Intersezionalità e codeterminazione
Nel dibattito sulla combinazione di classe, genere e ‘razza’ si sviluppa l'idea, rilevante dal punto di vista politico, che queste componenti non solo siano destinate a incontrarsi, ma si formino continuamente assieme
Negli ultimi anni il concetto di intersezionalità ha avuto ampia diffusione nella teoria critica e nei movimenti sociali, da Black Lives Matter negli Stati uniti al movimento femminista transnazionale.
Pur essendo presente in forma embrionale in diversi testi precedenti, si pensi anche solo alla produzione teorica di Angela Davis, la definizione compiuta nel 1989 da Kimberlé Crenshaw – secondo cui le forme di dominio, in particolare patriarcato, capitalismo e razzismo, si esprimono concretamente in un sistema combinato – si è notevolmente sviluppata in tempi recenti.
Il dibattito su pregi e limiti del concetto di intersezionalità
Questo sviluppo, utilizzando le parole di Patricia Hill Collins, si spiega con l’efficacia che il concetto ha dimostrato di avere in più dimensioni: una migliore capacità di interpretare i fenomeni sociali rispetto ad approcci precedenti riferiti a singoli rapporti di dominio (marxismo ortodosso, femminismo essenzialista, Négritude ne sono alcuni esempi); l’abilità di rappresentare ciò che vuole esprimere attraverso metafore familiari, come nel caso dell’incrocio stradale (utilizzato da Crenshaw per rappresentare l’intersecarsi dei rapporti sociali e delle discriminazioni) invece di utilizzare concetti eccessivamente astratti; un taglio maggiormente concreto e volto alla risoluzione dei problemi di natura politica e non solamente teorica.
Sicuramente ha avuto la sua importanza, come notato da alcune critiche, la possibilità di far convivere all’interno dello stesso termine concetti molto diversi tra loro, a volte antitetici. Hae Yeon Choo e Myra Marx Ferree distinguono infatti tre possibili interpretazioni del concetto e della pratica intersezionale: una group-centered, che si focalizza e assume la prospettiva dei gruppi sociali che subiscono più di un’oppressione simultaneamente (la sua variante più diffusa è quella che pone al centro le donne nere); una process-centered, che indaga in che modo la combinazione tra le varie forme di oppressione finisca per influenzare e modificare ciascuna di esse, quindi come il razzismo incida sul sessismo e come il sessismo incida nei rapporti di classe e viceversa; infine una system-centered, che si concentra maggiormente sui sistemi sociali nella loro interezza, guardandoli come ambienti in cui le oppressioni sono forme di interazione, delle «regole» attraverso cui quegli ambienti funzionano.
Questa molteplicità di interpretazioni per Kathy Davis è la chiave del successo di un concetto che ha consentito al femminismo contemporaneo di superare i limiti di quello bianco occidentale. Allo stesso tempo però ha generato alcune perplessità e conseguenti critiche.
Eve Mitchell e Barbara Foley hanno visto nell’intersezionalità semplicemente una nuova veste, seppur complicata, delle stesse identity politics che si proponeva di superare, ossia di quelle teorie e pratiche che pongono al centro la prospettiva di identità sociali specifiche. La «questione di classe» viene infatti ridotta a semplice carattere tra i tanti, integrata in forma puramente descrittiva per evitare, sostengono Candace West e Sarah Fenstermaker ma anche bell hooks, che assuma la dimensione strutturale e prevalente avuta in buona parte del Novecento.
All’opposto, Vivian May e Naomi Zack vedono nella frammentazione del soggetto femminile in identità molteplici la disgregazione della possibile unità politica delle donne o, nel caso di Lena Gunnarsson, l’impossibilità di distinguere analiticamente il genere dalle altre dimensioni considerate.
In realtà, tutte le varianti del concetto di intersezionalità hanno in comune una rappresentazione che considera ciascuna dimensione come un’identità predeterminata, facente riferimento a rapporti di oppressione indipendentemente precostituiti che si intersecano in un determinato punto o sistema. Per Nira Yuval-Davis questo aspetto è assolutamente imprescindibile, perché la base ontologica di ogni oppressione è autonoma e riferita a sfere differenti dei rapporti sociali. David McNally al contrario ha definito tale approccio social Newtonism, ossia una visione della realtà sociale fatta di atomi discreti che si scontrano tra loro e non costituita dalle relazioni interne tra dimensioni non separabili nella realtà concreta.
Questa visione della realtà sociale composta di identità discrete, pezzetti che entrano in relazione con altri, risulta logicamente derivata dalla concezione liberale della società e dalle forme politiche di riconoscimento delle sue parti. In questo modo però si fa rientrare dalla finestra quel che l’intersezionalità ha tentato di mettere fuori dalla porta: sviluppata per superare una visione della società basata su identità separate che producono esclusione e per valorizzare le interazioni reciproche, si ritrova a fare i conti con un’atomizzazione della realtà sociale pressoché identica, ma lievemente complicata.
Inoltre, il concetto di classe concepito in quest’ottica non risulta particolarmente diverso da quello della prospettiva postmoderna. Come nel pensiero postmoderno la classe si riduce a una narrazione possibile tra le tante, così nell’intersezionalità fatta di dimensioni discrete non è altro che uno dei modi attraverso cui il dominio si esprime. Così ci si sposta da una nozione marxista di classe a una più generica di «classe sociale» che fa riferimento soprattutto alle disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza, alla distinzione tra ricchi e poveri più che al rapporto sociale che determina la produzione e la distribuzione del plusvalore.
Il concetto di codeterminazione
Anche Himani Bannerji condivide questa critica al concetto di intersezionalità, sostenendo che intendere l’ontologia sociale in modo frammentato finisce per cancellare il sociale dall’ontologia, che resta così una sommatoria di strutture (seppur tra loro connesse).
Per la sociologa indo-canadese è possibile distinguere le varie dimensioni del sociale solo su un piano analitico-concettuale e non su quello storico concreto. Una volta che latte e caffè sono mescolati nel cappuccino o il giallo e il blu compongono il verde, sostiene, non c’è modo di tornare indietro e distinguerli, perché divengono un unicum specifico e inseparabile. Fuor di metafora, laddove il processo storico sviluppa queste dimensioni in forma combinata, esse divengono un sistema unitario peculiare di un tempo e di uno spazio. Per questo Bannerji non utilizza il concetto di intersezionalità, ma quello di codeterminazione.
Cosa significa dire che classe, razza e genere non si intersecano ma si codeterminano? Significa che le oppressioni non sono semplicemente interconnesse attraverso collegamenti o sovrapposizioni esterne, ma che la loro costituzione interna è dovuta all’azione reciproca. Contorni e caratteristiche della classe sono determinati da come si sviluppano i generi e viceversa: nella realtà concreta non esiste una classe degenderizzata o derazzializzata, così come non esiste divisione di genere o razziale che sia separata dalla divisione sociale del lavoro. Il processo sociale a cui si fa riferimento non è di tipo aggregativo, ma formativo. Ossia non ci troviamo di fronte a due componenti che si incontrano in un dato momento, ma che si formano assieme e si definiscono necessariamente a partire da questa unità. In questo senso McNally parla di relazione interna e non intersezione esterna tra identità discrete.
Alcuni esempi concreti ci sono forniti dal lavoro di alcune storiche che a cavallo tra XX e XXI secolo hanno approfondito il rapporto tra classe e genere o anche dalla Teoria della riproduzione sociale di più recente sviluppo negli Stati uniti.
Joan Wallach Scott riporta in uno dei suoi più celebri testi il dibattito nella Parigi di metà Ottocento sulle modalità di svolgimento del lavoro di tessitura: con la diffusione del ready made aumentò la pressione sulle botteghe sartoriali e molti proprietari spingevano per poter impiegare forza lavoro occasionale domestica, in particolare femminile. Per opporsi a questo, le associazioni di categoria, che naturalmente avevano maggiori difficoltà a organizzare una forza lavoro non concentrata nelle botteghe, evidenziarono la necessità di mantenere il lavoro a bottega per una maggiore qualità del prodotto. Si creò così una dicotomia tra lavoro domestico/non qualificato e lavoro a bottega/professionalizzato che allo stesso tempo traeva significato da, e ridefiniva la, concezione della donna e del suo lavoro.
Altro esempio può essere rappresentato da Anna Clark, per la quale nella formazione, percezione e autopercezione della working class in Inghilterra ebbe un ruolo decisivo il processo di assimilazione e rifiuto del modello borghese del breadwinner, che separando la sfera pubblica/maschile da quella privata/femminile non definì solo il concetto di donna e il disciplinamento dei corpi che a esso venivano riferiti, ma anche quello di classe, facendola coincidere con l’operaio virile e nerboruto, con una conseguente esclusione nell’immaginario e nella politica di chi non rientrava in tale rappresentazione. Così le rivendicazioni nei luoghi di lavoro in termini di salari e diritti finirono per essere coerenti con tale modello, come poi denunciato dai movimenti femministi.
È il tema della stretta connessione tra ambito produttivo e riproduttivo, che in tempi recenti è divenuto il principale focus della già citata Teoria della riproduzione sociale, la quale sostiene che la separazione tra attività produttive e riproduttive sia una forma puramente analitica: sul piano concreto senza le seconde non si danno le prime.
Il rapporto di classe non è semplicemente un rapporto sociale tra gli altri né semplicemente una demarcazione economica, ma nella sua possibilità di dare accesso o meno al potere sociale distingue chi è in grado di soddisfare i propri bisogni e chi invece deve porsi in una situazione subalterna per poterlo fare. È in questa accezione della classe come istituzione sociale che si comprende secondo quale logica, ad esempio, le oppressioni di genere e razza siano organizzate capitalisticamente e dunque codeterminate dai rapporti di classe, così come i rapporti di classe facciano i conti con lo sviluppo storico dei generi o delle politiche razziali. I rapporti patriarcali e razziali formano e al contempo sono formati dalle dinamiche di espropriazione e accumulazione che redistribuiscono potere sociale.
Un ultimo esempio che possiamo fare è quello descritto dalle sorelle Karen e Barbara Fields che ricostruiscono la formazione storica e le modalità operative del razzismo negli Stati uniti a partire dalla pratica razzista agita o subita nella divisione del lavoro, negli ambiti di riproduzione sociale e culturale, nei piccoli aspetti della vita quotidiana. È l’esperienza diretta a produrre nel senso comune l’illusione della razza, incantesimo efficace a tal punto da renderla reale e allo stesso tempo da giustificare le disuguaglianze che essa stessa determina attraverso le credenze e i valori razzisti che plasma. Non è il razzismo a derivare dalla razza, ma al contrario è la razza a derivare da questo insieme di pratiche sociali in uno specifico sviluppo storico codeterminato da tanti fattori, dalla divisione sociale del lavoro all’organizzazione riproduttiva.
La politica della codeterminazione
Occorre infine tradurre il discorso finora fatto su un piano politico perché il tutto non si riduca a una precisazione teorica, interessante ma di esclusiva pertinenza accademica. Con una considerazione preliminare: quanto detto finora non vuole in alcun modo mettere in discussione l’utilità e la necessità di organizzarsi a partire dalle oppressioni specifiche. Tradurre linearmente un tentativo di teoria unitaria con uno spazio politico misto, privo di specificazioni, porterebbe al solo risultato di far prevalere ancora una volta gli attori sociali privilegiati, proprio perché della combinazione di cui la realtà concreta è composta tali oppressioni sono parte costitutiva.
Tuttavia, l’approccio intersezionale ha spesso sofferto di due problemi. In primo luogo, sul piano della traduzione politica laddove l’incontro tra dimensioni si dà in forma di sovrapposizione o sommatoria, l’intersezionalità rischia di focalizzarsi soprattutto su quelle figure che accumulano un numero maggiore di oppressioni. Così facendo però il riferimento si fa sempre più stretto a ogni dimensione aggiunta, con una tendenza a riferirsi al margine più che alla dimensione di massa. Se questa tendenza era già presente nel pensiero postmoderno e si spiegava anche con la sconfitta politica inflitta al conflitto di classe nel Novecento e con una marginalizzazione subita oltre che agita, oggi diviene più problematico proprio perché il concetto di intersezionalità sorge come tentativo di invertire tale tendenza piuttosto che per confermarla.
In secondo luogo, a livello organizzativo e rivendicativo, l’intersezionalità spesso assume come propria la forma della coalizione tra identità «pure», non di rado proponendo agli altri di convergere sul proprio terreno, con rivendicazioni che diventano una sommatoria espressiva di tutte le componenti, non così diverse dalle piattaforme onnicomprensive che aveva il Movimento dei Movimenti nei Social forum di inizio millennio.
Un approccio che guarda alla codeterminazione delle identità sociali mira al contrario a riconoscersi immediatamente l’un l’altra. Riconoscendo, ad esempio, come processi di liberazione femminista possano rappresentare direttamente avanzamenti sul terreno dei rapporti di classe e possibili inneschi per processi di natura più ampia, come accaduto in Argentina con gli scioperi di Ni una menos. O riconoscendo che un maggiore controllo sociale dell’organizzazione produttiva è funzionale e indispensabile a una diversa divisione sessuale del lavoro o a una sua derazzializzazione.
L’obiettivo non è fare di una parte il tutto o riproporre vecchie gerarchie ontologiche sotto altre vesti. Tuttavia, se consideriamo il capitalismo non semplicemente un modo di produzione economico ma, come dice Tithi Bhattacharya, «un ordine sociale complesso che istituzionalizza rapporti sociali di dominio», allora non solo l’organizzazione sociale va analizzata in termini immediatamente multidimensionali, ma anche la valenza data ai processi politici e alle dinamiche sociali che li attraversano deve seguire la stessa logica per non perdere efficacia.
*Daniele D’Ambra, attivista delle CLAP e dello spazio di mutuo soccorso Communia, è laureato in Storia contemporanea, con una tesi su Edward Palmer Thompson. Studia l’evoluzione del concetto di classe, in particolare nel rapporto con altre identità sociali.
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