La grande bellezza delle case popolari
In tutto il mondo ci sono case popolari architettonicamente all’avanguardia che dimostrano come il diritto all'abitare possa essere esteticamente appagante
La cultura statunitense è ormai assuefatta all’idea che le case popolari debbano essere inevitabilmente deprimenti: non tanto posti in cui vivere, quanto spazi in cui passare le notti mentre ci si immagina di fuggire altrove, o ancora luoghi in cui ci si rassegna a vivere in condizioni di povertà, senza prospettiva alcuna, invisibili agli occhi degli altri.
L’opinione per cui le case popolari sono soltanto una forma di spreco di denaro pubblico, stupida e pericolosa, favorisce soltanto coloro che di una casa popolare non avranno mai bisogno. I palazzinari, i grandi proprietari, le banche, e in generale le persone benestanti che non amano pagare le tasse sono i principali beneficiari del nostro pessimismo e della nostra mancanza di immaginazione in quest’ambito. Li spaventa e li infastidisce pensare che un giorno potremmo addirittura concepire l’edilizia pubblica non come una soluzione d’emergenza per i più disagiati, ma come un’ambiziosa soluzione a lungo termine, un’alternativa preferibile all’atomizzazione, all’insicurezza, al ricatto infinito del mercato immobiliare privato – e cioè, che potremmo costruire case popolari così belle da far sì che le persone smettano di chiedere mutui o pagare affitti per vivere da altre parti.
Non solo: avrebbero di gran lunga preferito che non avessimo mai scoperto la cosiddetta Vienna Rossa, o Le Lorrain a Bruxells, o Sa Pobla a Mallorca, e nemmeno lo splendore delle case del BritishCouncil. Tutti esempi di case popolari che hanno dimostrato, nel passato come nel presente, che l’edilizia pubblica può essere sicura, bellissima e piena di vita, a prezzi accessibili per tutti e tutte.
Vienna Rossa (Red Vienna)
Per i capitalisti, i cui profitti derivano essenzialmente dall’estrarre più valore possibile dagli appezzamenti di terra e dalle case, qualunque tentativo di aumentare le aspettative sull’edilizia popolare è percepito come una minaccia alla loro stessa esistenza. E non c’è niente che aumenti tali aspettative più velocemente del ricordo della Vienna Rossa, il fiore all’occhiello dell’edilizia popolare di epoca moderna.
La costruzione di alloggi popolari per i viennesi di inizio secolo fu il frutto di una lunga battaglia, capitanata – e non soprende – dai socialisti. Un robusto movimento di lavoratori e la rispettiva leadership socialista si erano infatti già sviluppati in Austria a partire dagli inizi del diciannoversimo secolo, ma fu soltanto dopo la fine della Prima Guerra Mondiale che il socialismo austriaco riuscì a dare il meglio di sé, sfruttando lo spazio politico lasciato vuoto dal collasso della monarchia austro-ungarica. Nel 1919 il Social DemocraticWorkers Party prese il potere a Vienna, stabilendo subito un ambizioso programma di riforme.
Il governo socialista della città impose tasse pesanti ai più ricchi e, a partire dal 1923, usò il gettito che ne derivò per sostituire agli slum sciatti e sovraffollati delle case popolari moderne, pensate appositamente per le famiglie lavoratrici. Avendo l’esplicito intento di sottrarre il settore immobiliare dalle grinfie del mercato a vantaggio della workingclass, i socialisti non lesinarono affatto sulle offerte. Al contrario, diedero vita a edifici meravigliosamente progettati e splendidamente costruiti, molti dei quali avrebbero resistito all’assalto del tempo. La loro costruzione divenne anche un modo per creare posti di lavoro pubblici e sindacalizzati, aiutando la ripresa economica post-bellica.
Le case popolari della Vienna Rossa furono pensate non come un luogo dove i lavoratori potessero semplicemente ricaricare le batterie tra un turno e l’altro – che Barbara Ehrenreich ha giustamente definito una «scatola di sardine per lavoratori» – ma come un posto in cui vivere. La magnificenza degli appartamenti includeva giardini frondosi, grandi spazi aperti, e luce naturale in abbondanza. Le case erano inoltre collegate, se non proprio incluse, in un circuito di scuole pubbliche e negozi cooperativi. Molte palazzine comprendevano addirittura bagni pubblici e piscine, centri per l’infanzia e per la salute, farmacie, uffici postali e librerie.
Il complesso residenziale più grande di tutta la Vienna Rossa, il Karl Marx-Hof, fu usato come fortezza contro i fascisti nelle prime schermaglie della Seconda Guerra Mondiale. I socialisti opposero una valida resistenza, ma Vienna cadde lo stesso. Ciononostante, il ricordo delle bellissime case popolari è rimasto vivo: per i cittadini di Vienna l’idea che una casa debba essere o privata o scadente è stata sconfessata per sempre. Vienna ha infatti continuato a costruire case popolari desiderabili anche dopo la guerra, e oggi il 62% dei residenti vive in alloggi popolari, rispetto al 5% di città come New York.
«Abbiamo questa idea antiquata, per cui anche chi non è ricco ha diritto a vivere in condizioni dignitose», dice un residente cinquantenne delle case popolari di Vienna. «È un’idea importante, che non dobbiamo abbandonare».
Il BritishCouncilHousing
Nel 1979, il 42% degli inglesi viveva in una casa popolare. Il grande e a suo modo coraggioso aumento del numero di case popolari nell’Inghilterra post-bellica non era certo la spia di una miseria crescente. Al contrario, era il frutto di un secolo di riforme, visioni politiche e lotte della working-class. Alcune delle case popolari erano di modesta fattura, ma altre – come la deliziosa ed eccentrica Boundary Street Estate di fine secolo, o le impressionanti costruzioni moderniste progettate dall’architetto comunista BertholdLubetkin – erano state studiate per coniugare una grande vivibilità con il fascino architettonico.
Le case popolari inglesi furono finanziate dalla tassazione progressiva, parte di un accordo ottenuto dai social-democratici sottolineando come fossero proprio gli inquilini delle case popolari, attraverso il loro lavoro, a permettere l’accumulo di grandi fortune private. Naturalmente la classe dominante non riuscì mai a farsene una ragione. E così, quando la recessione globale del 1973 scosse il sistema economico dalle fondamenta, i capitalisti e i loro alleati politici si lanciarono sulle opportunità che quella crisi stava aprendo. Negli anni Settanta iniziò il processo di definanziamento dell’edilizia popolare – spacciato come misura razionale di taglio delle spese e conseguenza inevitabile della recessione – seguito negli anni Ottanta da una privatizzazione pressoché totale.
Quando la Thatcher salì al potere nel 1979, fu molto rapida nel promulgare leggi che permettessero agli inquilini di comprare e persino vendere le proprie case popolari – un modo molto astuto per far assorbire dal mercato privato una fetta importante di edilizia pubblica e ristabilire la supremazia del capitalismo. Da quel momento in poi, gli inquilini con un reddito basso hanno visto assottigliarsi sempre più i meccanismi di protezione, mentre gli affitti iniziavano a lievitare.
Oggi i costi legati all’abitare stanno erodendo sempre più i salari in tutto il Regno Unito, e molti di quelli che erano cresciuti nelle case popolari iniziano a provare nostalgia per un periodo in cui il potere contrattuale della workingclass metteva al riparo i lavoratori e le lavoratrici dai capricci del mercato immobiliare. Ricordano con affetto la loro infanzia, passata nei lotti popolari. «Praticamente conoscevi tutti i bambini e le bambine che vivevano lì, e c’era sempre qualcuno con cui giocare», ricorda una donna cresciuta nella Quaker Court Estate a Londra. «Anche i nostri genitori se la cavavano bene. Se uno di noi dava una festa, ci veniva tutto il condominio».
«Abbiamo avuto un’infanzia idilliaca», dice un altro, cresciuto nella Boundary Street Estate, sempre a Londra – il più antico lotto di case popolari di tutta la città, costruito in seguito all’Housing of the WorkingClassesAct del 1885. «Sul serio. È una cosa così strana da dire adesso».
Un uomo, cresciuto nella Heygate Estate a Londra, ricorda che «amavo stare lì… Ero abbagliato dalla bianchezza delle cucine su misura, e le scale sembravano condurre al paradiso, lontano dalla strade lastricate di grigio che si snodavano in basso. Era il mondo moderno, ed era alla nostra portata».
L’austerity di fine millennio ha portato allo sfacelo molti di questi complessi abitativi, e le leggi thatcheriane che ne autorizzano la compravendita continuano l’opera di privatizzazione di ciò che rimane.
Oggi solo l’8% degli inglesi vive in un alloggio popolare, e anche così sono ancora più sensibili sul tema del diritto alla casa di quanto non lo siano gli statunitensi. Il Partito laburista guidato da Jeremy Corbyn ha recentemente proposto di dare un nuovo impulso alla costruzione di case popolari, ed è stato accolto da un entusiasmo che sarebbe difficile – se non impossibile – immaginare negli Stati uniti.
L’avventurosa architettura delle case popolari spagnole
Malgrado l’austerity stia facendo danni un po’ ovunque, l’idea socialista di costruire case popolari di ottima fattura non è ancora del tutto scomparsa. Specialmente in Europa, molti progetti nuovi traggono ispirazione dal passato – soprattutto per quanto riguarda l’aspetto architettonico.
Recentemente è stata la Spagna a raccogliere il testimone, trasformando la costruzione di alloggi popolari in opportunità di sperimentazione architettonica. A Madrid, ad esempio, il complesso del Mirador include un grande open space stile piazza comune nel bel mezzo di una costruzione verticale, mentre il Carabanchel ci va giù pesante col bamboo e il 120 Parla ha un’estetica smaccatamente retro-futurista. A Barcellona, la Torre Plaça Europa sembra un lussoso condominio londinese o newyorkese – così come il Parc Central Social a Valencia. Il Sa Pobla a Mallorca sembra uno di quei posti che una star del cinema sarebbe disposta ad affittare per una vacanza a prova di Instagram, e le case popolari per i minatori dell’Asturia sono una vera e propria innovazione geometrica, ispirate nelle forme e nei colori proprio a quel carbone che i minatori estraggono ogni giorno.
Ma la Spagna non è guidata dai socialisti, e sebbene i progetti sopra citati ribaltino l’idea per cui i poveri debbano vivere in costruzioni tristi e grige, lasciano comunque molto a desiderare. Ad esempio, edifici di questo tipo sono spesso situati nelle estreme periferie, dove i terreni sono meno cari – e per una buona ragione, dato che si tratta di aree sottosviluppate e poco raggiungibili. Costruire case popolari nei sobborghi delle città tende a ghettizzare gli inquilini working-class e ad appesantirli con un pendolarismo sfiancante e costoso, un errore commesso anche dal miljonprogrammet svedese, o Million Program – pur ottimo sotto altri aspetti. Costruzioni attraenti sono un progresso, ma non sono sufficienti se non vengono affiancate da scuole e servizi.
Imaginate palazzi del genere in un centro storico pieno di vita, e avrete un’idea di cosa l’ediliza pubblica potrebbe realizzare. Ancora meglio, immaginateli in quartieri movimentati e forniti delle loro proprie farmacie pubbliche, dei loro asili. La Vienna Rossa rimane di fatto il modello a cui aspirare, in termini di valore reale per gli inquilini workingclass.
SavonnerieHeymans e Le Lorrain, Bruxelles
Sembra che negli ultimi anni Bruxells abbia fatto anche qualcosa di buono con i soldi degli spagnoli. Nella fattispecie, i progetti innovativi de le SavonnerieHeymans e Le Lorrain sono due esempi architettonicamente brillanti di ediliza popolare.
Le SavonnerieHeymans, così chiamate dalla fabbrica di sapone che sorgeva sul sito di costruzione, distano meno di un chilometro e mezzo dalla piazza centrale di Bruxelles. Comprendono una dozzina di unità abitative di vario tipo – studioli, loft, case bifamiliari e appartamenti che vanno dall’una alle sei stanze. L’architettura è un misto di stili: ci sono strutture a box fatte di vetro e listelle di legno che ricordano le saune svedesi, e abitazioni dai bianchi tetti spioventi che sembrano interpretazioni moderne dei cottage belgi. Nel mezzo svetta la vecchia ciminiera della fabbrica di sapone, uno di quegli omaggi alla storia industriale che risulta stucchevole in contesti borghesi, ma è particolarmente adatto alle case popolari.
Le Lorrain, più piccola, è stata progettata dagli stessi architetti ed è anch’essa frutto della rigenerazione di un complesso industriale, in questo caso un vecchio spaccio di ferro. La nuova costruzione è candida e stilosa, e sembra uscita da una rivista d’architettura alla moda. Ma ciò che rende così importanti sia le SavonnerieHeymans che Le Lorrain non è semplicemente la loro estetica piacevole; è il fatto, diversamente dalle case popolari spagnole, di trovarsi in terreni di alto valore commerciale, in quartieri vivi e centrali, evitando così i meccanismi di segregazione della working class. Inoltre il modo stesso in cui sono state progettate incoraggia la vita comune: ampi spazi aperti condivisi, padiglioni, giardini e “mini-foreste”; le SavonnerieHeymans hanno addirittura una libreria-asilo per bambini.
Il lato negativo dell’edilizia popolare del Belgio è il loro essere un complicato incastro di pubblico e privato, con una serie di collegamenti labirintici tra ideatori, costruttori, soggetti paganti e categorie di inquilini. Il sistema è decentralizzato, e mentre Bruxells non permette agli inquilini di comprare (o vendere) le case popolari come in Inghilterra, in altre regioni del Belgio è possibile – e c’è il pericolo che anche Bruxells cada preda di politiche del genere, se l’austerity e il neoliberismo decideranno di attaccare questo come altri esperimenti socialisti presenti in molte municipalità europee.
Ecco un altro luogo in cui la Vienna Rossa splende per contrasto. Lì tutte le fasi del progetto – l’ideazione, la costruzione, il finanziamento e il mantenimento – erano altamente centralizzate. Le costruzioni erano interamente pianificate e amministrate da un organismo democraticamente eletto, e non erano pensate per essere privatizzate. Create dai lavoratori per i lavoratori, sarebbero state loro per sempre.
Alloggi partecipati in Cile
Uno degli esperimenti sociali abitativi più innovativi degli ultimi decenni è la Quinta Monroy in Iquique, Chile.
La rapida urbanizzazione ha costretto i cileni più poveri a costruire dentro le città interi quartieri di case improvvisate, lontano dalle abitazioni di provenienza nelle campagne ma vicino alle opportunità di lavoro di cui hanno disperatamente bisogno. In cerca di soluzioni per migliorare condizioni di vita spesso critiche in strutture precarie, nel 2004 lo stato cileno ha ingaggiato l’architetto Alejandro Aravena per trasformare questi slum in case popolari.
Aravena ha avuto un’idea: lo stato avrebbe garantito metà della casa a ciascun inquilino, e cioè un robusto involucro esterno e le infrastrutture interne necessarie come bagno e cucina. I residenti avrebbero poi potuto aggiungere altro a loro piacimento. Avena ha chiamato questo processo “alloggio partecipato”.
I vantaggi di un simile approccio sono diversi. In Quinta Monroy, così come in altri successivi complessi abitativi – di cui uno in Mexico – grande enfasi è stata data alla posizione, che doveva essere ottimale, vicina ai servizi e alle opportunità lavorative, e dunque al centro cittadino. Addirittura alcuni servizi, come gli asili nido o i centri per l’impiego, sono stati inclusi direttamente nei complessi. Infine, nel dare vita alle proprie abitazioni i residenti hanno avuto l’opportunità di esprimere il loro lato creativo e la loro sensibilità estetica.
Anche se questi complessi abitativi sono un grosso e necessario passo avanti rispetto ai pericolosi slum, e i risultati finali sono unici ed eclettici, un progetto del genere glorifica il risparmio e ratifica la mancanza di risorse statali, ed entra in contraddizione con una visione socialista di edilizia popolare dura e pura. L’idea di Aravena è stata una soluzione brillante a un problema – un budget statale irrisorio – che non dovrebbe esistere. Alla base c’è una questione di redistribuzione delle risorse, che l’alloggio partecipativo non può certo risolvere e anzi sembra addirittura avallare con la sua frugalità.
Molte delle persone che vivono negli alloggi partecipati di Aravena lavorano nelle fabbriche di legname della Consitución, oppure nel porto di Iquique dove il rame della regione è caricato sulle navi per essere venduto in tutto il mondo. I baroni del legno e del rame hanno fatto profitti come banditi in una nazione che il Washington Post ha definito “il laboratorio sperimentale di un capitalismo senza mercato”.
L’attraente personalizzazione degli alloggi partecipati cileni potrebbe essere mantenuta e allo stesso tempo potrebbe essere sostenuta con unità alloggiative più eleganti e meglio ammobiliate, se solo il Cile redistribuisse la sua richezza nello stesso modo in cui è stato fatto a Vienna – o nel modo in cui il presidente socialista Salvador Allende aveva provato a fare, prima che gli Stati Uniti ordissero un colpo di stato ai suoi danni uccidendo lui e la sua visione politica.
La visione socialista
Malgrado questi progetti abbiano le loro falle e le loro vulnerabilità, gli esperimenti di edilizia popolare inglesi, spagnoli, belgi e cileni mettono tutti in discussione l’idea che gli alloggi popolari debbano essere brutti e uniformi, luoghi in cui non ci si possa fermare o avere una vita comune.
E tuttavia è Vienna Rossa a farla ancora da padrona. È l’esempio lampante di cosa potrebbe davvero essere l’edilizia popolare di stampo socialista: un luogo interamente pubblico, ben finanziato, allo stesso tempo stravagante e conveniente, con case accoglienti per individui che condividono la ricchezza di spazi comuni, e in definitiva un’alternativa preferibile alle case in affitto.
È questa, in sintesi, la visione socialista dell’edilizia popolare, non un aut-aut fra lusso privato e carità pubblica, ma un bene comune garantito dallo stato, espressione di un diritto alla casa e all’abitare di qualità.
*Meagan Day è staff writer di Jacobin Usa.
Questo articolo è uscito su www.jacobinmag.com, qui la versione originale. Traduzione di Gaia Benzi.
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