Joker: la rivolta dei nuovi schiavi
Il disturbo psichico prolifera da quando il lavoro è diventato vessazione. Per questo il film di Todd Phillips è l’occasione per discutere di temi rimossi da almeno 40 anni e per distinguere tra risentimento e cambiamento
Joker è stato uno dei film più discussi degli ultimi mesi. La storia di Arthur Fleck, cabarettista a chiamata e pagliaccio precario affetto da una patologia mentale che lo porta a ridere sguaiatamente mentre vive ai margini della società, è diventata un simbolo per la capacità di porre l’accento su temi trascurati nel dibattito pubblico: la salute mentale, le condizioni di merda del lavoro contemporaneo e il bisogno di vendetta che accomuna segmenti crescenti della popolazione. Il suo successo, pur controverso, può essere visto come un’opportunità di discutere non tanto del film in sé, ma di questioni troppo a lungo accantonate, come la difficile relazione tra precarietà e salute mentale, e del modo in cui la mera sopravvivenza quotidiana è diventata, per troppe persone, simile a una pentola a pressione continuamente sul punto di saltare in aria.
Vandalismo neoliberale
Forse qualcuno ricorda le parole candide dell’amministratore delegato dell’Enel Francesco Starace, secondo cui per innovare e avere successo come impresa, bisogna «ispirare paura», «creare malessere», «colpire le persone in maniera plateale», e dato che «alla gente non piace soffrire», tutti si adegueranno in fretta. Ci allontaniamo forse dall’immagine del pagliaccio precario, continuamente vessato a lavoro, umiliato dagli sconosciuti, senza supporto per il suo disagio, se pensiamo a un luogo di lavoro come quello descritto da Starace, ma neanche tanto. Nella società dello spettacolo, in fondo, tutto è in funzione della performance, dai teatri al circo, sino ai magazzini Amazon. Un’inchiesta recente dell’Espresso si sofferma esattamente nel magazzino dell’e-commerce e descrive i 1.600 dipendenti incaricati di raccogliere le merci da impacchettare e inviare a chi le ordina on line come «pentole a pressione che scoppiano». Non sono solo i turni, i divieti o il costante cronometraggio il problema, ma proprio la vessazione, quell’idea di estrarre valore creando attivamente malessere e paura, per imporre produttività e disciplina. Scrive Maurizio Di Fazio in un brano dell’inchiesta: «Un buon 80 per cento delle contestazioni disciplinari è relativo ai tempi di percorrenza, nonostante gli ambienti siano smisurati. E le pressioni, spesso stupide e pretestuose, rappresentano la norma. Purtroppo aumentano i casi di lavoratori che a furia di subire vessazioni e umiliazioni a un certo punto perdono la testa e mandano tutti al diavolo. Pentole a pressione che scoppiano. Molti sono sotto psicofarmaci […]. Depressione e attacchi di panico non sono un’anomalia. Esistono figure pagate proprio per questo: per farti andare di matto. Agenti provocatori. Zelanti professionisti della prevaricazione psicologica. Cani da guardia, kapò che trascorrono la giornata a verificare che nessuno prenda un caffè, si faccia una passeggiata, vada in bagno per più di un minuto».
Racconti come questo sono all’ordine del giorno nel mondo del lavoro contemporaneo. È «un clima di lavoro inumano, in cui regna competitività, agonismo, continuo sospetto e, ancora più grave, la perenne minaccia che i coordinatori stagliano all’orizzonte: quella della perdita della commessa»: così Tommaso Moscara commenta un’inchiesta della Cgil nei call center di Trapani. «Non c’è umanità, te ne stai chiuso nella tua postazione che è già claustrofobica di suo. Sei costantemente cronometrato, ti fissano degli obiettivi e non c’è il tempo neppure per una chiacchiera da scambiare col tuo collega».
Eppure, in un’epoca in cui le commesse ci sono oggi e potrebbero non esserci domani, in cui il lavoro c’è oggi e potrebbe non esserci domani e in cui chi crea conflitto viene colpito «in maniera plateale», non c’è da stupirsi se, nel bene o nel male, c’è chi fa di tutto per mandare giù le critiche e continuare a obbedire. Non sorprende, come racconta Moscara, che «abbiamo assistito, negli ultimi tempi, a vere e proprie ‘farmacie’ accanto alle postazioni di alcuni call center. È stato registrato un aumento esponenziale di farmaci ansiolitici e all’insorgere di diversi tic nervosi dovuti alla pressione psicofisica dei dipendenti». «Per non parlare di tutti quei miei colleghi – aggiunge un lavoratore – che pur percependo stipendi bassi, si sono dovuti sobbarcare le spese di consulenze presso psicologi a causa dello stress e di questa continua, velata minaccia di perdere il lavoro se non si è abbastanza produttivi». Non è solo la pressione alla produttività che fa uscire di senno, è il continuo ricatto all’obbedienza, che trasforma il conflitto di classe in un conflitto interiore.
Sono io o stanno impazzendo tutti lì fuori?
Di fatto, non sappiamo cosa avviene nella vita psichica delle persone quando sono esposte a tanta pressione. Nel personaggio di Joker, ce ne facciamo un’idea quando lo guardiamo rientrare a casa, con un senso di fallimento apocalittico che si mescola all’isolamento politico per creare una miscela esplosiva di risentimento. Per certi versi, è questo uno dei problemi del mondo contemporaneo: ciascuno gestisce la propria pentola a pressione come può, spesso in una solitudine politica che è il riflesso della debolezza sindacale degli ultimi quarant’anni. Più di quanto avveniva in passato, è divenuto normale ricorrere ad ansiolitici, sonniferi e antidepressivi per convivere con un contesto tossico. L’ultima Indagine Ipsad dell’Istituto di fisiologia clinica del Cnr conferma che circa il 20% della popolazione italiana (11 milioni di persone) ricorre ad ansiolitici, sonniferi e antidepressivi. Per quanto frammentate e parziali, diverse analisi negli ultimi anni hanno messo in risalto in modo pressoché inequivocabile come le trasformazioni politiche degli ultimi trent’anni abbiano prodotto una condizione di disagio psicologico dentro e fuori i luoghi di lavoro. Il Guardian nel 2015 ha pubblicato una lettera firmata da 442 psicologi e psicoterapeuti per denunciare l’impatto del neoliberalismo sulla salute mentale collettiva sostenendo che l’austerità sta avendo un effetto «profondamente inquietante» sullo stato emotivo della società, che sottopone «chi richiede sussidi (compresi i disabili e i malati) e chi cerca lavoro a un regime disciplinare intimidatorio del tutto nuovo». Siamo di fronte – continua la lettera – a una società «completamente sbilanciata dalla tossicità emotiva del pensiero neoliberale […], i cui effetti angoscianti sono spesso più visibili nella sala di consulenza del terapeuta». La lettera era interessante perché richiamava all’eziologia sociale del disagio psichico, ma ricordava anche che in assenza di trasformazioni politiche queste problematiche vengono consegnate ai terapeuti su scala individuale, ammesso e non concesso che chi soffre il terapeuta se lo possa permettere.
La rivolta dei nuovi schiavi
La domanda è che cosa avviene quando questo disagio supera la soglia del controllo, quando, in altre parole, la pentola a pressione scoppia.
Negli Usa c’è un nome per questo, il disgruntled employee: è il ritratto psichico della pentola a pressione ed è una specie di mina vagante, perché descrive il lavoratore che si aggira nel mondo con un turbine di passioni tristi che non riesce a tenere a bada. Ne scriveva Mark Ames in Social Killers. La rivolta dei nuovi schiavi (Isbn, 2009). Nel libro, Mark Ames indagava la strage del 1986 nell’ufficio postale di Edmond, Oklahoma, per capire le ragioni per cui ogni tanto, in un qualche luogo di lavoro, qualcuno just snaps, semplicemente perde la testa. Negli Stati Uniti questo fenomeno si chiama going postal, la sindrome dell’ufficio postale, a richiamare i massacri che si erano diffusi negli uffici postali degli Stati uniti a partire dal 1986, dopo la riforma della governance dell’amministrazione Reagan. È allora che Patrick Sherrill il 20 agosto 1986 torna nell’ufficio postale in cui lavorava armato di due semiautomatiche, uccidendo quattordici persone prima di suicidarsi.
Lo scorso anno, la rivista Mother Jones ha compilato un foglio excel con la lista delle stragi eseguite negli Stati uniti negli ultimi 35 anni. Le stragi indicate erano 98, ed erano avvenute anzitutto nelle scuole e nel luogo di lavoro. Il punto di Mark Ames era esattamente questo: ciò che non viene detto in queste stragi per rabbia è che in molti casi hanno ragioni politiche oltre che psichiche. Il caso degli uffici postali era, da questo punto di vista, paradigmatico, perché, scrive Ames, «prima di Reagan, la sindrome da ufficio postale o le stragi per rabbia nelle scuole nemmeno esistevano… Quando Reagan nel 1981 licenziò i controllori di volo in sciopero, disse all’America che aveva letteralmente intenzione di ucciderci se non accettavamo il suo piano di trasferimento della ricchezza». È in quel momento, osserva Aimes, che sono iniziate queste stragi, nel momento in cui la cultura aziendale è diventata un sistema di vessazione fatto di ricatti, tagli allo stipendio, punizioni esemplari, controllo reciproco, paura e crudeltà.
Lungi da essere in alcun modo una giustificazione, il punto è che la distopia del risentimento di classe messa in scena a Hollywood con Joker non dice nulla di nuovo, è solo che nessuno vi ha prestato attenzione per quarant’anni.
Disinnescare la crudeltà del mondo
Due secoli fa, quando gli schiavi fuggivano dalle piantagioni, venivano considerati affetti da «drapetomania», termine elaborato da Samuel Cartwright per indicare la patologia mentale che induce lo schiavo alla diserzione. Cartwright aveva elaborato misure preventive per la drapetomania, come «una violenta dose di frustate» e la rimozione dei due alluci, per rendere impossibile la corsa. Ieri come oggi, era molto più conveniente chiamarla malattia mentale che schiavitù.
Se prendiamo Joker come un’opportunità per discutere di questioni troppo a lungo accantonate nel dibattito pubblico, vi sono alcune conclusioni che possiamo trarre. La prima è che il disagio psichico odierno non può essere compreso a prescindere dalla cultura della crudeltà normalizzata dal vandalismo neoliberale. È solo evidenziando le condizioni strutturali della violenza odierna che diventa possibile iniziare a cogliere quale bisogno viscerale di cambiamento sociale viva nel disagio contemporaneo. Questo bisogno viscerale di radicalità non è affatto monopolio della destra. L’estetica della vendetta messa in scena da Joker dà la parola al risentimento di classe, ma non lo risolve. L’odio, scriveva Hannah Arendt, «è senza dubbio antico quanto la storia e forse anche più antico, ma è incapace […] di afferrare l’idea centrale di rivoluzione, che è l’instaurazione della libertà».
Non sarà l’estetica del risentimento a portarci fuori dalla situazione in cui siamo, ma la capacità collettiva di intercettare l’urgenza di cambiamento che vive nella parte sana della nostra società. Quella parte che, per dirla con Audre Lorde, se non sta bene è perché non riesce più a ignorare la crudeltà del mondo.
*Francesca Coin, sociologa all’Università di Lancaster, si occupa di lavoro, moneta e diseguaglianze.
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