La lunga crisi del teatro italiano
I teatri nella pandemia stanno attraversando la loro crisi più devastante, innestata su un organismo già pesantemente compromesso. Se dovessero davvero scomparire domani, importerebbe a qualcuno?
Il mondo dello spettacolo dal vivo ha finalmente ricevuto risposte su quando si potrà ricominciare a lavorare e a quali condizioni ma, nonostante la riapertura dei teatri e le norme di sicurezza siano state chiarite, continua a navigare in pessime acque. Quello che è certo è che i grandi enti culturali potranno permettersi di investire in misure precauzionali e ridurre spazi comunque grandi per contingentare il pubblico, ma le decine di spazi minori, che spesso non sono teatri convenzionali e con capacità economiche già ridotte prima dell’attuale crisi nella crisi?
Senza dubbio qualcuno al Ministero starà lavorando a tutto questo, ce lo auguriamo. Ad oggi, però, le programmazioni dei festival estivi e le stagioni teatrali sono bloccate in un limbo di incertezze sul da farsi, perché tutto costerà molto di più e le condizioni economiche di tante realtà sono devastate.
È chiaro che, nello spettacolo, non sono soltanto gli artisti a soffrire questa situazione, ma un indotto imponente di maestranze tecniche e artigianali. A queste possiamo aggiungere il fatto che spesso non sono contrattualizzate ma implicitamente vincolate, nonostante siano titolari di partite Iva, anche dalle istituzioni culturali pubbliche più importanti.
La crisi della presenza
Per quanto riguarda chi sta sul palco esiste una parentesi positiva: numerosi artisti del mondo del teatro hanno aumentato la consapevolezza della propria presenza.
Nelle ultime settimane i movimenti che chiedono a gran voce tutele e ascolto si sono moltiplicati dando vita a gruppi spontanei sui social (Facebook e Telegram le piattaforme principali) formati da centinaia di attori e attrici. Ho sentito parlare con entusiasmo di sindacati persone che, prima d’ora, non avrei mai pensato si sarebbero interessate dell’argomento.
Spesso, questi artisti, erano la prima e parzialmente inconsapevole causa della loro disgrazia in quanto, pur di fare il lavoro al quale hanno deciso di dedicare la propria esistenza, passavano da una mezza scrittura all’altra, accettando agibilità minime (o in numerosissimi casi nero) e prove non pagate. Chi fa questo mestiere sa quanto sacrificio ci voglia per arrivare a una «prima» e potersi permettere il lusso di allestire un esaurimento nervoso nelle successive promozione e distribuzione. Questo circolo vizioso ha impedito a tanti lavoratori e lavoratrici dello spettacolo di maturare le ormai note trenta giornate ex-Enpals necessarie per accedere all’indennità prevista per gli autonomi della cultura pur avendo, paradossalmente, maturato molte più ore di lavoro effettivo di quanto richiesto. Con l’ultimo decreto il tetto è stato abbassato a sette giornate nell’ultimo decreto ma, anche questa decisione, ha sollevato un vespaio di polemiche e dimostrato la mancanza di coscienza di classe della categoria.
Non sto dicendo niente di straordinario, nell’ambiente è un fatto noto che la maggior parte delle compagnie e realtà indipendenti esistenti in Italia, spesso anche quelle con un nome abbastanza conosciuto, non possono materialmente permettersi di pagare le prove a causa della scarsa disponibilità di fondi per le produzioni. A volte neanche i caffè, figurarsi le prove.
Questa situazione negli ultimi decenni ha provocato, per dirla con Ernesto de Martino, una progressiva crisi della presenza dell’artista di teatro in Italia, giunto al punto di dubitare della sua stessa esistenza e della propria capacità di determinare la propria azione, intesa come atto esistenziale nel mondo. Tutto ciò è semplificabile con il tristemente noto dialogo:
– «Faccio l’attore»
– «Sì, ma di lavoro?»
La risposta a questa domanda inopportuna in genere è rabbiosa, ma nel profondo destabilizza, perché per tanti artisti e artiste è dura arrivare a fine mese. Ci abbiamo scherzato tutti e tutte ma il retrogusto amaro rimane.
E se il teatro scompare?
Da settimane si sentono pronunciare editti sull’indispensabilità del teatro, che senza teatro non si può sopravvivere, che c’è bisogno che il Governo si assuma la responsabilità di quanto sta accadendo, ma la realtà è ben diversa perché la crisi della presenza non riguarda solo gli artisti ma è il teatro stesso a rischiare la sua stessa esistenza. Se il teatro in Italia dovesse scomparire all’improvviso, a una larga maggioranza della popolazione non importerebbe nulla, molti nemmeno se ne accorgerebbero. Le cause sono tante, ramificate nei cambiamenti della società ma ci sono delle matrici che possono aiutare a capire come sia avvenuto questo processo di disaffezione a un’arte che ormai solo chi la fa percepisce come indispensabile.
Ci sono stati dei sintomi ma sempre poco considerati, ad esempio, negli anni Settanta, tanti artisti, avevano visto la nascita dei teatri stabili di ricerca come pericolo di una chiusura dell’innovazione all’interno di mura che avrebbero rischiato di penalizzare le realtà indipendenti dando una potenza di fuoco enorme a quelle organiche, espressione della sola élite intellettuale egemone.
Le grandi istituzioni teatrali sono state e rimangono importanti centri di produzione culturale, alcuni più illuminati e in grado di avvalersi degli ingenti mezzi a propria disposizione, altri irrimediabilmente controllati e troppo spesso compromessi dalla politica.
Sappiamo che le scelte vanno storicizzate: c’è stata un’epoca in cui finanziare istituzioni culturali pubbliche poteva sembrare la via migliore per garantirne il lavoro di ricerca e il mantenimento dell’indotto ma, in quella stessa epoca, c’erano abbastanza risorse per sostentare anche una rete di realtà alternative. Oggi ci ritroviamo in un romanzo distopico su un mondo post guerra atomica composto di roccaforti elitarie circondate di macerie e qualche felice eccezione che conferma la regola e permette la stesura del racconto.
Non è certo l’egemonia dei teatri stabili l’unica causa della crisi della presenza del teatro in Italia, loro sono solo gli attori protagonisti, rimangono decine di personaggi.
Le realtà più piccole e vulnerabili agli smottamenti del sistema economico, hanno subito negli ultimi decenni colpi sempre più duri che hanno raggiunto gli effetti più devastanti dalla crisi economica del 2008 in poi. L’idea che dai momenti di crisi nascano i periodi culturalmente più floridi vale per la fine delle crisi, il problema è che noi ci siamo ancora dentro fino al collo e l’unica luce in fondo al tunnel al momento è un treno. Anche questi fattori, sommati a mille variabili e a una buona dose di disagio che colpisce le nuove generazioni di artisti (e non apro il vaso di Pandora degli over 35), hanno provocato una perdita di coraggio nella ricerca e scatenato il tentativo di inseguire sempre più un gusto generale e uniforme del grande pubblico, plasmato da circostanze storiche e mutamenti nella società, ma non dal teatro. Il teatro è rimasto troppo spesso, nel sentire comune, quella cosa dentro una scatola con le poltroncine costose e gli attori sul palco.
La convinzione che il pubblico avesse sempre ragione e andasse assecondato in toto per non rischiare di perderlo, ha ridotto la capacità e la voglia di proporre, osare, seguire percorsi di ricerca che potessero creare nuovo interesse intorno alle arti performative, producendo l’effetto contrario.
Questo stesso pubblico, nel frattempo, è stato naturalmente modificato nelle percezioni da numerosi agenti esterni, dalle nuove tecnologie, dal cinema e da altre forme di intrattenimento, e ha progressivamente perso la necessità del teatro, di assistere a quell’evoluzione del rito nata da ditirambi dionisiaci (ipse dixit) che permisero di perpetuare l’indagine sull’origine della cultura umana, dei comportamenti, della società. Una forma d’arte che ha attraversato e accompagnato millenni di storia dell’umanità adesso, in Italia, è perlopiù percepita come sinonimo di noia. Sarà mica colpa di Eschilo, Sofocle o Euripide? Si potrebbe dire che Game of Thrones ha sostituito Shakespeare, che nel frattempo, comunque, era già stato massacrato senza pietà e impagliato come un trofeo di caccia da esibire e spolverare ogni tanto.
Oggi abbiamo un sistema in cui i grandi teatri stabili propongono quasi sempre le stesse cose (spesso massacrandole senza pietà e impagliandole, vedi sopra) e raramente si dimostrano inclini a sperimentare nuovi linguaggi, temendo di perdere quella scarsa fetta di pubblico rimasta, quella che può permettersi anche il costo dei biglietti in platea. Le produzioni vengono scambiate e sono create, interpretate e dirette quasi sempre dallo stesso giro di artisti ai quali il pubblico che può permettersi la platea è abituato. Alla porta, quella dietro, nel vicolo, ci sono centinaia di giovani (non tutti, per fortuna) che sperano in una scrittura che gli consenta di entrare a far parte di quel mondo, che magari non incontra il loro gusto o le loro pulsioni intellettuali, ma almeno gli permette di mangiare facendo il mestiere per cui si sono formati.
Quanto descritto ha portato artiste e artisti pieni di idee e speranze rivoluzionarie ad abbandonare le proprie prospettive causa esaurimento di energie (o esaurimento e basta) per combattere un sistema irritante, deprimente e controllato da un ristretto numero di persone, a volte maestri figli del loro tempo, altre volte fantocci della giunta regionale di turno.
Tanti e tante che, controcorrente, hanno perseverato e magari seguito vie alternative, oggi hanno lavorato così poco «sulla carta» da non potersi permettere di essere tutelati dallo Stato per non aver raggiunto il minimo retributivo, pur avendo dato alla causa dello spettacolo dal vivo tutto. Non tanto. Tutto.
Non un passo indietro
Studiare, impegnarsi ogni giorno, lottare per raggiungere obiettivi e dedicare la propria vita a una forma d’arte di cui alla maggior parte delle persone importa così poco, forse niente, sarà giusto?
Come scrivevo all’inizio, il momento devastante che stiamo vivendo ha scosso tanti lavoratori e lavoratrici del settore dello spettacolo dal vivo dal torpore, convincendoli della necessità di cercare una voce comune per potersi permettere di esistere nuovamente.
Quel che è certo è che il cambiamento non avverrà in alto, nei grandi processi decisionali dei prossimi mesi, se non innescato e ravvivato continuamente da chi lo vuole. I lavoratori dello spettacolo, tutti, tecnici, attori, artigiani, organizzativi, devono pretendere di divenire organici al sistema, per plasmarlo a proprio favore avviando un processo che modifichi in meglio la percezione del proprio lavoro. Non si tratta di un percorso facile né immediato, ci sono voluti decenni per disaffezionare il pubblico italiano al teatro, ed è stato un lavoro eseguito a regola d’arte: ci vorrà tempo per riconquistarlo e poter davvero descriverlo nuovamente come un’arte indispensabile.
Tanto si sta muovendo, descrivere iniziative che si stanno costruendo in queste settimane richiede una ricerca dedicata. Parlare di lavoro intermittente, confrontare il modello italiano con quelli francese o belga sul rapporto con lo spettacolo dal vivo è fondamentale e non si tratta di tipica esterofilia italica, ma di prendere atto che qui le cose non funzionano da tempo e servono cambiamenti radicali. Il virus è stato spesso letale con chi aveva già una salute compromessa da altre patologie, è questo il caso anche del teatro italiano.
Le proposte esistono, le voci che da anni denunciavano un sistema viziato e devastato da interessi politici si sono unite in un coro, anzi, più cori. L’obiettivo è un passo ulteriore che congiunga questi cori portando di fronte ai legislatori le proposte concrete con una sola voce. Per imporre un cambiamento e non limitarsi a supplicarlo, è necessario essere tanti. Tutti ci auguriamo che le nostre esistenze tornino a una normalità di rapporti, che riprendano il prima possibile le arti performative in tutti gli spazi, che riaprano davvero tutti i teatri, si programmino festival riempiendo le piazze, ma la consapevolezza e l’ensemble costruiti durante questa crisi vanno consolidati. Non un passo indietro, neanche per la rincorsa.
*David Angeli è storico ed etnostorico laureato all’Università Ca’ Foscari di Venezia e quasi dottorato alla Sapienza di Roma. È giornalista pubblicista, ha scritto per la rivista Latinoamerica. Vive a Venezia e lavora come attore teatrale, autore, allestitore, receptionist. È membro del consiglio direttivo del festival internazionale Venice Open Stage.
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