La rivoluzione dell’antirazzismo francese
Adama Traoré è morto alla periferia nord di Parigi. Ucciso dalla polizia, come George Floyd. Il comitato che porta il suo nome ha saputo riallacciarsi alla lotta contro l’ingiustizia razziale. Suscitando la reazione di Macron
Il 2 giugno 2020 è una data indimenticabile per il movimento antirazzista francese. Su invito del Comitato Verità e Giustizia per Adama Traoré, una marea umana si è riunita al tribunale distrettuale di Parigi per manifestare contro le violenze poliziesche, la loro dimensione razzista, la loro impunità.
Quattro anni di lotta per la verità e la giustizia
Adama Traoré è morto il 19 luglio 2016 nel cortile della gendarmeria di Persan, cittadina alla periferia nord di Parigi dove il giovane viveva. Steso sul cemento reso rovente dal clima torrido di quella giornata, faccia a terra, ammanettato fino a poco prima della fine della sua vita, Adama Traoré è morto a 24 anni, il giorno del suo compleanno, dopo essere stato fermato da tre gendarmi per un controllo di identità. Adama non aveva con sé la carta di identità: aspettava a giorni il documento di cui aveva chiesto il rinnovo. I giovani non bianchi non hanno dovuto attendere la pubblicazione dei dati ufficiali che mostrano quello che già sanno perché lo subiscono: che sono controllati venti volte di più dei loro coetanei bianchi e che, a ogni controllo, rischiano insulti e percosse. A volte, rischiano l’incolumità fisica, come Théo Luhaka, violentato da un poliziotto nel 2017 con un manganello telescopico che gli ha causato una lacerazione del canale anale di dieci centimetri. A volte, la morte.
Adama Traoré ha cominciato a correre. Raggiunto dai gendarmi ha subìto un placcaggio ventrale che è durato più di quello che ha ucciso George Floyd. Il video della morte atroce di George Floyd ha fatto il giro del mondo, suscitando ondate di mobilitazioni antirazziste. Per Adama Traoré non c’erano immagini. Le videocamere della caserma di Persan non funzionavano. Proprio quel giorno. O così pare. In un certo senso, il video della morte di George Floyd ha tradotto in immagini la morte di Adama Traoré. Come nel caso di George Floyd, come nel caso di tante altre vittime della violenza della polizia, le ultime parole di Adama Traoré sono state: «Non riesco più a respirare». Dopo una dozzina di perizie disposte dagli inquirenti e dalla famiglia, la causa della morte non è stata ancora stabilita. In alcune si parla di una patologia pregressa («infarto», «infezione molto grave»), in altre di morte provocata («stato di asfissia acuta», «asfissia indotta da placcaggio ventrale»). I gendarmi che hanno interpellato Adama Traoré non sono mai stati indagati. Insomma, quanto a razzismo, la Francia ha poco da invidiare agli Stati uniti.
Ancora oggi, dopo quattro anni di lotta incessante e accanita per ottenere giustizia e verità, né l’una né l’altra sono state raggiunte. Almeno dal punto di vista del diritto. Perché da quello politico il 2 giugno 2020 ha segnato la vittoria della lotta per Adama. La data è incisa nel cuore di tutte e tutti i presenti alla manifestazione – 20 mila secondo la Prefettura, 80 mila per il comitato organizzatore. Moltissime giovani, molti e molte di colore e alla loro prima manifestazione. Non era la mia prima «marcia per Adama», ma stavolta il flusso di persone che vedevo convergere al punto di ritrovo era un fiume che non si arrestava, che, anzi, con il passare dei minuti, cresceva, si ingrossava fino a occupare a macchia d’olio tutto il quartiere. E, nonostante le mascherine sul viso a causa dell’emergenza sanitaria, che ha colpito molto più ferocemente le frazioni più precarie della gerarchia sociale, la sete di giustizia e di uguaglianza era gridata da migliaia e migliaia e migliaia di persone in più. Molte con la voce spezzata dalla commozione o con le lacrime agli occhi per l’emozione di essere tante, tanti, e insieme. Tra gli slogan gridati: «Pas de justice pas de paix» e «Black Lives Matter». L’antirazzismo francese esprime la stessa forza di quello statunitense, in un gioco di rimandi e contaminazioni dai due lati dell’oceano, come mostra il dialogo da anni instaurato tra Assa Traoré – sorella di Adama – e Angela Davis.
Novità e permanenze di una forma di attivismo antirazzista
Il paziente, testardo lavoro condotto da Assa Traoré e dal comitato da lei fondato dopo la morte del fratello, le connessioni che il Comitato Adama ha saputo tessere con gli altri comitati «verità e giustizia» formati negli ultimi anni da altre famiglie di vittime di crimini polizieschi, il dialogo con altri collettivi antirazzisti, creatisi in Francia nel corso degli anni 2000 – la Brigade Antinegrophobie, Urgence Notre Police Assasine, il collettivo afrofemminista Mwasi –, le alleanze con altri movimenti di lotta (donne delle pulizie, liceali, ecologisti, antifascisti, gilets jaunes, persone lgbtqi, militanti contro la riforma delle pensioni) e l’eco internazionale delle reazioni suscitate dall’assassinio di George Floyd, tutto ciò ha portato alla straordinaria vittoria politica del 2 giugno. Perché dopo quel giorno nulla sarà come prima: il Comitato Adama ha prodotto un cambiamento radicale nella consapevolezza pubblica della dimensione strutturale della discriminazione razzista e razziale in Francia. Dal 2 giugno 2020 non si può più dire, per esempio, che il razzismo, la negrofobia, in Francia non esistano, che siano un problema che riguarda solo gli Stati uniti, che il razzismo non sia un sistema di inferiorizzazione che attraversa in filigrana le strutture sociali e le istituzioni: la polizia, fortemente permeata da simpatizzanti di estrema destra, ma anche la giustizia, la scuola, il mercato del lavoro o quello immobiliare. E per lottare contro le discriminazioni razziali e razziste occorre tenere conto di questa dimensione strutturale. Dirsi «colorblind» non significa essere esenti da razzismo, significa non vedere la sua portata e il suo funzionamento, significa non voler sapere che la razza è una categoria sociologica efficiente che, come ha scritto la sociologa femminista Colette Guillaumin, è una formazione certo immaginaria, ma che produce effetti sociali brutali e mortiferi.
Quella condotta dal Comitato Adama è una nuova forma di lotta antirazzista basata sull’esperienza come motore dell’azione, sull’autonomia rispetto ai media mainstream, sul costante dialogo con le popolazioni dei quartieri popolari delle periferie francesi. Ma questa nuova forma di lotta sa di avere un passato e lo rivendica, presentandosi come l’erede del Movimento per l’immigrazione e le periferie (Mib) creato in Francia a seguito alla «Marcia per l’uguaglianza e contro il razzismo» del 1984, suscitata allora dall’iniziativa di un giovane algerino, Toumi Djaïda, vittima, anche in quel caso, di violenze poliziesche. Solidamente radicato in un presente e in un passato di lotte antirazziste, l’engagement del Comitato Adama risuona oggi in un contesto internazionale in cui in molti paesi – gli Stati uniti, naturalmente, ma anche altri paesi ex colonialisti e schiavisti – gli e le attiviste antirazziste sollevano la questione del continuum che lega l’esperienza colonialista, caratterizzata, nelle irriducibili specificità delle diverse storie nazionali, da analoghe forme di disumanizzazione, sfruttamento e tortura dei popoli schiavizzati e l’impunità delle attuali violenze sistemiche subite delle popolazioni non bianche.
La presa di parola minoritaria amplia lo spettro democratico
Il 14 giugno scorso, solo 48 ore dopo una seconda oceanica manifestazione organizzata dal Comitato Adama a Place de la République a Parigi e in risposta a iniziative prese da alcuni collettivi antirazzisti per sollevare la questione della presenza nello spazio pubblico francese di statue di personalità che avevano sostenuto la schiavitù, il presidente della repubblica francese, Emmanuel Macron, ha preso posizione. E non è quella rappresentata dalle lotte antirazziste. Nel suo «discorso alla nazione», Macron ha sostenuto che «la Repubblica non cancellerà alcuna traccia o alcun nome dalla sua storia», che l’antirazzismo è «fuorviato quando si trasforma in comunitarismo, in riscrittura odiosa o falsa del passato», «quando viene recuperato dai separatisti». Eppure basta guardare i fatti, per vedere chi sono «i separatisti», chi sono coloro che «tagliano la Repubblica in due». Lungi dal voler stabilire i fatti dell’affaire Adama, il vertice dello stato francese, dal presidente della repubblica ai vari ministri dell’interno che si sono succeduti al dicastero dal 2016 a oggi, hanno scelto di sostenere incondizionatamente la polizia, di negare l’esistenza di violenze perpetrate da coloro che dovrebbero garantire il rispetto della legge e la tutela dei diritti, al punto che i più alti rappresentati dello stato francese ricusano anche solo l’uso dell’espressione «violences policières». Lo stato – il suo vertice e le sue amministrazioni – difendono sempre e comunque l’ordine di polizia che dovrebbe mantenere l’ordine pubblico. Ma di che ordine si tratta? Di un ordine democratico? Questa difesa si presenta, piuttosto, come il segno di una de-democratizzazione, come la spia di una preoccupante dipendenza del potere politico dal corpo della polizia. Dipendenza che appare oggi tanto forte in ragione di una perdita di legittimità politica del potere in carica dinanzi al moltiplicarsi della contestazione da parte di sempre più numerosi movimenti sociali. La morte di Adama Traoré e il suo trattamento politico, giudiziario e mediatico sono la prova che la Repubblica francese cancella costantemente tracce e nomi dalla sua storia. Le tracce dei crimini della polizia, per esempio, o i nomi delle vittime. A giugno, Christophe Castaner, all’epoca ministro dell’interno, ha chiesto di «modificare» un affresco raffigurante insieme Adama Traoré e Georges Floyd e recante il messaggio «contro il razzismo e la violenza della polizia». La morte di Adama Traoré e il suo trattamento politico, giudiziario e mediatico sono la prova che sono i rapporti di potere a comandare la scrittura della storia. La lotta del Comitato Adama e il suo successo politico sono, invece, la dimostrazione che le lotte dei gruppi minoritari possono riscrivere la storia, dando voce ai gruppi inferiorizzati e discriminati. Accusati di radicalismo, di censura, di «politically correctness», di «comunitarismo», di «cancel culture» (categorie farlocche create da chi la parola la monopolizza per far tacere i gruppi minoritari), i movimenti antirazzisti attuali – ma lo stesso vale per i movimenti femministi e i movimenti Lgbtqi – altro non fanno che rendere visibile ciò che non lo era: la dimensione sistemica delle discriminazioni subite dalle persone non bianche – lo stesso vale nel caso delle donne e delle persone Lgbtqi. Così facendo, lungi dal precarizzare la democrazia, ne ampliano lo spettro, restituendo senso e sostanza alle nozioni di «uguaglianza» e di «universale» che della democrazia dovrebbero essere il sale.
*Sara Garbagnoli è ricercatrice presso l’Université de Paris 8. Ha co-curato Non si nasce donna (Alegre) ed è co-autrice di La crociata anti-gender (Kaplan).
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