
(In)sensibili al potere
Il lavoro di Alberto Nerazzini ha un filo conduttore: studiare l’intreccio tra ricchezza e criminalità organizzata. Temi che un sistema informativo spesso legato ai potenti si rifiuta anche di prendere in considerazione
Alberto Nerazzini è uno dei più brillanti documentaristi e giornalisti investigativi Italiani. Noto per le sue inchieste sui paradisi fiscali, sul riciclaggio, sulla criminalità organizzata e sul sistema clientelare che governa la previdenza, il fisco, la giustizia e la sanità, Nerazzini ha lavorato a lungo in Rai a Sciuscià, Anno Zero e Report. Oggi lavora con la sua casa di produzione indipendente, la Dersu, ed è vicepresidente dell’associazione Dig che celebra il giornalismo investigativo e difende la libertà di informazione. Gli abbiamo chiesto di raccontarci come funziona il potere in Italia e quale sia il prezzo da pagare per la propria libertà di espressione, in una fase storica in cui il potere si serve dell’informazione per legittimarsi, arrivando spesso a difendersi proprio da quei giornalisti coraggiosi dal cui lavoro dipende la salute della democrazia.
Questo testo è uscito nel numero 11 di Jacobin Italia, Il nemico invisibile: lo rendiamo leggibile anche ai non abbonati in occasione dell’apertura del Dig Festival 2021, quattro giorni di incontri, proiezioni e dibattiti che come
ogni anno portano in Italia il miglior giornalismo investigativo mondiale. Il Dig Festival andrà in scena dal 30 settembre al 3 ottobre a Modena. Negli anni si sono alternati alla presidenza della giuria dei Dig Awards figure di assoluto prestigio come Naomi Klein, Gavin MacFadyen, Jeremy Scahill, Günter Wallraff e Alexander Nanau, il regista rumeno del film Colectiv (due nomination agli ultimi Oscar). In questi anni, Alberto Nerazzini e il team di Did hanno difeso il festival con le unghie e con i denti dagli attacchi politici, compensando spesso di tasca loro la cronica assenza di finanziamenti e di fondi con grandi sacrifici personali. È il momento di dargli una mano. Supportiamo Dig. A questo link, tutte le informazioni per difendere il giornalismo investigativo e la libertà di informazione.
Sei uno dei giornalisti più amati e temuti d’Italia, oltre a essere uno degli autori che più negli anni è riuscito a mettere a nudo il modo in cui qui opera il potere. Vorrei che ci aiutassi a capire la relazione tra informazione e potere in Italia a partire dalle tue inchieste. Partiamo da Il grande bluff, documentario uscito su Rai Tre nel 2015 nel quale ci conduci in un viaggio nel mondo sommerso dell’evasione e del riciclaggio. Il documentario si apre con le parole di Ronen Palan della City University di Londra, che ricorda come la crisi del debito del 2015 fosse l’altra faccia dei 30 mila miliardi che all’epoca erano depositati offshore e come la stessa crisi greca potesse essere rapidamente risolta con due sole succursali della Banca Hsbc. Ne Il grande bluff tu intervisti alcuni tra i personaggi più ricchi d’Italia, dal fondatore di Geox Moretti Polegato all’ex patron del Napoli Corrado Ferlaino, sino a Marcella Bella, accusata e infine prosciolta nell’ambito di una grande inchiesta per la quale è stato condannato il marito Mario Merello. Cosa significa occuparsi di offshore e riciclaggio in italia?
Il grande bluff doveva essere la prima puntata di una serie prodotta da Rai Tre e dedicata all’oscuro mondo dell’offshore. Purtroppo, il progetto fu ucciso nella culla e Il grande bluff è rimasto l’unica puntata della serie, oltre a essere una delle poche produzioni Rai che non si trova su Raiplay e che è stata cancellata anche da YouTube. In Italia occuparsi di offshore significa immortalare l’intollerabile consapevolezza di impunità dei potenti, forti di milioni di euro raccolti praticando l’inganno, e una macchina giudiziaria che spesso è contraddittoria e alcune volte complice.
Il Grande Bluff parte dalla lista trovata nel computer del fiduciario svizzero Fabrizio Pessina, arrestato all’aeroporto di Milano al ritorno da un torneo di golf in Spagna. Era una storia giudiziariamente chiusa che fece molto clamore e che aveva almeno due anomalie. La prima è che, nonostante fosse un’inchiesta chiusa, la procura di Milano ha rifiutato la mia richiesta di accesso agli atti. La seconda è che di liste Pessina in circolazione ce n’erano almeno tre, tutte diverse. L’unico modo per verificarle era prendere i nomi dei clienti accusati di evasione e andarli a cercare uno per uno, il metodo vecchia scuola che ho seguito. La cosa importante è che l’evasione fiscale è un inizio di narrazione. È il reato più classico, ma il vero scandalo è che nella maggior parte dei casi l’evasione fiscale è l’anticamera del riciclaggio. La frode fiscale è un reato gravissimo, nei confronti del quale la macchina della giustizia si mostra spesso debole, ed è uno dei reati presupposto del riciclaggio, che è il punto cruciale, il reato «principe» delle criminalità organizzate, davvero troppo ignorato dall’attività inquirente. Un po’ di dati allarmano e rendono l’idea: in Italia abbiamo un’evasione che è superiore al gettito fiscale annuale, quindi senza evasione saremmo ricchi il doppio. A causa della loro famigerata segretezza non è semplice fotografare la montagna di denaro custodita nelle giurisdizioni offshore, ma si stimano 30-40 mila miliardi di dollari. Infine, in tutto il mondo le forze dell’ordine intercettano solo l’1% del riciclaggio.
Perché hai deciso di dedicarti a temi così complessi già da giovanissimo?
Mi ha sempre interessato il potere. Anche le oltre 13 ore di 121269, il podcast che ho dedicato lo scorso anno alla strage di Piazza Fontana, rappresentano una lunga indagine sul potere.
I. F. Stone, scrittore e autore americano nato nel 1907 e punto di riferimento per i giornalisti investigativi, negli anni Settanta diceva «All governments lie», tutti i governi mentono. Ti faceva capire che il giornalista deve sempre mettere in discussione la posizione ufficiale, si tratti di un governo, di una multinazionale o del potente di turno. In Italia questa regola base non è sempre rispettata. I.F. Stone diceva anche: «Se qualcosa va storto con il governo, una stampa libera lo scoprirà e lo sistemerà. Ma se qualcosa va storto con la stampa libera, il paese andrà dritto all’inferno».
Sono equazioni semplici. Ma in Italia ci sono alcune grandi bugie. La prima riguarda il mito dell’oggettività del giornalismo. Un’altra patologia del nostro giornalismo è che dalle nostre parti la tesi nasce prima dello studio e prima della ricerca dei fatti che devono essere verificati. Il vero giornalismo è fatto di tesi e di punti di vista figli di mesi di ricerca, di incroci di dati, di fonti diverse. Un’altra cosa che mi manda fuori di testa è la contrattazione, la prassi per cui la materia giornalistica diventa materia di contrattazione. Su questo ne faccio proprio una questione di principio, perché nel momento in cui il contenuto del tuo lavoro diventa oggetto di contrattazione, e diventa legittimo negoziare cosa tenere e cosa tagliare, è già la fine. Questo mi ha portato a rompere dei rapporti di lavoro.
Tra le tue inchieste più note ci sono quelle sulla sanità. Già nel 2005 con La mafia è bianca tu e Stefano Bianchi mettevate in evidenza come la sanità fosse uno dei settori più remunerativi per la criminalità organizzata. Rivedendole ora queste tue inchieste, risulta paradossale come quando si parla di sanità in Lombardia l’unica cosa che non si nomina è la salute.
La sanità è uno dei temi su cui ho lavorato di più ed è un altro tema di potere. Perché fare il lavoro del giornalista vuol dire aiutare il tuo potenziale spettatore o lettore a capire le cause di una diseguaglianza che a volte non è nemmeno recepita. Invece la sanità è un luogo di potere, un luogo di riciclaggio e spesso un luogo di accumulazione indebita. L’Italia teorizza in maniera solenne il diritto alla salute nella Costituzione e ha un Servizio Sanitario Nazionale tra i più avanzati del mondo. Quindi faccio fatica a capire come possa esserci qualcuno che fa profitti forsennati nella sanità.
Tutto era nato quando ho fatto l’inchiesta sull’ex senatore e presidente della Regione Sicilia Totò Cuffaro, La mafia è bianca, dove gli interessi della politica e della mafia si incontravano e si intrecciavano proprio sulla sanità. Già a fine degli anni Ottanta c’erano sulla scrivania di Giovanni Falcone delle informative dove si documentava come la mafia siciliana da tempo avesse deciso di investire e riciclare nella sanità, partendo da un principio molto semplice: la droga genera grandi profitti, ma perché rischiare solo con la droga quando si possono generare altrettanti profitti senza sporcarsi troppo le mani, anzi facendo qualcosa di importante ed encomiabile, come una bella clinica?
Il sistema lombardo è l’avanguardia di tutto questo. Io credo che ancora non abbiamo capito bene le conseguenze di quanto accaduto negli anni Novanta, quando a livello legislativo si è creata l’istituzione dell’accreditamento e dell’incontro fra pubblico e privato nella sanità. L’ex presidente della Lombardia Roberto Formigoni è andato oltre perché ha messo privato e pubblico direttamente in competizione tra loro. Adesso credo che si cominci a capirlo, ma ormai è tardi. Nel frattempo il pubblico si è indebolito mentre i privati hanno realizzato utili clamorosi.
Dopo La Mafia è Bianca ti sei occupato a lungo della sanità in Lombardia, con La Cura e La Convenzione (2009), La Prestazione (2010), La Divina Provvidenza (2011), lavorando su questo tema con una decina di anni di anticipo rispetto ad altri.
La sanità è interessante anche perché nasconde una delle tante responsabilità di noi giornalisti: non aver spiegato bene com’è cambiata la corruzione in questi anni. Stiamo semplificando, ma nella Prima Repubblica il modello della corruzione prevedeva una gestione sistemica e centralizzata delle tangenti, che doveva necessariamente passare attraverso i vertici delle strutture di partito. Dopo Tangentopoli, la corruzione si è rapidamente «evoluta» attraverso modelli di frammentazione organizzata. Ecco, i miliardi del Fondo Sanitario Nazionale hanno sempre fatto gola a tanti, alle lobby e agli interessi più spregiudicati – che saccheggiavano, riciclavano, compravano consensi e scalavano anche i partiti – ma le funzioni e le risorse in materia sanitaria passate alle Regioni hanno in qualche modo anticipato il modello della frammentazione: con il Fondo Sanitario Regionale non c’è bisogno di andare a Roma. Il sistema Formigoni è un esempio di questo modello di corruzione.
La Divina Provvidenza, l’inchiesta su Don Luigi Verzè, il fondatore del San Raffaele, ha battuto ogni record d’ascolto perché conteneva tutti gli elementi, c’era la politica, con Berlusconi che volteggiava su tutta la storia, e c’era la sanità privata, considerata il simbolo dell’eccellenza lombarda. Eppure la nascita del San Raffaele ha più del criminogeno che del sanitario.
Del resto, l’origine degli imperi economici in Italia è spesso oscura, non sappiamo da dove arrivano i soldi, pensiamo alla parabola di Berlusconi o all’impero degli Angelucci, tutto costruito dentro la sanità, dove i soldi però li hanno fatti in tanti, da Ciarrapico a Rocca dell’Humanitas, passando dallo stesso De Benedetti che ha occupato il settore delle Rsa, un business enorme che durante la pandemia ha mostrato tutte le sue intollerabili debolezze.
Veniamo a Cassa Continua, trasmesso da Report nel 2014. In questa inchiesta guardi alle casse previdenziali, che in tutto rappresentavano all’epoca un patrimonio di 61 milioni. Stiamo parlando dei contributi previdenziali di medici, psicologi o giornalisti. In quel servizio metti in luce un complesso intreccio tra finanza e politica, che parte dalla Bocconi per mostrare come questi fondi vengano gestiti a danno dei contribuenti e a beneficio di privati e grandi banche d’investimento. Guardando i tuoi servizi insieme verrebbe da pensare che ciò che chiamiamo welfare, la previdenza la sanità l’istruzione, sia di fatto un bottino.
È una sintesi forte ma per certi versi è stato utilizzato da moltissime lobby come un bottino. Non era la prima volta, ma ricordo che Milena Gabanelli fece davvero di tutto per convincermi a non fare quell’inchiesta, che per me era invece necessaria perché avevo una fonte importante e c’era un problema abbastanza evidente che riguardava un miliardo di euro sparito dentro la sola Enasarco, la cassa degli agenti e rappresentanti di commercio. L’impressione da giornalista era che quello delle Casse fosse veramente un po’ l’ultimo bottino da saccheggiare. Dentro alle casse potevi trovare di tutto: il Vaticano, la criminalità organizzata, gli interessi dei partiti e della finanza più «creativa». Sono riuscito a mandarla in onda ma subito dopo ho deciso di lasciare Report per la prima volta, perché avevo avuto la prova di quello di cui parlavamo prima, di come un’inchiesta possa diventare materia di contrattazione, e lo trovavo insopportabile.
Qual è il costo politico della libertà di espressione? So che hai ricevuto decine di querele con richieste per milioni e milioni di euro. Sembra di vivere in un sistema di corruzione strutturale che attraverso il giornalismo si legittima, al punto che i giornalisti più lucidi vengono percepiti come pericolosi. È cambiato il giornalismo o cosa?
Non credo che il giornalismo sia cambiato. Certo, in Italia non ci sono editori puri e non ci sono esperienze come Mediapart in Francia, ProPublica o The Intercept negli Stati uniti, che ratificano l’indipendenza nel giornalismo. In Italia invece l’inchiesta è lasciata quasi esclusivamente nelle mani dei freelance, che sono i meno protetti e garantiti. La patologia si è sicuramente cronicizzata, però, se abbiamo bisogno di un Fedez per smascherare la schifosa ipocrisia del contemporaneo, dove non c’è nemmeno più bisogno di censurare, al «sistema» basta parlare di «inopportunità». Che lessico agghiacciante. Eppure è così che funziona, tutti i giorni dell’anno, non solo il primo maggio, e riguarda tutti. Anche nell’unica isola felice del giornalismo d’inchiesta, a Report, esiste l’«opportunità», e diventa conveniente occuparsi di temi non sensibili, perché il tuo lavoro è valorizzato allo stesso modo dal punto di vista del budget se ti occupi dei fondi neri dell’Eni o di cose molto più leggere, anche se ovviamente le competenze e i rischi in gioco non sono nemmeno paragonabili.
Poi altri pezzi importanti di complessità e di rispetto delle regole giornalistiche si sono persi per strada nella rincorsa dell’audience, a cui da noi, a suon di spettacolarizzazioni mostruose, partecipano tutti, anche programmi come Report.
Chi te lo fa fare di fare il giornalista d’inchiesta in Italia?
Quando ho cominciato l’accusa che mi veniva rivolta da colleghi era di essere un anarchico. Io non credo di essere anarchico però lo prendevo come un grandissimo complimento. Mi viene in mente Pier Paolo Pasolini, che in un’intervista rilasciata nel 1975 sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma diceva: «Nulla è più anarchico del potere. Il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da necessità di carattere economico, che sfuggono alle logiche razionali». Per l’ennesima volta Pasolini aveva ragione. «Nulla è più anarchico del potere», è esattamente così. Per questo se si vuole sfidare il potere un buon giornalista un po’ anarchico deve esserlo. Diciamo che almeno 8, 10 ore al giorno bisogna essere anarchici.
*Alberto Nerazzini ha lavorato in Rai con Sciuscià, AnnoZero e Report. Collabora con svariate testate straniere di inchiesta. Ha fondato la società Dersu che produce documentari e podcast ma anche investigazioni finanziarie e giornalistiche.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.