confini legittimi entro i quali i mercati possono operare? Quali sono le cose che possono legittimamente essere comprate e vendute? Penso che lo scopo di parlare di lotte di confine sia dire che queste cose sono sempre state contestate nelle società capitaliste. Non è che siano un’alternativa alle lotte di classe, è che le lotte di classe a volte prendono la forma di lotte di confine e le lotte di confine – quando le cose vanno bene – a volte prendono la forma di lotte di classe.
*Nancy Fraser insegna filosofia e politica alla New School for Social Research. Ha scritto Fortunes of Feminism (Verso, 2013) e con Rahel Jaeggi, Capitalism: A Conversation in Critical Theory (Polity, 2018). È fra le principali sostenitrici dello sciopero internazionale delle donne, a lei si deve la formula del «femminismo del 99%». Martín Mosquera insegna all’Universitàdi Buenos Aires, è nel comitato editoriale della Revista Interseccionese militante di Democracia Socialista. Questo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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