La redingote, le calze e la sciarpa
Cinquant'anni fa moriva Anna Magnani, l'iconica e combattiva popolana di «Roma città aperta»: eccone un ritratto a partire dagli abiti di scena che indossò in quel film
«Ci vorrebbe qualcosa di vecchio, con le maniche un po’ corte, le spallucce lise, che ti ingoffi, che abbia un’aria rimediata». Inizia così un’altra storia intorno a Pina, nel celebre ruolo della popolana interpretata da Anna Magnani in Roma città aperta che, nel cinquantesimo dalla scomparsa dell’attrice romana, vorrei raccontare da un altro punto di vista, un’altra prospettiva, quella del dress you up, dallo stimolante focus del forum di Fascina 2023, per concentrarmi sugli abiti di scena della protagonista. Sui costumi che, come narra Patrizia Carrano nella biografia romanzata dedicata a Nannarella, tutti gli interpreti del film, dalle arcinote vicissitudini produttive, pescano nei fondi dei loro armadi, a eccezione della tonaca di Don Pietro presa a noleggio per il personaggio del parroco interpretato da Aldo Fabrizi.
A pronunciare le frasi iniziali è Jone Tuzzi, assistente alla regia del film-manifesto del neorealismo, mentre in ginocchio rovista dentro un vecchio baule, nello stanzino guardaroba dell’abitazione di via Amba Aradam a Roma di Anna Magnani, alla ricerca di un suo scarto d’abito: uno di quei capi consunti, a lungo indossati nel passato, accantonato, ma non ancora gettato via.
La redingote
Alla fine la scelta cade su una redingote blu con due file laterali di bottoni che, sia pure con qualche ritocco o aggiustamento, perfettamente si adatta al ruolo di colei che sugli schermi e nella storia del cinema nazionale riveste i panni di prima donna della resistenza italiana. Un capo di abbigliamento la cui derivazione etimologica, dall’inglese riding/cavalcare e coat/cappotto, ben si sposa alla finalità d’uso che, originariamente maschile destinata alla caccia e all’equitazione poi rielaborata dalla moda femminile con accentuata vita stretta e gonna voluminosa, agevola il perpetuo movimento della protagonista, evidenziato in un recente saggio da Marga Carnicé Mur.
Di rado accade infatti di vedere Pina, vedova di guerra e madre di un adolescente orfano di padre, sostare all’interno del focolare domestico – un appartamento affollato condiviso con altri sfollati bellici insieme a sua sorella Lauretta (Carla Rovere), artista di varietà, e a suo figlio Marcello (Vito Annicchiarico) – mentre fin dal principio la scoviamo per strada farsi largo tra la folla che ha appena assaltato un forno nel quartiere Prenestino, in prossimità della sua abitazione nel caseggiato di via Montecuccoli, durante i freddi mesi invernali del 1943-1944 della capitale sotto occupazione dei nazifascisti, già bombardata in estate dagli alleati.
È questa la prima entrata in scena di Anna Magnani nell’ottava sequenza del film, secondo la segmentazione di David Bruni, all’incirca al 9° minuto dal suo inizio, nei panni di una donna del popolo che, dopo aver lavorato sotto il fascismo come ex operaia presso una fabbrica d’armi («lo spolletificio di Breda», come apprendiamo da lei stessa in un dialogo successivo) al momento tatticamente presidiata dai compagni partigiani per impedire il riarmo degli occupanti, è alla sua prima apparizione immortalata alla testa della scorreria dentro la rivendita alimentare. Un’azione illegale per la quale a spingerla è la fame, ma anche la strategia resistenziale. Sostentare sé stessa e la prole – la donna è incinta, in attesa di un secondo figlio concepito nel peccato cattolico pre-matrimoniale al quale intende riparare in seconde nozze – generando al contempo confusione, caos e tensione nella città sotto assedio.
Del resto è durante la lotta antifascista che, scrive Benedetta Tobagi nel suo libro premio Campiello 2023, le donne incanalano la disperazione dettata dalla fame in iniziative politiche di Resistenza. Partecipano attivamente alla lotta partigiana assaltando magazzini o convogli carichi di farina, pasta e cibarie varie. Rischiando la morte tramite fucilazione come accade, ricorda sempre Tobagi, alle dieci donne giustiziate ed esposte cadavere per un’intera giornata, nell’aprile del ’44, al ponte di ferro della Garbatella dopo la razzia compiuta in zona Ostiense.
A ribadire la funzione di agitatrice di popolo di Pina, quale leader al vertice della «buriana al forno», come la definisce lui stesso, è il sagrestano Agostino (Nando Bruno) preoccupato per lei e per don Pietro, che apostrofa come «li fanatici» della Resistenza nella sequenza della zuppa di cavolo scaldata sulla stufa. Successiva a quella del dialogo ancor più esplicito che si svolge tra la donna e Manfredi (Marcello Pagliero) – il capo partigiano in fuga dalla pensione di Piazza di Spagna perquisita dai nazisti (come dal noto episodio autobiografico dello sceneggiatore Sergio Amidei) in apertura della pellicola – nel monolocale di Francesco (Francesco Grandjacquet), il tipografo comunista, promesso sposo dell’una e amico dell’altro. In questa circostanza Pina, mentre fa gli onori di casa e da brava massaia offre all’ospite un caffè surrogato alla cicoria, si scusa per il disordine e rassetta il letto singolo del suo amato, sottolinea come quello del secondo mattino appena trascorso, all’interno di una struttura cinematografica che scandisce la narrazione in cinque giornate, sia il secondo assalto al forno messo in atto in una settimana. Per poi – intervenendo qui Anna Magnani con le sue variazioni attoriali e le sue improvvisazioni recitative – voltarsi, sospirare, schiaffeggiarsi sulle cosce, posizionando i pugni ai fianchi, tenendo i gomiti larghi e poggiando infine il palmo della mano destra sopra al cuore, rammentare come «qualcuna» delle donne – come lei in prima linea – «lo sa perché lo fa», anche se, prosegue, «la maggior parte arraffano più sfilatini che ponno», arrivando perfino a rubare delle «scarpe» e una «bilancia». Il che accade in conseguenza del razionamento che, tramite tessere annonarie, non riguarda solo il cibo e il pane distribuito, come udiamo dire ancora da Agostino al momento dell’assalto al forno, a soli «100 grammi a giorno», ma anche i vestiti, le stoffe, le calzature, appunto. Oltre che per il pane nero dell’omonimo libro che Miriam Mafai dedica nel 1987 alla quotidianità femminile nella Seconda guerra mondiale, oltre ai cartoncini grigi destinati alla distribuzione del cibo, altri ne circolano colorati, con differenti sfumature a seconda del genere e dell’età anagrafica, tra cui quello viola che, sempre tramite una valutazione per punti, autorizza le donne all’eventuale acquisto ora di un tailleur, una camicetta o un paltò, come anche di un paio di scarpe, una gonna o delle calze.
Le calze
Se le scarpe non sono di pelle o di cuoio, scrive ancora Mafai, bensì realizzate in feltro, con legno, sughero o plastica, allora non occorrono punti e la loro vendita è libera. Pina, in questa circostanza, sembra indossare un semplice décolleté di velluto nero con tacchetto, dentro al quale intravediamo un calzino corto che ne modella la caviglia sottile. La sua gonna è a ruota e corta, sopra la quale indossa un doppio maglioncino in filo, grigio al di sotto, bianco sopra, con doppia abbottonatura in vita, a modellarle i fianchi. La pettinatura, a dispetto dello stereotipo dell’attrice scapigliata, è ordinata e raccolta a coda con fermagli, elastici e forcine.
Di fatto poco o molto cambia nel giorno, il terzo del film, in cui dovrebbe celebrarsi il suo matrimonio di guerra in chiesa, perché lei è cattolica e perché le sentiamo dire sempre a Manfredi, nel dialogo sopra citato: «è meglio che ci sposa don Pietro che almeno è uno dei nostri, piuttosto che andacce a fa’ sposa’ al Governatorato da un fascista». Pina non indossa alcun strascico da sposa, probabilmente perché vietato durante il conflitto bellico, quando tutt’al più si potevano rimodernare gli abiti aggiungendo dei colletti di pizzo o di picché bianco, sempre secondo Mafai, simile in effetti al foulard, più di raso che di cotone, damascato comunque su sfondo bianco, che le intravediamo intorno al collo, sopra un abito scuro dalla bella abbottonatura irregolare a sinistra che le copre comunque il seno. Differentemente da quanto non accade a sua sorella Lauretta e a Marina (Maria Michi) – anche lei artista di avanspettacolo, amante di Manfredi, tossicodipendente e collaborazionista dei nazisti – la prima volta che la cogliamo – e poi le cogliamo insieme – nel camerino teatrale di quest’ultima. Dove dal fuori campo acustico sopraggiungono gli applausi di scena, le note del brano Capocabana e soprattutto appaiono appesi alle pareti degli eleganti costumi di scena in pizzo, laminati, trasparenti o di strasse, che ne rivelano non tanto le molteplici identità del mestiere di attrice, quanto l’oscura, inquietante condizione burattinesca di questo personaggio o personaggia: una marionetta manipolata dalle abili mani di Ingrid (Giovanna Galletti), la nazista che le procura la droga, oltre a sedurla sessualmente.
Castigata è invece la sposa di guerra, il cui corpo è racchiuso in un abito nero, sopra il quale ritroviamo appoggiato sulle spalle di nuovo il paltò, la redingote di cui sopra, durante la scena del rastrellamento del casamento al Prenestino. Prima che le scivoli via quando, dopo aver reagito con uno sguardo torvo e uno schiaffo sonoro alla lasciva inopportuna carezza del soldato tedesco, Magnani ne sferra un altro sulla sua faccia, liberandosi dalla stretta che le impedisce – così come di lì a poco fa con chiunque, dal brigadiere a don Pietro fino a Marcello, cerca di sbarrarle il cammino – di correre dietro al suo uomo, appena catturato da altre SS, al grido di «Francesco, Francesco». In quella che è indubbiamente la sequenza più celebre di Roma città aperta e del neorealismo cinematografico italiano, la trentasettesima secondo Bruni, che chiude tra parentesi la presenza di Anna Magnani nel film, scandendone la scioccante uscita di scena.
La celebre morte di Pina, su cui altrove mi sono soffermata e per la quale qui soprassiedo su molti aspetti (la leggenda delle tre macchine da presa utilizzate dal regista che in verità poté usarne abilmente solo una; l’ispirazione della corsa forsennata dietro al camion che ne ebbero Amidei e Rossellini dopo che il primo assistette a un litigio tra Magnani e Massimo Serato, padre di suo figlio Luca; le dichiarazioni dell’attrice in merito al doppio ciak senza prove o alle ginocchia sbucciate mentre cade), per rivolgere invece il focus esclusivamente sul dettaglio delle calze autoreggenti, smagliate durante la caduta, che s’intravedono sotto la gonna rialzata del corpo esanime della donna disteso a terra.
Le calze sono allora, per le donne del secondo conflitto bellico, o di filo o di raion, rarissimamente di seta, perché delicate e molto care, scrive ancora Mafai. Il dettaglio appare pertanto incongruo a Cristina Jandelli addosso all’eroina martire della Resistenza del film ed è legittimo per lei – così come per noi – chiedersi dove ha trovato i soldi Pina per comprarle. Un interrogativo al quale si può tentare di dare risposta attraverso un sia pur flebile indizio testuale filmico, che quasi sfugge al nostro orecchio di spettatori, ossia quando, durante il colloquio sopracitato tra Manfredi e Pina, a interromperlo, irrompendo nell’appartamento di Francesco, a partire anzitutto da un fuori campo acustico che un po’ si disperde, è Lauretta. La quale in effetti urla: «Io vorrei sape’ chi s’è fregato… le carze mie… Te le sarai fregate te…», rivolgendosi a sua sorella. Un dubbio che certo difficilmente riusciamo ad accettare se pensiamo a Pina, ma se invece ipotizziamo che l’innocua beffa, il dispetto, oltreché la vezzosa scelta possa essere frutto di un’ennesima variazione autoriale e attorica di Anna Magnani, be’ allora sì, l’accogliamo senz’altro, sorridendone un po’, con complicità.
La sciarpa
Infine, vi è un altro accessorio indossato costantemente da Pina-Magnani nel film ed è la sciarpa a quadri che per ben due volte la donna tiene aperta lungo il petto, alla prima apparizione sullo schermo, nella già citata sequenza dell’assalto al forno, e quando cammina lungo la strada, durante il coprifuoco delle cinque, insieme a don Pietro, per confessare la sua colpa: l’amplesso e il concepimento pre-matrimoniale detto. In altre due occasioni l’indumento è intrecciato intorno al collo, per proteggersi dal freddo o durante un’attesa: quando dopo la scorribanda di cui sopra si avvia verso casa con la sporta – un’ampia borsa a quadri nera piena di pane – accompagnata dal brigadiere (Edoardo Passarelli) al quale regala due sfilatini, essendo affamato anche lui come tutti dalla guerra; o mentre attende il rientro del prete in canonica, perché ne offici la sua confessione, insieme al ciarliero cuoco Agostino, di cui detto. Altre due sono le eccezioni d’uso, per le quali Magnani indossa lo scialle come velo, mentre in ginocchio prega all’interno della chiesa di San Clemente assegnata al parroco, ma soprattutto stringe il foulard tra le mani, lo sfiora, passandolo da una mano all’altra, mentre è schierata insieme ad altre donne nel cortile di via Montecuccoli durante il rastrellamento nazifascista. Un gesto nervoso, accompagnato ancora una volta dal suo intenso sguardo scuro, con il quale l’attrice esprime tutta la carica di tensione, ansia e angoscia per gli uomini braccati, scovati nei nascondigli, poco prima che la sorte tocchi anche lei da vicino.
La sciarpa Pina la tiene ancora stretta nella mano sinistra, mentre alza la destra quasi volesse riprendersi il suo Francesco che i soldati le stanno portando via, prima di essere falciata dal mitra. Il che non è affatto casuale se diverso è lo scenario e la modalità della sua uccisione prevista dalla sceneggiatura originale, quando ancora il personaggio di Pina si ispira alla morte di Teresa Gullace, la madre di cinque figli, in attesa del sesto, freddata davvero a Roma da un soldato tedesco il 3 marzo 1944, mentre con altre donne protestava sotto una caserma del quartiere Prati dove avevano rinchiuso il marito rastrellato, prima della deportazione in Germania. Come riporta Stefano Roncoroni nel suo monumentale lavoro di confronto tra lo script originario e la sceneggiatura desunta dal film, secondo il copione Pina non si muove affatto all’inseguimento della camionetta tedesca, bensì si reca con altre donne, il brigadiere, don Pietro e Marcello, presso la caserma dove rinchiudono Francesco, che lei intravede subito attraverso le sbarre. Dopodiché, facendosi largo tra i cordoni di presidio, si toglie la sciarpa di dosso e si sporge per darla all’amato: gesto che le costa la vita, fulminata dalla scarica del milite che le intima di stare ferma e rimanere indietro.
In Roma città aperta la sciarpa riappare un’ultima volta nel momento in cui è Marcello a donarla a Francesco. Il che accade, come rammenta Flaminio Di Biagi, non all’alba del terzo giorno, bensì del quarto, quando don Pietro e Manfredi, insieme a un disertore austriaco già protetto e nascosto dal parroco, vengono arrestati, andando così anche loro incontro al macabro destino di morte che sappiamo tramite fucilazione e tortura. Un gesto che è lo sliding door del tipografo, il quale, attardatosi rispetto agli altri tre, ha così salva la vita. In effetti Pina indossa la fusciacca, poggiata sulle spalle e lungo il petto, anche la sera prima del suo assassinio, all’interno della sua abitazione, durante il litigio familiare scatenato dallo spavento per l’attentato dinamitardo dei bambini del palazzo, tra cui suo figlio Marcello, così come durante il successivo ultimo romantico colloquio sulle scale con Francesco, carico di speranza sul futuro di pace che verrà, della primavera che sorgerà dopo il triste buio inverno di guerra.
Seguendo pertanto le tracce di questo indumento, è indubbio come i suoi fili riescano almeno a intrecciare una nuova relazione futura, paterna e filiale, sulle ceneri del sacrificio materno, reso emblematico dall’ultima nota inquadratura di don Pietro che solleva il cadavere della donna raffigurando plasticamente La Pietà di Michelangelo a parti invertite, nonché del bambino mai nato, il secondogenito di Pina.
*Stefania Carpiceci Insegna Storia del cinema all’Università per Stranieri di Siena. Su Anna Magnani ha scritto di recente un saggio di prossima pubblicazione su un numero monografico di Bianco e Nero e un capitolo all’interno del suo libro Ai margini del cinema italiano. Soubrette e maggiorate fisiche, artigiani e autori di film minori (Pacini, 2017). È autrice di Amara terra mia / io vado via (Ets, 2020); Insegnare italiano L2 con il cinema (Carocci, 2020, con P. Diadori e G. Caruso) e Le ombre parlano e cantano (Artdigiland, 2012-13).
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