Da Lampedusa a Cutro. E ritorno
Tra decreti e stragi di stato, da dieci anni il laboratorio della segregazione e della militarizzazione delle frontiere produce morti
A dieci anni dalla strage del 3 ottobre 2013, dove persero la vita almeno 368 persone, Lampedusa continua a essere uno degli snodi del regime di frontiera europeo: muro del confine che mette sistematicamente fine alla vita umana, nonché centro di applicazione dell’approccio hotspot a cui sono sottoposti i nuovi arrivati costretti alle procedure di controllo e trattenimento utili all’incanalamento giuridico e alla selezione delle persone migranti ai fini del loro rimpatrio o della loro espulsione. Paradigma di un’«emergenza migratoria» sapientemente prodotta e indotta, Lampedusa è ormai da decenni esperimento riuscito di una crescente militarizzazione e segregazione che caratterizza il transito delle persone che raggiungono l’Europa.
Nelle ultime settimane, l’isola ha vissuto momenti di eccezionalità a seguito dell’arrivo di migliaia di persone migranti dalla Libia e dalla Tunisia: una situazione paragonabile solo al 2011, quando la caduta del regime di Ben Ali causò l’arrivo a Lampedusa di decine di migliaia di persone dalla Tunisia e che oggi, nel 2023, si ripete a causa del nuovo regime liberticida che si è imposto nella terra del gelsomini. Qui, dal 2021, il presidente Kaïs Saïed – con cui l’Europa stringe accordi – ha progressivamente eroso le prerogative e le istituzioni democratiche, colpendo la libertà di espressione e instaurando una diretta campagna razzista contro la popolazione migrante e straniera, costretta a fuggire per le persecuzioni, in un contesto già fortemente critico anche a causa del gravissimo impoverimento economico. La popolazione di origine subsahariana, sotto attacco in Tunisia, sta raggiungendo a migliaia le coste nord del Mediterraneo, scappando principalmente dalla città di Sfax dove le forze dell’ordine hanno incrementato le azioni violente contro i rifugi delle persone subsahariane dispiegando mezzi militari per compiere azioni definite di «anti-terrorismo».
Nella settimana del 12 settembre, il collasso dell’hotspot di Lampedusa, la mancanza di cibo e di beni di prima necessità per le persone appena sbarcate ha portato a una rottura – estemporanea e limitata – della normale segregazione a cui le persone straniere sono normalmente destinate: per alcuni giorni, caratterizzati da sbarchi continui, queste hanno circolato liberamente sull’isola, fuori dal centro di identificazione e dai luoghi di smistamento, attraversando gli spazi pubblici, dal porto alle vie principali della cittadina, riappropriandosi momentaneamente delle strade da cui normalmente vengono escluse. Fotografate come fenomeno dai media internazionali, trasformate in un capro espiatorio da chi soffre a Lampedusa di problemi strutturali come la malasanità, supportate nelle loro richieste da alcune realtà solidali, la presenza di queste persone è stata anche oggetto di strumentalizzazione politica.
La presidente del consiglio italiano Giorgia Meloni e la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Layen sono giunte a Lampedusa per una visita ufficiale il 17 settembre, trascorrendo circa due ore nei luoghi di selezione e trattenimento dell’isola – dove per l’occasione era stata ripristinata la condizione di «centro chiuso» dell’hotspot riportando forzatamente al suo interno tutte le persone – ed effettuando l’ennesima passerella di rappresentanza istituzionale in una lunga storia di promesse politiche. In particolare, la Presidente Meloni, citando il Memorandum tra Italia e Tunisia e auspicando che possa essere propedeutico ad accordi simili con altri paesi del Nordafrica, ha ribadito la validità dell’esternalizzazione della frontiera come linea di governance migratoria nel Mediterraneo, promettendo ancora i «blocchi navali» come soluzioni alla questione degli spostamenti umani. In tal senso, dopo i fatti di Lampedusa, la Commissione europea ha annunciato l’erogazione di 127 milioni di euro come sostegno finanziario alla Tunisia di cui 65 milioni per la gestione dei flussi migratori e la sorveglianza dei confini.
Dalle frontiere esternalizzate, al molo di sbarco ai palazzi del potere, la risposta alle giornate di Lampedusa e agli arrivi in Sicilia coincide ancora una volta con un approccio militare contro le persone in movimento. Al molo Favarolo dove le persone appena approdate sono state abbandonate per ore sotto al sole cocente senza acqua, cibo e assistenza, le manifestazioni di malessere e dissenso da loro espresse sono state represse dalle cariche della polizia che, con manganelli e altre armi, le ha respinte con forza sulla banchina.
La violenza di cui Lampedusa è plateale manifestazione, non dipende però dall’aumento degli arrivi ma piuttosto dalla negazione costante del diritto alla libera circolazione e all’asilo nonché dallo smantellamento del sistema di accoglienza a livello italiano ed europeo. Questa continua a essere la vera emergenza di più ampio respiro. La guerra contro le Ong, la riduzione delle operazioni di soccorso delle barche in distress nel Mediterraneo così come la distruzione del sistema di asilo in Italia precedono il governo Meloni ma lo caratterizzano per particolare efferatezza nel modo in cui la violazione dei diritti è implementata, adottando misure ancor più gravi alla luce del diritto internazionale, delle normative interne e della Costituzione.
Cutro ne è l’esempio più evidente: per la prima volta nella storia, il governo attuale ha utilizzato il nome del luogo di una strage di decine di persone – avvenuta in Calabria, a Steccato di Cutro (Kr) il 26 febbraio scorso – per intitolare un provvedimento normativo, la Legge 50/2023 (DL 20/2023), che crea discriminazione, povertà ed esclusione. La creazione di centri di detenzione che permettano un esame «accelerato» delle domande di asilo, la cosiddetta «procedura di frontiera», è stato il primo di una serie di proposte normative che hanno ristretto la libertà personale e, in nome di un massacro, hanno risposto con misure ulteriormente repressive ai movimenti delle persone. A seguire, il governo ha introdotto una nuova misura per l’ampliamento del sistema di detenzione del Cpr, con l’estensione del trattenimento fino a 18 mesi e una proposta di legge volta a facilitare i rimpatri dei cittadini stranieri. Infine, è stata proposta l’introduzione di una sorta di cauzione di 4.938 euro per i richiedenti asilo che provengono da paesi terzi considerati sicuri e che vogliono evitare di essere reclusi al loro arrivo. Così, oltre a ostacolare il diritto di asilo e le garanzie del diritto di difesa, le prassi istituzionali sono pericolosamente paragonabili a quelle adottate dalle milizie libiche, stabilendo un prezzo in cambio della libertà delle persone.
Accordi con paesi come la Tunisia e la Libia, che non rispettano i diritti umani; il potenziamento del sistema di detenzione amministrativa; il trattenimento dei richiedenti asilo; e l’eliminazione delle tutele per i minori stranieri non accompagnati sono alcune delle cose che stanno segnando la gestione migratoria non solo nell’isola maggiore delle Pelagie ma a livello regionale in luoghi meno noti e meno raccontati: Porto Empedocle, Pozzallo, Trapani sono altri snodi della filiera del sistema detentivo attraversati dalle persone in transito. Qui le nuove misure del governo vengono applicate nei centri hotspot, nei Cpri e nelle tensostrutture che, dopo Lampedusa, imprigionano le persone. Luoghi di detenzione dove non mancano dimostrazioni di libertà e di liberazione espresse dalle persone richiedenti asilo – come nel caso delle proteste delle donne guineane recluse per giorni in condizioni disumane nella tensostruttura di Porto Empedocle – oltreché opposizioni sul piano giuridico da parte di chi conosce e applica correttamente la legge, come nel caso della giudice del Tribunale di Catania che non ha convalidato il trattenimento per alcuni cittadini tunisini reclusi nel Cpri di Pozzallo, mettendo in risalto i difetti normativi del nuovo decreto del governo Meloni.
A dieci anni dal 3 ottobre 2013, la vera emergenza – quella che è complementarmente normalizzata e strumentalizzata – restano le morti e le sparizioni in mare in mancanza di un diritto di circolazione e spostamento accessibile a tutti. L’istituzionalizzazione della giornata del 3 ottobre a Lampedusa continua a essere, a tanti anni di distanza, l’espressione palese di una memoria tradita, affondata e sepolta a colpi di discorsi saturi di demagogia dove a prevalere davvero sono le necropolitiche della frontiera fatta di accordi con i paesi terzi e decreti nazionali che precedono e seguono queste stragi di Stato. Né i numeri – oltre 28 mila persone morte o disperse lungo le rotte del Mediterraneo centrale dal 2014 – né la narrazione da passerella, più o meno istituzionale, che come ogni anno porta i riflettori sulla terra lampedusana, possono raccontare di dieci anni di morti dimenticate, di naufragi resi invisibili, di violenze rimosse, di storie negate, di lotte familiari e comunitarie.
Lampedusa come Cutro: non associate i loro nomi per le Giornate della Memoria per le vittime della migrazione, non chiamateli Decreti. Abbandoniamo la parola emergenza, rifiutiamo la parola tragedia. A dieci anni dal 3 ottobre 2013 di Lampedusa e a pochi mesi dal 26 febbraio 2023 di Cutro abbiamo avuto nel mezzo il 12 maggio 2014, il 18 aprile 2015, il 7 maggio 2017, il 7 ottobre 2019, il 30 novembre 2019, il 25 luglio 2020, il 21 febbraio 2021… lunga è la lista dei massacri, avvenuti in diversi luoghi, di cui nulla queste istituzioni conservano, che le grandi organizzazioni addette ignorano, che l’opinione pubblica disconosce, che i processi politici volutamente rimuovono.
L’unica memoria da custodire è scevra di retorica umanitaria a scadenza periodica: è quella pratica attiva e quotidiana di ricerca vigile di verità e giustizia. Quella progettualità operativa, di comunità nate dal basso, che permette di denunciare con consapevolezza questa guerra letale. Anche oltre Lampedusa, anche dopo il 3 ottobre. Bisogna dunque avere il coraggio di stare – collettivamente e politicamente – anche in tutti gli altri luoghi e in tutte le altre date dimenticate. È lì l’unica resistenza possibile.
*Silvia Di Meo è antropologa e ricercatrice in migrazioni presso l’Università di Genova. Si occupa di etnografia delle frontiere e delle mobilita/azioni delle persone migranti nell’area mediterranea, in particolare in Sicilia e Tunisia. Fa parte del progetto Mem.Med Memoria Mediterranea.
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