L’Emilia è paranoica
La campagna elettorale procede per narrazioni e miti: da una parte si promette di difendere un baluardo di civiltà, dall'altra di liberare l'ultimo fortino rosso. Due immagini che non aiutano a capire cosa accade da quelle parti
Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
«Non possiamo consegnare l’Emilia-Romagna alla destra»: sono chiare e semplici le parole di Pier Luigi Bersani, che di questa regione fu presidente per un triennio, a metà degli anni Novanta. Un imperativo categorico che quasi trascrive un dovere morale: non lasciare spazio all’avanzata della Lega che ha di recente conquistato Ferrara e Forlì e che, in vista delle elezioni regionali del 26 gennaio prossimo, rischia di arrivare al governo della regione; conservare a tutti i costi il potere in quella che già nel 1946 Togliatti, in un suo celebrato discorso, definiva una regione «rossa», dove sarebbe dovuto battere, ancora più forte, «il cuore della nazione». Un discorso mitologico, capace di generare un immaginario, una retorica e nuove pratiche discorsive che stanno già condizionando la campagna elettorale.
Lo slogan del presidente uscente e ricandidato è scabro ed essenziale: «Siamo l’Emilia Romagna». Idee senza parole raccolte intorno a una formula all’apparenza neutra, ma carica di retorica, capace di descrivere i contorni di una regione-locomotiva che dimostra ogni giorno la propria differenza, quasi un’alterità costitutiva che, grazie al pragmatismo riformista del Pd (anche nelle sue precedenti incarnazioni), le permette di essere la regione prima in Italia per qualità della vita, tasso di occupazione e qualità dei servizi, a partire dalla sanità. I dati e le statistiche sembrano del resto suffragare la narrazione monocorde del Pd: quella di un buongoverno che non si può discutere, capace di generare il migliore dei mondi possibili, un modello di gestione e pratiche amministrative che tutti gli altri dovrebbero imitare.
Lo slogan, nella sua banalità, sembra innestarsi pericolosamente in un discorso antropologico dalle sfumature neocoloniali: questa diversità è un carattere quasi genetico, di un popolo diverso dagli altri e di una regione a sua volta diversa da tutte le altre. Il popolo emiliano-romagnolo sarebbe solidale, aperto, composto da lavoratori infaticabili che sanno rimboccarsi le maniche, rialzarsi dopo la crisi, ricostruire ciò che è stato distrutto da un evento tragico come il terremoto modenese del 2012. In questa «terra promessa» come Ortese definisce Bologna in un suo articolo degli ultimi anni Quaranta, riluce la «fierezza e soddisfazione» (Togliatti) dei suoi cittadini. Ma l’Arcadia è per la prima volta contesa, e duramente, da un’estrema destra pericolosa e barbara, guidata da persone che «non conoscono questa regione» e che seminano odio, dividono, generano paura. Privi di cultura di governo e di radicamento sul territorio, i partiti del centrodestra candidano una senatrice leghista che non conosce l’amministrazione pubblica e che ha addirittura difficoltà a elencare i confini del territorio regionale. E che è ricordata soltanto per battaglie identitarie dall’alto tasso di violenza: contro i campi nomadi e contro gli immigrati. Ad accompagnarla verso la conquista della regione, oltre a Matteo Salvini, anche i sodali di Fratelli d’Italia guidati da Galeazzo Bignami, intento nelle scorse settimane a riprendere in un video i campanelli degli stranieri residenti in case popolari nel quartiere della Bolognina.
Barbari sognanti
Appena oltre il Po, poco più a Nord, è con quegli stessi barbari e con il supporto degli ultimi quattro governi che la regione ha portato avanti il proprio progetto di autonomia differenziata. Se Bonaccini «rivendica il percorso comune fatto con Lombardia e Veneto», ci tiene anche a ribadire la sostanziale differenza del progetto emiliano-romagnolo rispetto alla vera e propria secessione delle due regioni a guida leghista. Attilio Fontana e Luca Zaia puntano a riportare in seno alla regione ben ventitré competenze, fra scuola, sanità e tutela del patrimonio culturale, mentre l’Emilia-Romagna si limita soltanto a sedici. Questa «proposta che premia una Regione virtuosa e con i conti in ordine, che vuole continuare a crescere facendo crescere il Paese, non certo spaccarlo», sono le parole del presidente, viene presentata come un’autonomia calmierata, meno dura di quella proposta dai governatori leghisti, nel pieno rispetto dei valori costituzionali e dell’unità dello Stato.
Il discorso è marcatamente pre-politico, innestato sulle categorie etiche della responsabilità e della meritorietà che si coniugano con quella dell’efficienza, garantita da un’amministrazione virtuosa nel gestire i bilanci e nell’erogare i servizi. Ma dal punto di vista politico, c’è il vuoto: non è precisato quale disegno di società ci sia dietro all’autonomia differenziata, quale sia il rapporto da instaurare con lo Stato centrale e con le altre regioni. Non sono chiare (anche se si possono immaginare) le ragioni per cui alcune competenze, come per esempio quelle legate alla tutela paesaggio e ai beni culturali, debbano essere avocate al governo regionale. Non si riesce a capire, in questa nuova configurazione regionale, quanto spazio verrà dato ai soggetti privati nell’erogare i servizi, nel costruire un «sistema integrato» fra pubblico e privato. L’ennesimo modello (perché di modelli c’è un bisogno quotidiano in questa regione), attuato fin dagli anni di Errani, che in molti casi ha finito per offuscare il ruolo del pubblico nell’erogazione dei servizi essenziali.
Assente dalle discussioni elettorali, se si escludono i partiti di sinistra opposti al Pd, la devoluzione emiliano-romagnola sembra non interessare veramente nessuno. Eppure il compimento definitivo del regionalismo differenziato sarebbe la fine dello Stato disegnato dalla carta costituzionale, renderebbe più acute le disuguaglianze fra regioni, generando cortocircuiti amministrativi e politici dagli effetti dirompenti. Critiche analoghe sono giunte pure da alcuni costituzionalisti e dai sindacati, in particolare da quelli della scuola, che si sono espressi contro il progetto. Anche alcuni dei «coraggiosi» a sostegno di Bonaccini si sono espressi contro l’autonomia differenziata, ma non è chiaro quanto queste posizioni potranno pesare nella nuova coalizione. Resta una certezza: l’Emilia-Romagna è una regione efficiente e deve poter decidere più velocemente come fare le cose, come gestire la sanità, come incidere nel rapporto fra scuole e imprese. E questo discorso pre-politico, nella sua limpidezza burocratica, cela una visione precisa del governo regionale, sospeso fra adesione alle pratiche neoliberali e rivendicazioni proto-secessionistiche.
Celebrate anche da Renzi nei suoi anni ruggenti, le fusioni di comuni promosse dalla regione sono state per alcuni anni uno dei cavalli di battaglia di Bonaccini e del Pd, che dalla bassa ferrarese all’alta Val Marecchia fino all’Appennino Piacentino, le hanno sostenute in tutti i modi. La pratica della fusione, disciplinata tramite una legge regionale, è stata presentata come una grande occasione per unire le energie e per ottenere risorse aggiuntive da parte dell’istituzione di viale Aldo Moro. Ma in molti casi, come per esempio nella provincia di Bologna, le fusioni di comuni sono state percepite come un modo per allontanare i servizi dai cittadini, unendo realtà storicamente e culturalmente inconciliabili, per generare benefici difficili da individuare. Lo scorso autunno nei comuni di Castenaso e Granarolo, poi di Baricella e Malalbergo (Bologna), i cittadini si sono espressi con un plebiscito per il no ai progetti di fusione sostenuti con vigore da regione e da Pd locale. Alla categoria dell’efficienza, al ricatto morale della fusione come unica possibilità concreta per garantire la sopravvivenza di comuni piccoli e isolati (come nel caso della Valle del Santerno, a sud di Imola), i cittadini hanno opposto una scelta da molti interpretata come campanilistica. Un «campanilismo» forse, che si esprime però nel legame diretto fra il potere politico locale e i cittadini; un legame che si traduce poi in presidio e conoscenza del territorio, difesa strenua dei servizi pubblici locali, costruzione di uno spazio possibile per la battaglia politica.
Splendore e miseria
Lo splendore dei dati econometrici, degli indicatori sulla qualità della vita e dei servizi pubblici riflette alcuni aspetti: l’Emilia-Romagna è una regione ricca e in crescita, dove ci si cura in ospedali (pubblici e privati convenzionati) all’avanguardia e dove le imprese generano ricchezza e nuovi posti di lavoro. Ma questi dati e questi numeri, che sono il cuore del discorso del Pd e dei suoi alleati, si infrangono con la realtà di una regione che viaggia a velocità diverse.
Se nei centri urbani e nei suburbi, dove il centrosinistra ancora resiste in termini di consensi, la qualità della vita è alta – redditi sopra la media, buon livello di servizi pubblici – nelle aree interne e isolate le cose vanno diversamente. Lontani dai centri decisionali, questi territori marginali, nel cuore dell’Appennino o in fondo alla pianura, presentano problemi non secondari: spopolamento, progressiva chiusura di servizi pubblici essenziali, alti tassi di disoccupazione. Un esempio limite è quello della provincia di Ferrara, dove la disoccupazione è il doppio della media regionale e dove il Pil pro capite di alcuni piccoli comuni orientali è agli stessi livelli di comuni calabresi o siciliani. Negli scorsi anni, anche all’ospedale del Delta di Lagosanto alcuni reparti sono stati chiusi. La stessa sorte era toccata in precedenza all’ospedale della vicina Comacchio e poi ancora ad altri ospedali in comuni isolati, in particolare lungo la dorsale appenninica, dove reparti e punti nascite hanno chiuso progressivamente nel corso degli anni. La lista è lunga e a nulla sono valse le mobilitazioni di cittadini e amministratori sorte sul territorio: Porretta Terme, Borgo Val di Taro, Castelnovo Né Monti, Pavullo, Novafeltria, Vergato, Bobbio. Reparti e ospedali chiusi, al fine di creare poli di eccellenza nei grandi centri urbani.
E anche nei centri urbani, qual è il prezzo dello sviluppo e della crescita? Il capoluogo regionale, in balia dell’esplosione turistica, si sta trasformando radicalmente, rendendo la vita difficile a centinaia di studenti fuori sede a cui è impossibile trovare alloggi dignitosi e a prezzi accessibili. E degradando la civiltà del lavoro, perché i nuovi posti generati dallo sviluppo turistico e commerciale sono spesso di qualità infima o in nero. Questo accade a Bologna, ma anche in Romagna: il giro d’affari miliardario del turismo rivierasco si fa sulle spalle di lavoratori, spesso giovani, che vivono condizioni degradanti, dai bagnini ai baristi impiegati durante la stagione estiva, come denunciato negli ultimi anni dai sindacati.
Il prezzo della crescita trova tracce evidenti anche nelle radicali trasformazioni del paesaggio, nella cementificazione di parti importanti del territorio, in città come in campagna. Siamo in un tempo nuovo, quello delle villette dei geometri, per riprendere la formula di Paola Bonora, simboli di un modello urbanistico non armonico, privo di una visione complessiva di sviluppo e spesso indirizzato dai rapporti particolari fra costruttori e classe dirigente locale. Un problema antico, che risale agli anni Settanta e che ha raggiunto dimensioni esplosive nei primi anni Duemila, fino quando la crisi economica non ha imposto di ripensare nel profondo lo sviluppo urbanistico in regione. Si potrebbe definire una nuova geografia dell’Emilia-Romagna attraverso la mappatura di tutte le costruzioni e gli edifici che testimoniano l’adozione di questo modello disarmonico di sviluppo; un modello che spesso corrisponde a una crescita esponenziale di cubature, in assenza di una pianificazione urbanistica, anche in territori soggetti a rischi idrogeologici concreti. Alcuni studiosi, nel presentare le loro osservazioni alla recente legge regionale sul consumo di suolo, hanno sottolineato luci e ombre di un progetto normativo che non assicura il rispetto dell’ambiente e la sicurezza di fronte al dissesto idrogeologico.
Nel marzo del 2019, molti amministratori locali hanno partecipato a una manifestazione, sostenuta dal governo regionale e dalle associazioni padronali, per chiedere al governo di sbloccare le «grandi opere» necessarie per lo sviluppo del territorio. Alcuni giorni dopo, molti di loro sfilavano insieme a centinaia di giovani alle manifestazioni dei Fridays for future. Se settori importanti del territorio regionale sono sprovvisti di collegamenti ferroviari e i problemi per i pendolari (ad esempio fra la Romagna e Bologna) sono crescenti, le priorità sembrano essere opere come la bretella Campogalliano-Sassuolo, il passante di Bologna, l’autostrada cispadana. In una regione al collasso dal punto di vista ambientale, la costruzione di nuove opere infrastrutturali resta la strada maestra per crescere: la locomotiva ha bisogno di autostrade e superstrade su cui correre, indipendentemente dalle conseguenze per l’ambiente.
Leghisti per anticipazione
Ma c’è anche dell’altro. Nella primavera del 2017, la sindaca di Codigoro, in provincia di Ferrara, decide che i cittadini che ospitano nelle loro case richiedenti asilo devono essere sottoposti ad accertamenti fiscali e igienici. Applaudita da Matteo Salvini, Alice Sabina Zanardi è un’esponente del Pd, eletta in un territorio del Delta con un’antica tradizione di sinistra. Pochi mesi prima, nella vicina Gorino, alcuni residenti, sostenuti dai vertici locali della Lega, avevano alzato barricate all’ingresso del paese per impedire a un gruppo di profughe di raggiungere l’albergo in cui dovevano essere ospitate.
A Bologna, negli ultimi anni, la giunta guidata da Virginio Merola, che in occasione del ballottaggio contro l’anche allora candidata Borgonzoni si era a più riprese appellato al proprio comprovato antifascismo, si è resa protagonista di alcune azioni dall’alto tasso di violenza simbolica, perpetrate contro persone senza fissa dimora. Le immagini di uno dei tanti sgomberi, definito dai giornali locali come una vera e propria «operazione anti-clochard», mostrano il realizzarsi di pratiche volte a eliminare tutti i soggetti che esprimono una diversità costitutiva, vivendo per strada e intaccando la pulizia e l’ordine della città. Questa guerra contro i poveri e contro gli elementi di «degrado» è portata avanti, con la fierezza di chi vuole ripristinare il decoro di fronte a situazioni di illegalità, da parte di amministratori locali che si identificano come di centrosinistra e che, sulla carta, vogliono marcare la loro distanza rispetto a Salvini e Borgonzoni. Ma le immagini di questo sgombero, uno dei tanti, mostrano chiaramente una sola cosa: il dispiegarsi di una violenza di classe contro i subalterni, peraltro legittimata dal dispositivo repressivo rappresentato dal Daspo urbano introdotto con il decreto Minniti. Uno strumento utilizzato con profitto anche a Modena, Ferrara e in altre città della regione. Il caso di Ferrara è particolarmente rappresentativo, perché in città è arrivato anche l’esercito. E le politiche securitarie adottate dal locale Pd hanno avuto un risultato storico: quello di decretare la vittoria di Alan Fabbri (leghista) al ballottaggio dello scorso giugno.
Del resto, una simile guerra contro i poveri era stata lanciata, più di dieci anni fa, anche da Sergio Cofferati: nel mirino dell’allora sindaco di Bologna erano finiti i lavavetri che importunavano gli automobilisti sui viali di circonvallazione. Più di recente, era stato Dario Mantovani, sindaco Pd di Molinella (Bologna), a vietare, con un’ordinanza, l’accattonaggio sul territorio del suo comune, nel cuore della pianura bolognese. L’ordinanza è poi stata cassata dalla Presidenza della Repubblica, ma resiste il suo linguaggio burocratico e affilato, secondo cui l’accattonaggio «provoca disagio ed insicurezza nella popolazione di questo Comune, lede l’immagine della città e suscita una percezione distorta e difforme della realtà[…]».
Raccolti intorno all’uscente Bonaccini, che si vuole «sindaco dell’Emilia-Romagna» come Renzi si voleva «sindaco d’Italia», i sindaci dei comuni della regione, alcuni di loro leghisti per anticipazione, giocheranno un ruolo fondamentale nella campagna per la rielezione del presidente, che li ha chiamati a raccolta attraverso un appello firmato da oltre duecento di loro. Anche in una sera di novembre, a Bologna, migliaia di cittadini si sono riuniti in piazza Maggiore per manifestare la propria opposizione a Salvini e alla Lega, dando vita al cosidetto fenomeno delle «sardine» poi moltiplicatosi in altre città. Il personale politico del Pd, in larga parte presente all’iniziativa, ha visto in quella piazza il simbolo nitido di una regione che «resiste» e «non si lega», votando quindi, in automatico, il loro candidato. Alcuni giorni fa, a Bologna, una lista di «coraggiosi» si è manifestata, dichiarando il proprio sostegno al presidente uscente Stefano Bonaccini e al suo progetto politico. Fra questi coraggiosi si registrano l’ex presidente Errani, l’ex eurodeputata Elly Schlein, consiglieri regionali di Sinistra Italiana e anche il giuslavorista Pier Giovanni Alleva, negli ultimi anni all’opposizione. Sostenuta anche da esponenti delle associazioni, dell’ecologismo e del sindacato, la lista ha annunciato di puntare tutto sull’ambiente, sull’antifascismo e sull’accoglienza, per imprimere una svolta nel governo regionale. Ma le linee programmatiche della lista sembrano infrangersi contro le scelte politiche del governo regionale e, anche, contro i recenti annunci del presidente uscente sulle infrastrutture e sull’autonomia.
D’altra parte, questa campagna è dominata da narrazioni o da costruzioni simboliche: la regione-locomotiva, culla di civiltà e di umanità, testimonianza concreta di un buongoverno indiscutibile, nel caso del centrosinistra. La regione da liberare, ammantata da una cortina di ferro e dal dominio tentacolare della sinistra, nel caso dell’estrema destra. Queste pratiche retoriche e discorsive spingono, così, ai margini del dibattito le grandi scelte sul regionalismo differenziato, i servizi pubblici e le infrastrutture. Scelte che al momento rendono difficile capire cosa distingua politicamente Bonaccini dai governatori leghisti con cui ha sviluppato il progetto dell’autonomia differenziata che farà a pezzi il paese e darà il via a quella che è a tutti gli effetti una secessione dei ricchi dalle conseguenze ancora incalcolabili.
*Jessy Simonini è dottorando in Letteratura francese e insegnante all’Università di Nantes
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