Il quadrante sottosopra
L'attacco terroristico del 7 ottobre e il massacro a Gaza che è seguito hanno cambiato lo scenario di un'intera regione, non solo di Palestina e Israele. Proviamo a fare il punto
Gli oltre sette mesi di massacri nella Striscia di Gaza hanno il volto di un intero territorio cancellato, di più di 35mila persone uccise di cui oltre un terzo minorenni, di quasi 80mila feriti e di oltre un milione e mezzo di sfollati. Il volto di un genocidio consumato sotto gli occhi di tutti e che nessuno, tra chi ne avrebbe l’autorità, può o vuole interrompere. Anche se l’operazione israeliana sta generando ripercussioni profondissime su tutto il Medio Oriente.
Vista attraverso gli occhi dei paesi dell’area l’immagine si allarga e rende un quadro intricatissimo dalle mille sfaccettature. Dal rafforzamento delle formazioni che rappresentano il cosiddetto «Asse della Resistenza» al rischio di un’implosione di paesi come Libano ed Egitto, dalla destabilizzazione delle rotte commerciali in uno dei principali snodi marittimi mondiali ai mutamenti politici in seno a quella che viene definita la «Mezzaluna sciita». Il 7 ottobre del 2023 non ha cambiato soltanto il volto di Gaza o della Palestina, ma dell’intera regione.
Libano, il più fragile dei fronti
Il «paese dei Cedri» è stato il primo luogo della regione fuori dalla Palestina a essere coinvolto nella crisi cominciata a Gaza, con una prima escalation che si è fatta attendere meno di 24 ore.
Dall’8 ottobre sul confine libanese gli scontri tra Hezbollah e l’esercito israeliano non si sono mai interrotti, se non per cinque giorni a novembre in corrispondenza dell’unica pausa nei combattimenti a Gaza.
Per quanto il livello del confronto sia rimasto abbastanza costante in questi sette mesi, l’apertura del fronte tra Libano e Israele ha vissuto diverse fasi soprattutto per quanto riguarda la percezione relativa alla sua stabilità. Nelle prime settimane, l’attenzione del Libano e di molti osservatori era tutta protesa verso il Segretario Generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ritenuto spesso la figura politica oggi più rilevante nella regione. Per giorni ci si è interrogati sulle mosse del suo partito, che rappresenta anche la milizia più grande tra le forze non statali del cosiddetto «Asse della Resistenza», fino a venerdì 3 novembre, quando Nasrallah ha tenuto il suo primo discorso dall’inizio della crisi di Gaza.
C’è un modo di dire piuttosto ricorrente in Libano: «Nasrallah parla in pubblico solo per le celebrazioni religiose oppure quando una guerra comincia o finisce». Ma quel giorno, pesando ogni singola parola, il leader di Hezbollah ha garantito che il suo partito non avrebbe compiuto il primo passo verso una guerra a piena intensità.
Da quel giorno, il «fronte di supporto» libanese ha continuato a vivere un conflitto permanente tutto costruito su una fragile «grammatica comune», secondo cui Israele colpisce i villaggi libanesi sul confine, in larga parte abbandonati dai loro abitanti, mentre Hezbollah si concentra su obiettivi militari in territorio israeliano.
Con il passare dei mesi questo equilibrio è stato messo a dura prova in sempre più occasioni, dall’omicidio di Saleh al-Arouri avvenuto il 2 gennaio alla periferia di Beirut, fino alla strage di Nabatieh del 14 febbraio, in cui furono uccisi un combattente di Hezbollah e sette membri della stessa famiglia, senza dimenticare i frequenti attacchi aerei israeliani nella valle della Bekaa, in particolare vicino alla città di Baalbek, famosa per i templi romani e uno dei luoghi di fondazione di Hezbollah.
In parallelo, sono cresciute le minacce israeliane di invadere il Libano alla fine della primavera per cancellare Hezbollah dallo scenario politico-militare della regione, un’ipotesi che la diplomazia internazionale sta cercando di scongiurare.
Da mes Francia e Stati uniti hanno aperto un canale di dialogo con Israele e Hezbollah per trovare una soluzione politica alla crisi di confine, una soluzione che passa dalla demarcazione della frontiera di terra, mai definita in decenni di tensioni, e dall’applicazione, totale o parziale, della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, approvata nel 2006 per mettere fine all’ultima guerra combattuta in territorio libanese e mai rispettata se non in minima parte, e dal rafforzamento di Unifil, la forza di interposizione Onu attiva sul confine dal 1978.
Ma se la diplomazia procede lenta, lo scenario militare potrebbe di colpo portare questo confine a essere attraversato dalle truppe di terra israeliane, con conseguenze difficili da immaginare per un paese tra i più fragili dell’intera regione.
È dal 2019 che il Libano vive una crisi a più stadi che ha indebolito l’economia del paese a livelli mai raggiunti prima, creando un terreno fertile per le oligarchie economiche: dal 2022, infatti, a Beirut non esiste un governo con pieni poteri e non c’è un Presidente in carica.
Siria, una crisi ai margini
Tredici anni di guerra civile e un sistema di sanzioni durissime che hanno messo in ginocchio la popolazione non hanno evitato alla Siria di essere trascinata nel conflitto regionale.
L’area nei dintorni di Damasco, controllata dal governo siriano e dai suoi alleati regionali, Iran e Hezbollah, è da anni bersaglio di attacchi aerei israeliani, lanciati dalle alture del Golan, occupate dal 1967, e tipicamente rivolte alla Damasco rurale e agli aeroporti civile e militare della capitale siriana.
L’aumento della frequenza degli attacchi ha reso la Siria un luogo ancora meno sicuro di prima, mentre il governo siriano ha a più riprese dichiarato di essere solidale con l’«Asse della Resistenza», ma di non voler diventare parte attiva nel conflitto regionale.
Eppure, questa posizione non ha impedito a Damasco di diventare il teatro di uno dei momenti di maggior tensione di questi sette mesi. Con un attacco con droni il primo aprile Israele ha colpito e distrutto il consolato iraniano nella capitale siriana, innescando una sequenza di rappresaglie e contro-rappresaglie che per giorni ha tenuto la regione con il fiato sospeso.
Con oltre sei milioni di persone che hanno lasciato il paese, e poco meno di sette milioni di sfollati interni, la Siria resta senza voce in capitolo in questo conflitto, ma la sua posizione centrale nella regione la rende da un lato un bersaglio e dall’altra un territorio percorso da ogni forza e milizia coinvolta nella crisi regionale, senza strumenti per arginare eventuali allargamenti della guerra e senza alcuna prospettiva politica.
Yemen, il fronte caldo
La centralità di questo paese, considerato il più povero e per lunghi tratti il più dimenticato del Medio Oriente, è stata riscoperta negli ultimi mesi di assedio su Gaza. Nonostante un conflitto interno iniziato nel 2004 e dal 2014 sfociato in una vera e propria guerra civile che ha prodotto oltre 100mila vittime, carestie e la più grande epidemia di colera del mondo, i riflettori internazionali sullo Yemen si sono accesi solo a partire dall’ottobre scorso. Quando gli Houthi, il movimento sciita che dal 2014 controlla il nord del paese e la capitale Sana’a, hanno aperto il terzo fronte contro Israele in risposta all’attacco contro la Striscia. Prima attraverso lanci – poco incisivi – di missili e droni contro la città-porto di Eilat, poi con operazioni di pirateria – più efficaci – contro le navi commerciali legate a Israele e infine con attacchi mirati alle imbarcazioni che transitano nel Mar Rosso. Il risultato è stato un enorme contraccolpo sul commercio mondiale: in pochi mesi il 33% delle navi mercantili ha abbandonato la rotta dello Stretto di Bab Al-Mandab (da cui transitano 19mila navi all’anno, cioè l’11% del traffico globale e il 12% del commercio petrolifero mondiale) e ha optato per quella molto più lunga della circumnavigazione dell’Africa passando per il Capo di Buona Speranza, con un’inevitabile lievitazione dei prezzi delle materie prime.
La risposta occidentale è stata la creazione di una coalizione militare che ha condotto diversi attacchi aerei contro le zone controllate dagli Houthi. Ma questo non ha invertito la crescita di un movimento che fino a qualche anno fa era ritenuto una forza regionale marginale e che adesso si è ritagliato un ruolo di primo piano in tutta l’area, specie sullo scacchiere sciita che dall’Iran transita per il Libano, la Siria, l’Iraq e arriva dritto alla punta della Penisola Arabica.
Egitto nel pantano
Quanto avviene a Gaza ha un impatto profondissimo sull’Egitto. La pressione sulla frontiera nord, e in particolare sul valico di Rafah, è un detonatore che rischia di innescarsi da un momento all’altro. La minaccia di un esodo forzato di almeno un milione e mezzo di palestinesi nel Sinai (dove, tra l’altro, sono insediate e attive cellule dello Stato Islamico) ha spinto addirittura il governo a costruire una sorta di «zona cuscinetto» delimitata da recinzioni attorno all’area del valico. Le ripercussioni sulla tenuta sociale ed economica dell’Egitto, infatti, sarebbero disastrose. Il paese sta vivendo una delle peggiori crisi della sua storia. Da una parte l’esplosione dei tassi di inflazione, le misure di austerità sempre più imponenti e una progressiva svalutazione monetaria. Dall’altra le tensioni sociali scaturite dalle profonde disuguaglianze e quelle politiche – smorzate solo formalmente dal plebiscito che nel dicembre scorso ha incoronato Al-Sisi per il terzo mandato – con Fratelli Musulmani e appunto Isis. Mentre i confini sono sempre più in fiamme: a sud-ovest con Libia e Sudan (da cui deriva il rischio di un deficit idrico sempre più impellente), a est proprio con lo Yemen e gli Houthi che stanno facendo crollare le entrate provenienti dal Canale di Suez.
Tutto questo sta spingendo l’Egitto a giocare un ruolo di mediazione tra Israele e Hamas, che appare più forzato che voluto. A cui si legano anche il riavvicinamento repentino con la Turchia di Erdoğan dopo almeno un decennio di forti attriti deflagrati con la destituzione del presidente Morsi e il ristabilimento delle relazioni con l’Iran, attore sempre più centrale nelle dinamiche geopolitiche mediorientali.
Una nuova fase per il Medio Oriente
È evidente che, escluso l’elefante nella stanza rappresentato dall’Iran, Libano, Siria, Yemen ed Egitto sono i paesi su cui la crisi in atto ha maggiori ripercussioni e al contempo quelli che hanno un impatto maggiore sulle dinamiche mediorientali. Tuttavia, non sono i soli. Soprattutto non è scontato che le cose rimarranno così. La volatilità degli avvenimenti a cui stiamo assistendo, infatti, è estrema: prova ne sia la morte pochi giorni fa del presidente della Repubblica iraniana Ebrahim Raisi e del ministro degli esteri Hossein Amir-Abdollahian, che porterà l’Iran al voto di qui a poche settimane.
Ciò a cui stiamo assistendo è l’apertura (o meglio, la conferma sul campo) di una nuova fase per il Medio Oriente. Una fase che arriva dopo il tentativo di «normalizazione» a suon di guerre made in Usa di inizio secolo, dopo l’epoca delle primavere arabe, dopo quella della «pax israeliana» attraverso l’ombrello militare di Abramo. Una fase che certifica la morte di ogni prospettiva per così dire concertativa, basata cioè sulle relazioni e sul diritto internazionale. Una fase che al momento vede l’ascesa del cosiddetto «Asse della resistenza» sciita come unica forza in grado di portare una visione un minimo più larga dell’interesse singolo di ciascuno Stato, nell’incapacità dell’Unione europea di smarcarsi da una politica atlantica che da decenni allontana inesorabilmente le tre sponde del Mediterraneo.
*Marco Magnano, cooperante tra Libano e Siria con l’Ong Armadilla. Giornalista radiofonico dal 2010, collabora con testate italiane e internazionali. Co-autore e conduttore del podcast Il cielo sopra Pechino, dedicato all’Asia e alla Cina, da ottobre segue quotidianamente quanto accade a Gaza con un podcast audio e video chiamato Occhi aperti su Gaza. Marco Pagli, giornalista e scrittore, collabora con quotidiani locali, riviste cartacee e online su temi di economia dei territori e politica locale e internazionale. È autore di due libri sulla storia delle città. Dal 2022 è autore della pagina Marchez.
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