Ken Loach la racconta giusta
Il regista che ha messo in scena con precisione da inchiesta e passione romanzesca i drammi e le speranze di quelli che stanno in basso ci parla delle aspirazioni della gente, fuori dagli stereotipi degli spin doctor
Ken Loach è seduto di fronte a me a Brighton. Beve un succo d’arancia nell’angolo in ombra di un tranquillo pub dalle pareti rivestite di legno. Ha un’aria un po’ cupa, perché è deluso dai media. «La mancanza di attenzione e il fango che gettano contro il Labour, è un grosso problema – dice – Il Guardian è in prima linea in questi attacchi. Ed è il più pericoloso, perché viene letto da persone di sinistra».
Jonathan Freedland, editorialista del quotidiano, ha attaccato Loach per aver difeso Corbyn dalle false accuse di antisemitismo, imputandogli di «aver legittimato la negazione dell’Olocausto». Loach ha chiesto il diritto di replica, ma il Guardian prima ha preso tempo, poi ha sostenuto che fosse troppo tardi per pubblicare una risposta. Tuttavia, quando chiedo a Loach come vede il Labour Party, rinato sotto la guida di Corbyn, cambia espressione. «È una speranza», dice con un sorriso tranquillo.
Dopo decenni di desolazione, nonostante le nubi all’orizzonte, sembra che Loach – alla pari di Corbyn – stia finalmente godendosi un posto al sole. Nel 2016 il suo film per la televisione Cathy Come Home, una delle opere più famose del regista britannico, ha compiuto cinquant’anni. Per celebrare l’anniversario sono stati commissionati una serie di eventi, tra cui conferenze, seminari e adattamenti teatrali. I temi del film – l’indigenza, i senzatetto, la ritirata dell’azione pubblica dello stato – sono ancora oggi problemi della società britannica. Gli homeless sono aumentati bruscamente col regime di austerità istituito dalla coalizione di Conservatori e Liberaldemocratici. Gli scarsi risultati del New Labour degli anni di Blair nel settore dell’edilizia popolare, assieme alla sua attitudine rilassata nei confronti di chi estrae profitti dal mercato immobiliare, hanno solo contribuito all’accentuarsi della crisi.
«Avevamo la sensazione che stesse avvenendo qualcosa di allarmante e questa sensazione è diventata più forte quando andavamo in giro con Corbyn e vedevamo in che condizioni le persone senzatetto erano costrette a vivere», racconta Loach, tornando indietro al 2006. «Gli alloggi di queste persone erano terribili. Le stanze fornite dalle istituzioni erano divise in scatole di cartone dove poteva essere parcheggiata anche un’intera famiglia. Provavamo una sensazione di povertà estrema. Una volta consapevoli di questo, sapevamo anche di avere una storia da raccontare».
Se anche il pubblico fosse così scioccato di fronte a quello spettacolo, Loach l’avrebbe saputo solo dopo I, Daniel Blake, il film del 2016 su un carpentiere rimasto disoccupato e costretto a rivolgersi al banco alimentare per gli indigenti. Il film ha diviso l’opinione pubblica. Per molti era un duro colpo allo stomaco, un’accurata descrizione della vita ai margini dell’austerità dei Tory e delle sanzioni collegate ai benefici pubblici. Ma a destra i più devoti sostenitori del governo erano critici e inveivano contro un film che consideravano stucchevole e inverosimile.
«Avevamo la sensazione di aver trovato una storia importante, perché storie come questa non vengono raccontate all’opinione pubblica – mi dice Loach, dopo una breve pausa – Eppure centinaia di migliaia di persone vivono così. E nessuno può fare a meno di esserne colpito. Noi avevamo la sensazione di avere una storia perché grazie al cinema, che è un mezzo potente, siamo connessi con le persone».
Camilla Long, una critica cinematografica con origini aristocratiche, ha detto che il film non ha quasi nulla di vero. Toby Young, giornalista caduto in disgrazia, figlio di un ex membro della Camera dei Lord, Michael Young, è d’accordo sul fatto che sia «difficile credere» alla pellicola. Le critiche sono condivise da Iain Duncan Smith, l’ex segretario alle politiche su Lavoro e Pensioni, responsabile delle avversità descritte in I, Daniel Blake.
Le differenze nella ricezione dei due film, in epoche diverse, sono marcate. Quando Cathy Come Home uscì, nel 1966, pubblico e politici erano commossi da un regista che dava un volto umano a un noto problema sociale. Lo sfratto di Cathy e la sofferenza dei suoi bambini convinsero molti della necessità di prendere dei provvedimenti.
Al contrario, la ricezione di I, Daniel Blake ci mostra che chi sta oggi al potere è un estremista che rimane imperturbabile di fronte alle sofferenze provocate dalle proprie politiche. Dopo che il film ha vinto la Palma d’oro al Festival di Cannes, Loach e la sua produttrice, Rebecca O’Brien, hanno dichiarato che avrebbero potuto facilmente scegliere un racconto anche più strappalacrime, perché ce n’erano in abbondanza, ma dopo aver passato dei giorni al banco alimentare dei poveri ad ascoltare storie, hanno scelto di concentrarsi su una situazione che potrebbe accadere a chiunque.
Lo sfratto di Cathy è una situazione estrema. Daniel Blake invece rimane prigioniero di un incubo burocratico mentre prova ad accedere ai sussidi sociali. Paul Laverty, che da tempo collabora alla scrittura dei film di Loach, mi dice: «L’hanno ignorato fino a quando non ha vinto la Palma d’oro, poi si sono lanciati all’assalto, soprattutto contro Ken, sostenendo che non amasse il suo paese. L’hanno criticato, ma non potevano dire che non eravamo stati precisi».
Sorry We Missed You, l’ultimo film di Loach, uscito nel 2019, si concentra su una coppia di lavoratori precari – la moglie si occupa di lavori di cura, il marito fa il corriere – e racconta come un piccolo incidente li fa precipitare dalla sopravvivenza alla rovina economica. «Il film mostra la parte finale delle ultime privatizzazioni – dichiara Laverty – Quando le persone sono atomizzate, frammentate, quando stanno per conto loro, ingoiano il boccone della privatizzazione. È un grande gigante capace di evocare trucchi infidi, perché addossa ogni responsabilità al corriere».
Il film sceglie deliberatamente di affrontare il tema del lavoro e della gig economy. Dopo il successo di I, Daniel Blake, che ha fatto vedere come povertà e diseguaglianze rimangono problemi delle persone, dentro e fuori il lavoro, Sorry We Missed You mostra come la tecnologia stia rendendo il lavoro più difficile e meno sicuro, mentre le aziende risparmiano soldi. Il linguaggio usato dalle società di spedizioni in stile Amazon, con parole come onboarding e owner-driver-franchisee, assieme alle nuove tecnologie della sorveglianza, de-umanizzano i personaggi. E rimane poco spazio per le malattie, per i contrattempi, per le emergenze familiari, o anche solo per riprendersi dopo esser rimasti vittime di un crimine violento collegato all’ambiente di lavoro precario.
Adesso Loach si concentra soprattutto su lungometraggi, ma nei suoi cinquantacinque anni di carriera ha realizzato anche documentari e lavori per la televisione. Nonostante abbia studiato legge all’università di Oxford, la sua svolta è legata alla realizzazione degli episodi del programma della Bbc The Wednesday Play, realizzati con Tony Garnett, un altro suo assiduo collaboratore, nato, come Loach, nel 1936. «Non ci controllavano in maniera puntigliosa – mi racconta Loach – Lavoravamo per Jimmy MacTaggart, un iconoclasta che si divertiva a provocare l’establishment. Ci avevano concesso di andare in onda in un’ora di punta, il mercoledì, dopo il telegiornale delle 21. Volevamo che il pubblico usasse lo stesso occhio critico con cui guarda il telegiornale. Quel lavoro è stato un punto di svolta e ha plasmato tutto quello che ho fatto da allora in avanti».
Il lavoro di Garnett e Loach con The Wednesday Play e Play for Today è continuato per tutti gli anni Sessanta. Hanno lavorato drammatizzando alcuni romanzi dell’autore Barry Hines, concentrando la loro attenzione sulle difficoltà sociali ed economiche delle vite delle persone nell’Inghilterra del nord. Di questi film, Kes, del 1969, rimane il più memorabile: presenta l’isolamento dei bambini più grandi e degli adolescenti, con uno sguardo esplicitamente politico, che non si nasconde di fronte alla crudeltà e al deserto di umanità che la desolazione economica ha inflitto a quell’area.
Kes è la storia di un ragazzino di classe operaia che sfugge alle durezze della vita dedicandosi alla falconeria con un piccolo gheppio che ha trovato in un nido. Addestrando il rapace, la relazione tra lui e l’animale si sviluppa e il ragazzo comincia a uscire dal suo guscio. Quella gentilezza di spirito, il suo rapporto col volatile e la tragedia finale ancora vibrano in chi guarda il film a distanza di decenni.
Sebbene Loach abbia mosso i suoi primi passi alla Bbc e ricorda con orgoglio gli anni di MacTaggart, non nutre illusioni sulle condizioni attuali di quell’istituzione: «È un braccio dello stato, gestito come la polizia, in maniera monarchica. E ogni tanto vedi che la maschera cade dal volto della Bbc. Lo vedi quando parlano dello sciopero dei minatori, o lo vedi nel documentario Panorama contro Corbyn, accusato di antisemitismo: è pura, pura disinformazione, era così sbilanciato da infrangere lo statuto della Bbc».
L’attivismo politico di Loach prende le mosse nello stesso periodo in cui comincia la sua carriera alla Bbc: «Sono entrato nel Labour Party nel 1964 per sostenere il governo di Harold Wilson, ho volantinato dalle parti di Hammersmith, nel West London. Mi ci è voluto almeno un anno per cominciare a fidarmi di quell’attivismo, poi io e tutti i miei amici siamo passati alla sinistra anti-istituzionale». Secondo Loach ci sono alcuni periodi in cui in maniera simultanea si percepisce la speranza del cambiamento e l’impatto della crisi, periodi che incoraggiano più di altri proteste e risultati creativi, come l’apice del thatcherismo, gli anni Sessanta e i nostri giorni. «Penso che nei frangenti della crisi le persone sono incoraggiate a scrivere, a creare, a comporre canzoni. Lo sciopero dei minatori è un esempio lampante. C’erano gruppi di scrittura creativa che sorgevano nei paesi minerari, una cosa che non si vedeva da decenni. E oggi c’è anche una connessione con i più giovani, il bisogno di esprimere rabbia e disperazione. Penso che ci troviamo di fronte un movimento in crescita. C’è un sentimento d’indignazione concreta. Ovviamente il trucco escogitato dall’establishment è quello di deviare queste energie. Gli anni Trenta ne sono un esempio orribile, ma anche ai nostri giorni questa sorta di deviazione indotta, di transfert, sposta la tua rabbia per la situazione che vivi dalla vera causa che l’ha prodotta verso i migranti, o verso qualche altro gruppo differente. L’establishment incanala in qualche modo il tuo risentimento verso i migranti». Su questo punto si riscalda e muove le braccia per sottolineare il suo ragionamento.
Più di ogni altra cosa, Loach si fida del suo pubblico. Non banalizza mai le sue fonti, perché pensa che gli spettatori considerino interessante la condizione degli operai londinesi, le lotte dei sindacalisti, o le motivazioni politiche dei volontari britannici che combatterono in Spagna contro il fascismo. Perché di rado queste esperienze vengono messe in scena, ma anche perché l’empatia umana è più profonda di quanto vogliano ammettere molti produttori cinematografici e revisori di bilancio.
In Terra e libertà, il suo film del 1995 sulla Guerra civile spagnola, Loach si immerge nelle lotte intestine settarie che hanno afflitto molti gruppi che si opponevano alle forze di Franco. Nel suo documentario del 1981, A Question of Leadership, Loach ha intervistato a lungo svariati membri della Iron and Steel Trades Confederation sullo sciopero di 14 settimane. Nei suoi film affronta in maniera esplicita il tema dei diritti sul lavoro, come nel caso di Riff-Raff (1991). «Ci sono stati due decenni particolarmente duri per il cinema. Negli anni Settanta si facevano pochi film in Gran Bretagna. Il decennio peggiore è stato quello degli anni Ottanta, un decennio di ascesa dell’estrema destra». In un’intervista a Derek Malcolm, Loach dichiara: «Non facevo davvero film per il cinema, perché la gente non prestava attenzione a quei film. Venivano commissionati e calendarizzati film sulle relazioni industriali, che poi venivano ritirati per ragioni politiche, solo perché facevano vedere la polizia che picchiava la gente. Quando le classi dominanti si sentono minacciate, serrano le fila».
Loach e i suoi colleghi di sinistra nella Bbc degli anni Sessanta potevano scrivere soggetti quasi senza restrizioni. Il thatcherismo ha cambiato le cose. Un documentario di Loach sullo sciopero dei minatori del 1984, Which Side Are you on?, è stato rifiutato da Itv per il fatto di essere troppo schierato, poi venne trasmesso da Channel 4, dopo aver vinto un premio in Italia. All’epoca Loach osservò con sarcasmo: «È chiaro che solo chi è consenziente con il governo può commentare una lotta tanto importante quale quella dei minatori». Loach ha diretto svariati film – molto apprezzati – negli anni Novanta, anni dominati da John Major e Tony Blair, ma ha lottato con fatica per ottenere finanziamenti e un’audience popolare. Tutto è cambiato con la sua prima Palma d’oro vinta nel 2006 con Il vento che accarezza l’erba, una rivisitazione drammatica della Guerra d’indipendenza irlandese e della Guerra civile. Si tratta di uno dei pochi film di rilievo che abbiano mai raccontato questi episodi storici. Anche la fotografia – con i campi color verde smeraldo che ondeggiano e le colline nebbiose dell’Irlanda – è più espressionista e solida delle opere precedenti, caratterizzate da uno sguardo ruvido.
All’inizio la circolazione del film in Gran Bretagna non aveva destato grande interesse: erano state ordinate solo 30 copie per le sale britanniche (300 ne giravano in Francia) ma la pubblicità legata alla vittoria della Palma d’Oro – e l’indignazione della destra – contribuirono a far crescere la curiosità attorno alla pellicola. Come era successo con il suo film del 1990 che mostrava la collusione dello stato con i Troubles nell’Irlanda del Nord (Hidden Agenda), i critici denunciarono l’opera come antibritannica. Ad ogni modo il critico Simon Heffer venne deriso per aver ammesso di non averlo visto: «Non l’ho visto, non ho bisogno di leggere il Mein Kampf per sapere che Hitler era un tipo spregevole». Il confronto con Hitler dell’istrionico giornalista non ha scalfito il successo del film, come in seguito gli attacchi di rabbia della destra attorno a I, Daniel Blake hanno aumentato l’interesse verso il film.
Il documentario di Loach del 2013 The Spirit of ’45, che cuciva ritagli di riprese amatoriali con repertori d’archivio e minuziose interviste orali, ha guadagnato grandi consensi. Esplorava gli anni della costruzione del welfare state e del Nhs, il sistema sanitario pubblico inglese, mostrando come i governi degli anni postbellici abbiano costruito milioni di edifici popolari, svuotando gli slum delle città. Alcuni si sono lamentati per il fatto che Loach abbia virato verso toni sentimentali e ipernostalgici, ma il naturalismo e il tocco leggero dei movimenti di macchina in realtà evitano questo esito. «Dopo gli orrori della guerra, in Gran Bretagna si respirava un’atmosfera particolare. Quando la guerra finì, ci si domandava: ‘Non vogliamo tornare agli anni Trenta, come facciamo?’». Loach ha dichiarato al Guardian, in merito all’uscita del film: «Furono costruite case dignitose per la classe operaia, c’era la sensazione che si potesse lavorare assieme. L’atmosfera non era tanto diversa da quella di adesso: da tempo non c’erano grandi lotte industriali, eppure la gente continuava a soffrire».
Il documentario coglie gli umori dei giovani che cercano disperatamente un’alternativa, come molti loro omologhi statunitensi che si ispirano a Bernie Sanders quando invoca un ritorno alle politiche del New deal. All’epoca Loach era un membro del Respect Party, poi ha aderito al progetto di Left Unity, e The Spirit of ’45 coglieva quello zeitgeist. Quando uscì I, Daniel Blake, Corbyn aveva conquistato la leadership del Labour e il regista inglese era rientrato nel partito laburista.
I suoi ultimi film sono stati ben accolti, hanno attirato l’attenzione da parte dei media e della critica, e sembrano perfettamente in sintonia con lo scenario politico del Regno Unito dei nostri giorni. Tuttavia, Loach è preoccupato dalla direzione che il paese può prendere, soprattutto dopo il referendum del 2016 che, nelle sue parole, sembra bruciare tutto l’ossigeno nella stanza. «Adesso è questo il grande pericolo, il pericolo della Brexit. Tutti i problemi che abbiamo – la precarietà della classe lavoratrice, le diseguaglianze, le aree del paese dimenticate come il nordest, il collasso del sistema sanitario, la privatizzazione di molti servizi del Nhs, l’aumento degli homeless… Le persone sono arrabbiate, agitate, preoccupate per tutti questi problemi. Ma si parla solo di Brexit».
Eppure il regista non è pessimista. Laverty e Loach si sono incontrati al Congresso del Labour Party e si sono dichiarati sinceramente entusiasti della direzione del partito, della ricezione che il loro film ha avuto e della prospettiva di un eventuale governo di Corbyn, capace di portare a termine un cambiamento di cui si sente disperatamente la necessità. Dopo anni di desolazione, prima col thatcherismo, poi con il New Labour, adesso sia la sinistra che la carriera di Ken Loach sembrano essere tornate in ascesa. Quest’anno al Congresso del Labour le proiezioni dei film di Loach erano gremite di persone. Mentre cammino con lui per le strade di Brighton, viene avvicinato ripetutamente dai passanti. Alcuni sono attivisti del partito, altri sono persone che vivono ai margini.
A causa della crudeltà dei conservatori e dell’estrema destra, l’opera di Ken Loach e la sinistra del Labour Party stanno trovando un pubblico sempre più numeroso e ricettivo. Secondo Loach, chi attacca lui e Corbyn lo fa perché ha paura. «Il Labour Party dominato dalla corrente di destra è stato complice di ogni cambiamento al ribasso. E adesso abbiamo forse il primo leader di sinistra nella storia del Labour Party. Se Corbyn e John McDonnell, che dobbiamo considerare come una squadra, riusciranno a realizzare ed estendere il loro programma, allora potremo cominciare a trasformare la società, potremo tornare a rappresentare gli interessi dei lavoratori, cosa che il Labour non ha mai fatto prima». Mentre pronuncia questa frase, alza la voce e diventa più appassionato, e il suo timbro è ottimista quanto le sue parole. «È un evento sismico. Per questo l’establishment ci attacca con tanta ferocia».
*Dawn Foster, staff writer di Jacobin, è anche editorialista per il Guardian. Ha scritto Lean Out, sul rapporto tra patriarcato e capitalismo.
La traduzione è di Alberto Prunetti.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.