Mobili e sfruttati: dietro la crescita cinese
Centrali per il sistema produttivo eppure al punto più basso della piramide sociale: i lavoratori che si spostano dalla campagna alla città sono i nuovi poveri
Nella Repubblica Popolare Cinese contemporanea la lotta di classe si sta sempre di più consolidando all’interno della società. Diversamente da quanto si possa immaginare, la complessità del conflitto non è più solamente gerarchica all’interno di una singola società, ma si definisce anche come conflitto trans-societario tra zone rurali e zone urbane. Queste realtà obbediscono a due diversi parametri sociologici che si incontrano quando si parla di lavoratori migranti dalle campagne alle città. Nonostante la loro centralità nel sistema produttivo cinese, le loro condizioni di vita sono tra le peggiori e la loro condizione illegale, informalmente accettata, li costringe al rango più basso di una ferrea piramide sociale tornata in voga negli ultimi quaranta anni.
Dalla forza contadina allo sfruttamento migrante
Il 1 ottobre 1949 Mao Zedong proclamava la Repubblica Popolare Cinese, ponendo fine alla guerra civile che aveva visto contrapposti il blocco dei nazionalisti guidato da Chiang Kai-Shek e quello dei comunisti guidato da Mao Zedong. Il cambiamento ideologico che il Partito comunista cinese (Pcc) intraprese durante il devastante anno della Lunga Marcia, dall’ottobre 1934 all’ottobre 1935, epicamente raccontata da Edgar Snow in Stella Rossa sulla Cina, spostò il centro dell’attenzione dell’ideologia marxista-leninista cinese dai centri urbani alle aree rurali di una Cina che ancora respirava profondamente i giochi di potere feudali e la privazione territoriale di alcune aree geografiche a favore di potenze terze.
Tra il 1921, anno della fondazione del Pcc a Shanghai, e il 1935 il Pcc aveva focalizzato la propria attenzione sulle zone urbane e sul proletariato, richiamando la classica filosofia marxista, senza però riscuotere successo tra la popolazione. Dopo quindici anni di mancata affermazione, il Pcc intraprese una riforma ideologica, dettata dalle circostanze drammatiche della Lunga Marcia, focalizzandosi sulle campagne. In questo modo il Partito trovò un crescente interesse popolare poiché riuscì a incanalare la fonte di legittimazione di potere sul piano della liberazione dai tre nemici principali: i nazionalisti, i proprietari terrieri e i giapponesi. Nei mesi successivi alla liberazione del 1949, Mao Zedong si rese conto della necessità di controllare il flusso migratorio dalle campagne alle zone urbane che si sarebbe sviluppato inevitabilmente. Infatti, i contadini avrebbero iniziato a riversarsi nelle città con l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni di vita, creando un cortocircuito ideologico tra gli obiettivi maoisti e la realtà sociale cinese. Per questo motivo, il leader cinese impose una riforma del sistema di documentazione della popolazione in modo da poter assicurare la stabilizzazione del potere appena acquisito. Infatti, in questa documentazione si distinguevano i sostenitori comunisti da quelli nazionalisti durante la guerra civile e, successivamente, venne anche introdotta la dicitura sulla possibilità di movimento dell’individuo al di fuori della propria zona di residenza (chiamato sistema hukou in cinese). In vigore ancora oggi, esistono tre categorie di movimento garantite ai cittadini cinesi. La prima si riferisce alla possibilità per gli individui residenti nei villaggi rurali adiacenti alla zona urbana di potersi muovere verso la città di riferimento. La seconda classificazione permette agli individui della stessa provincia, ma di differente municipalità, di potersi muovere nella municipalità confinante, definendo uno spostamento intra-provinciale. L’ultima categoria permette il movimento più grande, ovvero quello inter-provinciale. Il sistema hukou, introdotto nel 1958 per la prima volta, aveva come obiettivo quello di gestire la forza-lavoro in modo tale da bilanciare i lavoratori nelle campagne da quelli nelle città attraverso una pianificazione di ingegneria sociale volta a evitare il sovraffollamento urbano, che avrebbe provocato una reale minaccia a tutto il sistema politico in via di costruzione.
La mobilità del lavoro rurale come motore di sviluppo economico
La possibilità di mobilitare forza-lavoro dalle zone rurali offriva alla leadership di Pechino negli anni subito successivi alla morte del Grande Timoniere nel 1976 era enorme. Circa 785 milioni di cittadini cinesi risiedevano nelle campagne a fronte di una popolazione poco al di sotto del miliardo di individui. Nel 1978 iniziò quello che viene generalmente chiamato il periodo di “apertura” della Repubblica Popolare Cinese. Sotto l’attenta supervisione di Deng Xiaoping, rivoluzionario e superstite della Lunga Marcia che però venne purgato più volte da Mao Zedong per le sue idee troppo “liberali” e riabilitato dopo una lotta interna al Pcc, il sistema politico e quello economico cambiarono drasticamente. Il “socialismo con caratteristiche cinesi”, slogan emblema del radicale cambiamento dal socialismo dogmatico sovietico, trovò la sua più grande ricchezza nella povertà assoluta che regnava nelle campagne cinesi. Attraverso la modifica del sistema di documentazione hukou, alcuni individui che avevano la residenza nelle zone rurali potevano ora muoversi verso le zone urbane per poter trovare fortuna, o quantomeno un lavoro. Questa riforma diede la possibilità al governo di Pechino di indirizzare le ondate di migrazione economica laddove ce ne fosse stato più bisogno, in modo tale da sviluppare il settore economico attraverso l’industria con tempi molto brevi. Ovviamente, per riuscire in questo intento era necessaria la popolazione rurale, bacino di lavoratori a bassissimo costo. L’era maoista aveva rivoluzionato profondamente il sistema sociale attraverso la collettivizzazione delle terre, del lavoro e della proprietà in generale. Il maoismo aveva piantato il seme, in maniera virtuosa quanto violenta, del socialismo proprio contro quell’arricchimento individuale che dagli anni Ottanta è stato poi stato sponsorizzato dal suo successore, Deng Xiaopiing.
Le Zone Economiche Speciali (Zes) segnarono il cambiamento radicale dall’ideologia maoista e anti-capitalista verso i parametri di arricchimento individuale e apertura alla diseguaglianza. Nel 1978 esistevano quattro aree urbane costiere nel sud della Repubblica Popolare Cinese – Shantou, Shenzhen, Zhuhai e Xiamen – che godevano della libertà di ottenere capitali di investimento esteri che fecero esplodere il Pil cinese sulle spalle dei lavoratori rurali. Da questa apertura controllata la situazione del divario tra popolazione rurale a popolazione urbana ha subito una spirale di ineguaglianza sempre più veloce fino ai giorni nostri. La progressiva privatizzazione delle aziende pubbliche cinesi nell’ultima decade del ventesimo secolo, la crisi finanziaria asiatica del 1997 e l’ingresso della Repubblica Popolare Cinese nel Wto nel dicembre 2001 portò a una durissima serie di licenziamenti per gli impiegati statali. L’economia socialista di mercato diede la possibilità al governo di licenziare i propri lavoratori per farli successivamente assumere dai privati senza i benefit garantiti dallo stato socialista. In questi anni tragici per i lavoratori il progressivo smantellamento del welfare socialista, insieme a una contrazione di Pil che tra il 1996 e il 2002 fu al di sotto della doppia cifra, fece sprofondare i lavoratori migranti in un baratro senza fine. Senza sicurezza contrattuale. Senza benefit welfaristici caratteristici del socialismo. Con una maggiore competitività lavorativa nelle zone urbane, dovuta ai licenziamenti di massa che annualmente contavano più di due milioni di cittadini buttati fuori dalle aziende pubbliche.
Progressivamente, il cambio di residenza ufficiale ha lasciato quindi spazio a un cambiamento di residenza informale, ovvero il materiale spostamento del cittadino al di fuori della zona di appartenenza nonostante non sia previsto dal proprio documento d’identità. In altri termini, mentre l’era maoista imponeva un controllo ferreo del sistema costituito per mantenere la legittimazione e far crescere il paese sotto l’egida comunista, l’era dell’”apertura economica” iniziò a utilizzare i parametri informali per garantirsi un maggiore profitto. Secondo questa logica il migrante ha una possibilità maggiore di trovare lavoro (in maniera legale o meno), garantendosi una paga più retributiva rispetto alla sua condizione fortemente svantaggiata nelle campagne. Il prezzo da pagare però è che il lavoratore migrante, e la sua famiglia, non potrà più usufruire dei servizi sanitari, sistema scolastico per i figli, assegnazione delle case popolari. Questi tre elementi formavano la spina dorsale del sistema welfaristico maoista e che durò fino a 20 anni fa. Nonostante ciò, essi non sono più riconosciuti al migrante perché i cittadini cinesi possono usufruire di questi servizi solo e unicamente nelle proprie zone di residenza. Questo scambio hobbesiano in salsa liberista in cui gli individui sono costretti a rinunciare a dei servizi garantiti dallo stato in cambio di un salario maggiore, ma comunque al di sotto della soglia di vivibilità, è la colonna portante della migrazione di massa all’interno del Paese più popoloso del mondo.
La crescente marea migratoria
I numeri rilasciati dal governo riferiti allo scorso anno delineano un chiaro aumento della popolazione migrante verso le zone urbane. Nel 2017 infatti quasi 30 milioni di cittadini si sono spostati nelle zone urbane stabilendo un incremento dell’1.7% rispetto al 2016. In generale, nonostante un rallentamento iniziale durante la leadership di Xi Jinping nel 2014, con un meno 0.5% rispetto al 2013, e un successivo restringimento nel 2015, con un meno 0.6%, questo dato è iniziato a risalire inesorabilmente ritornando ai livelli del primo anno di Xi a Pechino.
La differenza tra la migrazione intra-provinciale e quella inter-provinciale è un dato ancora più importante per comprendere come questo fenomeno abbia delle risonanze economiche, sociali e imprenditoriali all’interno dell’universo cinese. Scomponendo il dato nazione infatti si evince come il movimento migratorio all’interno della stessa provincia sia soprattutto più frequente nelle zone costiere che ricoprono il 41% del totale dei migranti intra-provinciali. Dall’altra parte invece, più del 51% dei migranti inter-provinciali provengono dalle province centrali della Cina e il 36.3% dalle province occidentali dello Xinjiang, Qinghai e Tibet. Le otto province che hanno il Pil più povero della Repubblica Popolare Cinese sono proprio le tre province occidentali e cinque delle province centrali, rendendo evidente quindi la difficoltà per gli individui provenienti dall’entroterra di poter godere di uno standard di vita migliore. Per questo motivo il loro spostamento verso le province costiere adiacenti diventa l’unica via da percorrere per poter sostenere le necessità familiari. Il risultato di questo movimento di massa lavorativa a basso costo è lo stabilimento di industrie nelle zone di confine tra le province centrali e quelle costiere. Uno dei casi più emblematici di questa distorsione socio-economica sono le industrie automobilistiche nella provincia dello Zhejiang al confine con la provincia centrale dell’Anhui. Queste permettono ai lavoratori migranti di poter andare a lavorare non lontani dalle proprie residenze di riferimento, nonostante non sia ufficialmente permesso e quindi non possono godere di servizi quali la richiesta di prestiti alle banche, agevolazioni sanitarie e di iscrizione dei figli presso scuole primarie e secondarie. Dall’altra parte, le industrie possono contare sulla stabilità di una forza-lavoro a basso costo. In questo modo, i cinesi provenienti dall’Anhui contribuiranno allo sviluppo economico di una delle province trainanti dell’economia cinese, risultando in un rafforzamento di stabilità politica e legittimazione della leadership provinciale.
La classe (ancora) senza coscienza
Il sistema politico cinese quindi ha definito i parametri su cui i propri cittadini possono muoversi all’interno dello stato, senza però applicare in maniera ferrea questo regolamento. Ciò non significa che non ci sia supervisione del fenomeno e che non sia utilizzato dallo stesso potere politico come mezzo per raggiungere nuovi obiettivi. Infatti, i lavoratori migranti sono privati della libertà di movimento nonostante la loro caratteristica principale sia quella dello spostamento dalla propria residenza alle zone urbane per fini lavorativi. Negli ultimi mesi, infatti, nelle zone urbane più affollate come Pechino, Shanghai e Tianjin, è iniziata una campagna politica per “riqualificare” le città attraverso l’espulsione delle fasce più povere dalla città. Questo ha un impatto diretto sui lavoratori migranti perché sono quelli che subiscono un trattamento spesso discriminatorio dai propri colleghi di lavoro provenienti dalle città, anche in termini di salario. Quest’ultimo è anche favorito proprio dall’elemento di sradicamento dei lavoratori migranti che arrivano in un territorio profondamente diverso da quello che è il loro ambiente. Ulteriore elemento di discriminazione salariale è determinato dall’impossibilità di agire sui contratti o di utilizzare l’organizzazione sindacale per poter migliorare questa condizione. La solitudine dei lavoratori migranti porta anche a una problematica molto forte a livello psicologico nei confronti della famiglia lasciata indietro. Infatti è molto comune tra questi individui lasciare i figli o i genitori anziani nelle proprie zone di residenza e di visitarli solo di rado, creando uno stress che si riverbera anche sulle prestazioni fisiche del lavoratore che quindi è esposto maggiormente a infortuni e, in generale, al deterioramento fisico.
Il 30% dei lavoratori migranti regolari sono impiegati nel settore manifatturiero, mentre il 19% in quello edilizio, in percentuali minori sono impiegati anche nel settore delle vendite, trasporti e logistica, alberghiero e servizi domiciliari. Lo stipendio percepito non supera mai i 4,000 Rmb (circa 500 euro) ed è molto frequente il salario sotto i 3,500 Rmb (circa 440€) al mese per un corrispettivo di 25 giorni al mese e quasi 9 ore di lavoro al giorno. Il salario al ribasso e la privazione dei diritti essenziali garantiti ai cittadini cinesi residenti spingono i lavoratori migranti a faticare all’interno di un sistema che sempre di più perde le sue caratteristiche socialiste per intraprendere azioni di privatizzazione. Infatti, nel 2016 una visita dal medico in day hospital aveva un costo di circa 245 Rmb (circa 30 euro) mentre il ricovero ha un costo di circa 8600 Rmb (circa 1,100 euro), più del doppio del salario mensile. Questi costi resi proibitivi non sono sostenibili per il lavoratore migrante, che quindi non usufruirà molto probabilmente di servizi essenziali di cui avrebbe bisogno.
La vastità di questo popolo migrante può anche essere misurata attraverso l’emigrazione temporanea della popolazione urbana durante una delle feste più importanti nella Repubblica Popolare: il capodanno cinese. Durante questo periodo, nel 2018, è stato registrato che il 4.06% della popolazione di Shenzhen, il 3.87% di Guangzhou, il 3.75% di Pechino e il 3.27% di Shanghai è ritornata nei propri villaggi di residenza. Questo dato rende ancora più tangibile come i migranti lavoratori costituiscano una percentuale importante del tessuto sociale delle zone urbane, a prescindere dalla loro formale possibilità di migrare in queste megalopoli.
Il popolo, il potere, il mercato
Il fenomeno dei lavoratori migranti è un tema importante per la leadership di Pechino e per le zone più avanzate economicamente. I migranti che ogni anno si muovono all’interno del territorio cinese e le rispettive famiglie lasciate indietro rappresentano una grande fetta di popolazione che giace ai livelli più bassi della scala sociale. Inoltre, la discriminazione urbana che vivono allontana ancora di più il senso di comunità in un Paese che dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso ha intrapreso la via della “economia socialista di mercato”. La diseguaglianza tra aree urbane e aree rurali è profondamente aumentata in favore delle prime, raggiungendo probabilmente uno dei picchi più importanti proprio negli anni subito precedenti alla crisi finanziaria “occidentale”, come viene chiamata in Cina, del 2008. Nel 2016 Branko Milanovic, in “Global Inequality. A new approach for the age of globalization” edito da Belknapp Press e tradotto da Luiss University Press, ha inoltre sottolineato come i cittadini residenti nelle zone rurali abbiano incrementato il Pil pro capite dell’80% tra il 2008 e il 2011, mentre la crescita del Pil pro capite nelle zone urbane è stata “solo” del 50%. Questo sviluppo, positivo ma ancora insufficiente, è dovuto anche alle politiche della leadership di Hu Jintao che tra il 2003 e il 2012 ha provato a bilanciare nuovamente questa diseguaglianza dilagante. il carattere comunitario già ingiallito da Deng Xiaoping ha lasciato definitivamente spazio all’atomizzazione individuale; il rispetto ferreo del sistema hukou è tramontato a favore di uno spirito informale che permette ai lavoratori migranti di ottenere un mero stipendio in cambio delle totali libertà e opportunità di miglioramenti netti di vita.
Il potere politico ha varato dei piani sociali per riuscire a incanalare questa forza lavoro nelle zone più interne del paese, in modo tale da sviluppare velocemente nuovi poli industriali che fino a questo momento non hanno preso piede o che solo in questo momento iniziano a essere importanti per le amministrazioni provinciali. Infatti, il rallentamento del Pil che negli ultimi anni ha visto allontanarsi i risultati a doppia cifra rende necessario lo sviluppo di nuovi poli economici che possano aiutare la crescita soprattutto delle zone centrali. In questo senso, i lavoratori migranti si propongono nuovamente come strumento a favore del potere politico che deve cercare di sfruttare le inclinazioni di mercato per assicurarsi la stabilità politica interna.
La mobilità lavorativa nella Repubblica Popolare Cinese esiste ma non rispetta i canoni di mobilità sociale. I lavoratori migranti si spostano fisicamente dalle zone rurali verso le zone urbane senza però riuscire a migliorare la propria posizione all’interno di una società altamente competitiva e in cui il conflitto di classe è ancora molto evidente. Nonostante la componente di violenza del conflitto di classe non sia sviluppata, l’intensità è ben più visibile e la condizione dei lavoratori migranti è in larga parte relegata classe inferiore a tutti gli altri individui, senza la reale possibilità di utilizzare ascensori sociali per migliorare la condizione individuale. In altri termini, l’atomizzazione individuale ha dato modo ai capitali cinesi ed esteri di poter investire all’interno del territorio senza riscontrare una forte contrapposizione dei lavoratori sfruttati che invece annaspano poiché il loro obiettivo primario è quello di sopravvivere e far sopravvivere il resto della famiglia lasciata indietro.
Se il motore economico cinese continua a far crescere il paese, gran parte dei lavoratori cinesi che mettono in moto tutti i giorni questo motore versano in condizioni drammatiche. Il cambiamento ideologico che dal socialismo maoista che si è trasformato in pragmatismo denghista, oggi sta assumendo connotati preoccupanti per i lavoratori migranti. Il piano di Xi Jinping di annullare la povertà entro il 2020 sembra essere impossibile. Nonostante ciò, le pratiche di allontanamento forzato dei lavoratori migranti dai maggiori centri urbani potrebbe far raggiungere questo obiettivo (parziale) nelle zone urbane maggiori entro due anni. Ancora una volta, i lavoratori migranti sono sfruttati del potere politico per il raggiungimento degli obiettivi che aiutano la legittimazione del Pcc. Il conflitto latente basato sull’insoddisfazione dei lavoratori migranti nei confronti di molte riforme socio-economiche di Pechino non ha preso ancora nessuna forma pratica. Nessuna organizzazione è stata ancora creata. Nessuna manifestazione migrante è stata indetta. Nessuna reale soluzione è stata portata presso la Grande Sala del Popolo. Il sostegno al governo è centrale per ogni cittadino cinese e la loro condizione di “clandestini” gli impone di essere ancora più fedeli alla linea dettata da Pechino. Questo però non implica che un’azione di influenza, soprattutto indiretta, non sia possibile se si creassero le condizioni di organizzare la classe dei lavoratori migranti.
*Fabio Angiolillo, laureato in relazioni Internazionali, si occupa di Repubblica Popolare Cinese contemporanea. Tra i fondatori del progetto Lo Spiegone, è caporedattore Asia.
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