La vita di chi fotografa
«Non sono una fotografa – diceva di sé stessa Letizia Battaglia – Sono una persona che fotografa». Da qui scaturiva la sua capacità di entrare in empatia coi soggetti che rappresentava
Per fare una buona foto non è importante cosa c’è davanti. Quello che conta è cosa c’è dietro: la vita di chi fotografa. Questo pensava Letizia Battaglia, che nell’arte la propria vita ce l’ha messa tutta. Non nel senso decadentista del fare della propria esistenza un’opera d’arte, né in quello di un’estetica autoreferenziale e compiaciuta. Letizia raccontava di sentir spesso risuonare dentro di sé un verso di Ezra Pound: «Strappa da te la vanità». Detestava i colleghi che si autoincensavano, quelli che sembravano conoscere solo la propria opera, lei, prima donna europea a ricevere il prestigioso premio Eugene Smith, che non ha mai smesso di studiare, da autodidatta, l’arte dei grandi fotografi, delle fotografe soprattutto.
L’esperienza di vita conta in Letizia Battaglia perché è da essa che scaturisce la sua capacità di entrare in empatia con il soggetto rappresentato: solo se si è vissuto profondamente, se si è attraversato il dolore, si può sentire l’altro, l’altra, nella propria carne, nelle ossa, nei nervi. E così, osservando la sua produzione, via via, foto dopo foto, non sono gli omicidi di mafia o la vita nei quartieri popolari di Palermo quello che scopriamo, ma è la persona Letizia Battaglia, la sua umanità e la sua storia, che ci appartiene. «Non sono una fotografa – diceva di sé stessa – Sono una persona che fotografa».
C’è un’immagine che amo molto, non scattata da Letizia, ma che la ritrae: mentre balla tra la gente in piazza Pretoria a Palermo. Mi sembra che la rappresenti molto, più di quella iconica in cui è in posa con la scritta «mafia» graffitata su un muro alle spalle. Tra la gente della sua città amata, danzante, lieve. Chi l’ha conosciuta racconta che era una donna leggera. Come tutte quelle che nella propria vita hanno sofferto molto. Quelle che si espongono agli accadimenti, che si lasciano bruciare la pelle. Quelle che non possono odiare, solo pretendono giustizia.
Aveva un nome che è un ossimoro. Ma non per lei, convinta che non potesse esserci battaglia senza letizia. Un nomen omen, che sembra custodire un destino. A me piace ancor più pensarlo come una promessa, fatta a sé stessa e a noi.
La vita di Letizia era stata dura. Da bambina aveva subito le molestie di un uomo che l’aveva costretta a guardarlo mentre si masturbava. Dopo questo fatto il padre non le aveva più permesso di uscire: aveva vissuto a lungo sotto la stretta sorveglianza della famiglia, come se avesse qualche colpa lei, per il solo fatto di essere nata femmina. Da allora aveva sempre agognato la libertà, e aveva creduto di trovarla in un matrimonio precoce, a soli sedici anni. Era stata un’altra gabbia, di cui riuscì a liberarsi solo molto più tardi. A quarant’anni, un’età nella quale per la maggior parte delle persone sembra essersi irrimediabilmente determinato l’indirizzo della propria esistenza, Letizia inizia una nuova vita e nasce come fotografa. Ri-nasce, questa volta da sé stessa.
Lascia il marito, si trasferisce a Milano, dove entra in contatto con l’ambiente intellettuale della città. Conosce Pasolini e documenta l’esperienza del Teatro sperimentale alla Palazzina Liberty di Dario Fo e Franca Rame. La prima macchina fotografica gliela regala l’amica Marilù Balsamo, perché non ha i soldi per comprarla. Si avvicina alla fotografia per necessità, perché doveva guadagnare. La passione arriverà solo dopo. In realtà avrebbe voluto fare la giornalista, le piaceva scrivere, usare le parole. Ma i giornali le chiedono foto a corredo dei suoi pezzi. E così impara a fotografare. Non le interesserà mai la tecnica, convinta che per fare buone foto serva la testa e il cuore, più che l’attrezzatura.
La passione per la narrazione, invece, si riconosce anche nelle immagini. Diventa fotoreporter per il coraggioso giornale di Palermo L’Ora. Sono gli anni Settanta, nel capoluogo siciliano è in corso la seconda guerra di mafia, quella dei brutali Corleonesi. Gli omicidi si ripetono con cadenza quotidiana, la gente non esce più di casa la notte, anche di giorno ha paura. Letizia, unica donna in un ambiente fatto di uomini, racconta cose di uomini. A volte deve urlare contro le forze dell’ordine e gli inquirenti affinché la lascino passare, le consentano di svolgere il suo lavoro. È una donna: cosa ci fa in mezzo a tutto quel sangue? Le rivolgono occhiate di sufficienza. Lei impara ad alzare la voce, ma anche a sgusciare con il suo corpo minuto tra la calca fino a guadagnare il centro della scena. Vicino, il più possibile vicino ai fatti, ai loro attori.
La sua arte non è mai predatoria, c’è un’etica che si impone davanti a un morto ammazzato come a un vivo che piange un suo caro. Letizia mostra un profondo rispetto per i soggetti che ritrae. Sulla follia sanguinaria che miete vittime colpevoli e innocenti stende sempre un velo di umana pietas. Si tratti di un mafioso o di un giudice, il vero soggetto non è quasi mai al centro della scena. Lo sguardo scivola lateralmente, verso un particolare che investe di un significato altro il quadro rappresentato, la scena maggiore, fatta di sangue e orrore. È la mano quasi immacolata, poggiata sul sedile, nella foto del giudice Cesare Terranova riverso nel sangue nell’abitacolo della sua auto; il Cristo ritratto sulle spalle di un mafioso ammazzato nella foto intitolata «I due Cristi»; il chiarore dei capelli di Sergio Mattarella mentre raccoglie il corpo di suo fratello Piersanti. Un particolare che conferisce delicatezza all’immagine, che preserva la dignità dell’essere umano. La delicatezza era anche il motivo per cui Battaglia ha sempre preferito il bianco e nero. Il colore è chiassoso, diceva. Con il colore non si può raccontare il dolore; il colore non sa essere gentile.
Non usava il teleobiettivo, lo riteneva vile. I suoi soggetti dovevano sapere di essere fotografati. Diceva loro «Guardami» o «Non guardarmi». Non lo diceva ai mafiosi, ma anche loro li ritraeva senza inganno. Gli si parava davanti perché la vedessero, come nella celebre immagine di un Leoluca Bagarella furioso dopo l’arresto: una belva appena catturata che si divincola accecata dalla rabbia. Tentò di colpirla con un calcio e la fece cadere a terra. Pur cogliendone tutta la ferocia, si rifiutava di privarli della loro umanità. L’etica per lei non era solo nel singolo scatto, ma in un percorso: nel mostrare non solo il cadavere dell’ucciso, ma anche le facce dei responsabili. Come quella di Giulio Andreotti, in una fotografia riuscita male, mossa, che, acquisita dalla Dia, rappresentò una delle principali prove dell’accusa nel processo contro l’esponente democristiano.
Ma Letizia non amava essere definita «la fotografa della mafia». Contro la mafia, semmai. In realtà, si sentiva soprattutto la fotografa di Palermo, della sua gente, delle donne e delle bambine. Nel 1992 disse basta, non aveva più la forza. Non volle recarsi a Capaci, a documentare la strage di Falcone e della sua scorta. Di quella pagina tragica della nostra storia ci lascia l’immagine di Rosaria Costa, moglie dell’agente Schifani, un viso dolente, tagliato in due, metà luce, metà ombra. Era invece a via D’Amelio. Ma davanti al corpo straziato di Borsellino, di cui riconosceva solo la pancia, si rifiutò di scattare. Da quel giorno abbandonò la cronaca di mafia.
La gente comune, le donne e le bambine, invece, le raccontò sempre, prima e dopo quel 1992. Appaiono spesso anche nelle foto di mafia: la donna ritratta in un gesto di disperazione, i piedi nudi e le gambe insanguinate, davanti al corpo massacrato del marito Vincenzo Battaglia, colpito mentre andava a comprare i cannoli; oppure quella che insieme ai suoi bambini si sporge con circospezione dall’angolo di un vicolo per vedere cosa accade.
Oltre alle donne, in molte foto di morti ammazzati appare la targa di una macchina, con la sigla PA, che sembra, insieme ai colpi sparati, inchiodare la vittima a una terra martoriata e abbandonata a sé stessa dalle istituzioni.
Una foto di Letizia, meno celebre di altre, mi colpì particolarmente quando ne visitai la grande mostra al MAXXI di Roma. Ho poi scoperto che anche a lei era particolarmente cara. Ritraeva una donna e dei bambini in un letto. La fotografa si era affacciata alla porta aperta di una povera abitazione e vi aveva visto dentro questi figli e questa madre. Era mezzogiorno. Aveva chiesto cosa facessero ancora a letto a quell’ora e la signora aveva risposto che trascorrevano tutta la giornata distesi, perché non avevano niente, né acqua, né elettricità. Perché alzarsi? Sembrerebbe la foto di un’epoca lontanissima, se non fosse per un dettaglio: un lenzuolino sui cui è stampato un Bambi disneyano. Cristo era rimasto fermo a Eboli, ricordo che pensai. Forse è ancora là.
Per lei l’arte non poteva che essere politica; di più: rivoluzionaria. Letizia prendeva parte, anche attraverso la sua frenetica attività editoriale, le iniziative di formazione, il teatro, pensati per lo più per le donne. Nei suoi discorsi torna spesso la parola «dovere», insieme alla parola «libertà», spesso intimamente connessa a quest’ultima. Raccontava di sentire ancora, a distanza di trent’anni, l’odore del sangue nelle narici, di non poter dimenticare, di non dover dimenticare. Ai giovani e alle giovani diceva che hanno il dovere di rovesciare i vecchi e cambiare il mondo: il dovere, non solo il diritto.
I suoi soggetti se li andava a cercare, li sceglieva: erano gli ultimi, coloro che vivono ai margini, talvolta gli esponenti di una borghesia volgare ritratta con il gusto del grottesco sullo sfondo di sale sfarzose.
I volti del potere politico e criminale si intrecciano con quelli delle persone comuni: testimoni dolenti, vittime innocenti, un coro da tragedia greca condannato a un destino da cui non è possibile liberarsi. Le bambine no, le bambine ci guardano dritto in faccia, pretendono che prendiamo posizione, con i loro sguardi seri, gli occhi che sono un pozzo nero. «Quelle bambine sono io – ha dichiarato la fotografa in diverse occasioni – Le cerco, perché cerco me».
Forse non si può fare un’arte vera e universale, un’arte capace di raccontare la vita senza infingimenti, di restituire il dramma dell’essere umani gettati nell’esistenza, senza partire da sé stessi, nudi, per trovare alla fine del cerchio ancora sé stessi, ancora più nudi. Quel primo altro inaggirabile che è ogni individuo a sé stesso, inconoscibile, però, se non si è passati attraverso l’esperienza degli altri-altri. Perché è solo attraverso loro, attraverso i loro sguardi, i loro corpi, le loro parole, che possiamo riconoscerci e dare un senso al nostro esistere. In questo Letizia Battaglia ci ha offerto un contributo prezioso, del quale non smetteremo mai di esserle grati.
*Assia Petricelli è insegnante di lettere nei licei, sceneggiatrice e documentarista. Il suo fumetto Cattive ragazze (Sinnos, 2014), realizzato con il disegnatore Sergio Riccardi, ha vinto il Premio Andersen. Sempre con Sergio Riccardi è autrice della graphic novel Per sempre (Tunuè, 2020)
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