No, non abbiamo diritto all’islamofobia
All’université d’été di France Insoumise la sinistra francese si è spaccata sulla posizione da avere verso la religione islamica. La questione della «laïcité» ha radici profonde e mostra di non essere in grado di difendere le vittime del razzismo
Per i partiti politici francesi è tradizione tenere un’université d’été – quella che in inglese, e ormai anche in italiano, viene definita summer school. Si tratta di incontri pubblici tra attivisti, dedicati a lezioni, dibattiti e raduni in cui i membri del partito di ritorno dalle vacanze si incontrano. Per La France Insoumise (Lfi) – la più grande organizzazione anti-austerity francese, il cui leader, Jean-Luc Mélenchon, ha preso il 19,6% alle elezioni presidenziali del 2017 – l’université d’été del 2019 avrebbe dovuto essere un’opportunità per riorganizzarsi dopo il brutto risultato delle elezioni europee dello scorso maggio, dove la percentuale ottenuta del 6,3% è stata ben al di sotto delle aspettative.
Con Mélenchon stesso lontano, in tour in America Latina, per Lfi era anche un’opportunità per dimostrare di poter andare avanti senza la presenza fisica del suo candidato presidenziale. Eppure le cose non sono andate come previsto. E la colpa è di un problema ricorrente nella sinistra francese: l’islamofobia.
La controversia è emersa grazie a un intervento di Henri Peña-Ruiz sulla laïcité – la definizione francese del secolarismo statale. La dichiarazione del professore di filosofia sul «diritto a essere islamofobo» ha avuto un effetto davvero dirompente, suscitando aspre critiche contro Peña-Ruiz e sul permesso accordatogli di parlare a un evento di France Insoumise senza che ci fosse qualcuno a controbattere, e contestare, le cose che diceva.
Dopo tutto, Peña-Ruiz non è uno sconosciuto. Proviene dal Parti de Gauche, del quale è membro lo stesso Mélenchon, e rappresenta la fazione più grande interna a Lfi – anche se alle ultime europee ha invitato a votare il Partito Comunista (Pcf). Tra i circoli del Parti de Gauche, che occupa un ruolo centrale nell’organizzazione di Lfi, è considerato uno «specialista» della laïcité. Questi ultimi hanno replicato alla controversia sostenendo che le parole di Peña-Ruiz sono state estrapolate dal contesto, e hanno insistito sul fatto che sia stato preso di mira in una campagna malevola di invettive contro Lfi. Eppure, allo stesso tempo, hanno rigettato la parola stessa, «islamofobia», come se una cosa del genere non esistesse affatto. Ancora una volta, la sinistra francese sta dimostrando la propria incapacità a schierarsi su questo tema – e a prendere chiaramente le parti delle vittime del razzismo.
Un problema con radici profonde
Nell’affrontare questa controversia, vale la pena chiarire un paio di punti, per comprendere meglio come una cosa del genere si inserisca nel contesto francese.
Il primo punto è che non si tratta soltanto di un problema di Lfi, ma di qualcosa che attraversa tutta la sinistra francese e la sinistra radicale. L’adozione della legge del 2004 sul divieto di simboli religiosi nelle scuole, che prendeva esplicitamente di mira le giovani donne che indossano un hijab, fu un momento di svolta decisivo. A quel tempo, la Ligue Communiste Révolutionnaire (Lega dei Comunisti Rivoluzionari, Lcr) – una delle componenti storiche del trotzkismo francese, progenitrice dell’odierno Nouveau Parti Anticapitaliste, Npa – non si oppose frontalmente alla misura, ma coniò lo slogan «Nè il velo né la legge». Mise così sullo stesso piano una legge discriminatoria con la pratica religiosa (ad esempio, la decisione di indossare il velo) degli utenti dei servizi pubblici. Questo fu il punto di mediazione più che traballante tra i membri della Lcr che difendevano la misura (introdotta da un governo di destra) e quelli che la rigettavano, con gli indecisi nel mezzo. In breve, ha significato non supportare né opporsi alla legge anti-velo.
Un’altra forza della sinistra radicale – l’altra più importante organizzazione trotzkista, Lutte Ouvrière (Lo) – di fatto sostenne la legge, e ancora oggi mantiene un’ostilità aperta contro le donne a cui è concesso di indossare questo simbolo. E anche se il Pcf comunista votò contro la legge nel 2004, non ha mai assunto una posizione chiara in merito, preferendo di fatto evitare la questione, anche perché include nelle proprie stesse fila membri altrettanto ostili al hijab. Il problema, dunque, è molto più generale, e non è limitato alla posizione dei leader di Lfi.
La seconda precisazione che vale la pena fare è che non sarebbe giusto etichettare queste organizzazioni come «razziste», equiparandole a En Marche di Emmanuel Macron, alla destra conservatrice ancora più radicalmente razzista, o all’estrema destra (e del resto, anche questi gruppi presentano delle differenze tra di loro). Diventando un’organizzazione più piccola con un peso crescente dei giovani al suo interno, l’Npa si è evoluta su posizioni più egualitarie; come visto invece Lfi è dilaniata da molteplici contraddizioni interne (come del resto il Pcf) e, malgrado la grande timidezza su queste questioni, Lo prende regolarmente le difese dei sans-papiers (i migranti senza documenti); anche i Verdi (Ee-Lv) si mostrano disposti a posizioni più aperte.
Malgrado queste precisazioni, il problema rimane: perché la sinistra francese si sta lacerando sull’effettiva pertinenza del termine «islamofobia», nonostante sia una delle forme più evidenti di razzismo in Francia?
Logica invertita
Si potrebbe sostenere che tutto ciò è dovuto in gran parte a una sorta di effetto negativo del ruolo storico di avanguardia della sinistra francese. Dopo tutto, è l’erede di un progetto politico potente, emerso dalla rivoluzione del 1789; un progetto non solo anti-monarchico, ma soprattutto anti-clericale, visto che le forze realiste si basavano sulle istituzioni della Chiesa Cattolica. Questa eredità si è in seguito unita al nascente movimento dei lavoratori e all’analisi di classe. Incarnazione vivente di questa combinazione è stato Jean Jaurès, storico leader del socialismo francese negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, un repubblicano secolare (laïc) e anti-monarchico diventato socialista internazionalista per poi essere assassinato da un nazionalista per la sua opposizione alla guerra incombente.
Nella particolare dialettica della storia francese, è proprio attraverso il canale della sua eredità repubblicana secolare che l’ideologia borghese ha lavorato per disarmare intellettualmente la sinistra. Più precisamente, la sinistra ha sposato una logica ultra-semplicistica secondo cui il suo compito è da un lato combattere per i diritti del proletariato (in maniera più o meno radicale) e, dall’altro, realizzare l’età della ragione, intesa come contrapposta alle superstizioni religiose oscurantiste mantenute dalla – e a beneficio della – borghesia.
Eppure una simile logica non porta molto lontano. Non dice, ad esempio, che queste due istanze possono andare o non andare insieme, a seconda del contesto politico. Parla di combattere la «reazione». Ma tratta il potente vescovo omofobo che copre gli scandali interni alla Chiesa Cattolica alla stregua delle – spesso povere – famiglie musulmane le cui figlie indossano un hijab.
Questo punto cieco è diventato visibile nel momento in cui i lavoratori e le lavoratrici di origine migrante – e soprattutto quelli provenienti dalle ex-colonie e dai protettorati africani e nord-africani – hanno assunto un peso numerico rilevante in Francia. Concretamente, questo dibattito si è concentrato sulle donne che indossano il hijab. Per molti attivisti e rappresentanti politici, questa pratica simboleggia l’avanzare di una reazione religiosa globale – e, a prescindere dal contesto, dev’essere eliminata a qualsiasi costo.
Una simile logica si basa su due tipi di riferimenti. Il primo consiste in citazioni brevi e decontestualizzate di Karl Marx. La sua definizione di religione come «oppio dei popoli» è senza dubbio quella citata con più fervore tra i circoli di attivisti di sinistra, anche se in genere ignorano l’intero passaggio da cui è tratta. Lo stesso vale per la frase in cui sostiene che «la critica della religione è la premessa di ogni critica»: scritta da un Marx molto giovane (venticinquenne), ha chiaramente a che fare con la metafisica, e non con la posizione da adottare verso quei settori del proletariato soggetti a una forma di oppressione specifica.
Il secondo riferimento consiste nell’inversione della logica alla base della legge francese del 1905 sulla separazione tra stato e chiesa. Questa legge – fondamentale per la cultura politica francese – cercava di garantire la neutralità dello stato francese nei confronti dei credi religiosi, in modo da proteggere i cittadini dall’interferenza dello stato in un momento in cui la Chiesa Cattolica aveva molto potere sia all’interno dello stato che nella società in generale. L’inversione ha avuto luogo quando l’obbligo alla neutralità è stato trasferito dallo stato agli utenti stessi del servizio pubblico (come nel caso della legge del 2004 sul velo). Henri Peña-Ruiz è stato uno dei maggiori fautori, a sinistra, di questa inversione.
L’obbligo alla neutralità – che riguarda quasi esclusivamente le donne musulmane che indossano il hijab – non vale soltanto per le studentesse e gli studenti delle scuole superiori. Per esempio, in un’altra misura supportata da Peña-Ruiz, la stessa politica è stata estesa alle donne che accompagnano i loro bambini e bambine alle gite scolastiche (anche quando non sono impiegate statali). Ha avuto effetti anche sulle aziende private che forniscono servizi esterni al settore pubblico, e persino sugli spazi pubblici, per esempio quando alcuni sindaci hanno emanato decreti contro i costumi da bagno che coprono l’intero corpo e i capelli.
Questa logica conduce alla passività – o addirittura al supporto attivo – nei confronti di una legge esplicitamente discriminatoria come quella del 2004, che ha avuto come conseguenza anche quella di impedire l’accesso all’educazione pubblica alle giovani donne musulmane. Si traduce nell’invocazione della «libertà di criticare la religione» e del «diritto alla blasfemia»: sono queste le frasi contrapposte a un termine come «islamofobia» da coloro che la considerano un limite a qualsiasi critica della religione musulmana. «Allo stesso modo», aggiungono immediatamente i sostenitori di questa logica, «criticheremmo le altre religioni, mentre condanniamo gli atti di razzismo contro i musulmani». Argomentazioni del genere sono molto diffuse nella sinistra francese, Peña-Ruiz è solo una delle figure illustri che le sostengono.
La testa fra le nuvole
Questa linea di argomentazione pone due problemi. Il primo è, molto semplicemente, il suo sistematico rifiuto di riconoscere che le varie definizioni di «islamofobia» non si riferiscono all’infallibilità della religione musulmana, ma sottolineano il razzismo che bersaglia i musulmani per via della loro (effettiva o supposta) fede.
Il secondo problema riguarda l’ambiguità della formula «libertà di criticare la religione» e «diritto alla blasfemia». Si accontentano di insistere sulla necessità di questa libertà (senza che nessuno nel dibattito a sinistra la stia davvero mettendo in dubbio) e non prendono in considerazione l’uso che ne viene fatto, chi sta formulando le critiche e a quale scopo, la posizione sociale maggioritaria tra i credenti di questa o quella religione, le operazioni politiche messe in campo dalla classe dominante.
Un esempio lampante di tutto ciò è stato il paragone, avanzato da Peña-Ruiz nel suo intervento, tra il «diritto all’islamofobia» e il diritto a essere «cattofobico», per enfatizzare il fatto che le sue motivazioni erano «universaliste» e non razziste. Ma qui torniamo allo stesso problema: i cattolici non soffrono in Francia di un’oppressione strutturale, anzi costituiscono una grossa fetta dell’élite economica. Il termine «cattofobico» esiste soltanto nel lessico dell’estrema destra. E dunque il problema non è che una frase di Peña-Ruiz è stata estrapolata dal contesto: è il contesto stesso a rappresentare un problema – l’intera e depoliticizzata linea di ragionamento a fondamento delle sue affermazioni.
Questo è stato, soprattutto, l’argomento dei maggiori critici interni a France Insoumise – i rappresentanti di Lfi del consiglio comunale di Saint-Denis. Come scrivono nella loro dichiarazione, soltanto negli eterei paradisi dell’intelletto ci possiamo «imbattere in una religione per strada» e iniziare ad attaccarla con tranquillità:
«Lassù [nei paradisi], Peña-Ruiz e i suoi amici possono sognare e teorizzare a piacere, lontani dalla sordida realtà in cui dilagano gli islamofobi in carne e ossa (e ai quali negano la loro solidarietà). Abbiamo capito. Ma dal nostro punto di vista non è importante quello che l’islamofobia potrebbe essere in teoria, perché ne soffriamo in pratica».
Al di là del contenuto – che riapre nuovamente il dibattito – questa dichiarazione è stata importante anche perché Saint-Denis, città operaia a nord di Parigi con una vasta popolazione migrante, è uno degli obiettivi principali di France Insoumise per le elezioni locali del marzo 2020.
Da quando la sinistra ha capitolato di fronte alla legge anti-hijab del 2004, l’islamofobia ha assunto proporzioni così vaste nel discorso mainstream francese che pochi attivisti ostili all’uso del termine islamofobia possono non rendersi conto delle discriminazioni che si trovano ad affrontare le persone identificate come musulmane. Tuttavia, questa contraddizione irrisolta è emersa con evidenza nella contorta dichiarazione di France Insoumise, la quale recita che
«dato il significato contestato del termine islamofobia, non usiamo questa parola per designare e combattere il razzismo contro i musulmani. Nè sosteniamo o difendiamo l’idea di un diritto a essere islamofobi. Non abbiamo dubbi che Henri Peña-Ruiz non avesse alcuna intenzione di giustificare gli inaccettabili attacchi alle persone di fede musulmana nella nostra nazione».
Un’ulteriore dichiarazione pubblica di alcune figure coinvolte nella commissione anti-razzismo di Lfi (incluso l’autore del presente articolo) ha sottolineato il grande pericolo insito in questa polemica, notando che «oggi non c’è nemmeno bisogno di ammettere apertamente di odiare i musulmani – basta ergersi a difensori della laïcité e della Repubblica. Persino Marine Le Pen può dire una cosa del genere – che benedizione per gli islamofobi!».
Quasi come un’eco di quest’avvertimento, Jordan Bardella – un importante eurodeputato del Rassemblement National di Marine Le Pen – si è buttato sulla questione e ha provato a legittimare il suo progetto razzista suggerendo che ci fossero punti di contatto tra le analisi del suo partito e quelle di Lfi. E persino prima che accadesse una cosa del genere, il ministro dell’educazione di Macron – davanti allo scontento diffuso tra insegnanti e genitori all’inizio dell’anno scolastico – ha deciso di usare l’islamofobia come distrazione, affermando che il numero più basso di bambine nella scuola primaria fosse dovuto all’influenza del radicalismo islamico… malgrado i dati demografici sconfessino completamente la sua posizione.
Quest’ultimo episodio sottolinea la necessità pressante di una sinistra anti-austerity in Francia, al di là della sola France Insoumise, che faccia i conti con il problema dell’islamofobia – non solo per combatterla, ma per opporvisi senza giri di parole. Il supporto unanime dato dal Partito Laburista inglese al discorso commovente tenuto alla Camera dei Comuni dal suo deputato Tan Singh Dhesi, di fede Sikh, dovrebbe far riflettere i francesi. Altrimenti qualsiasi progetto di unire la working-class contro la minaccia fascista e l’offensiva capitalista, che sotto Macron ha subito un’accelerazione, rimarrà lettera morta. Ma finché non faremo i conti – e presto – con l’islamofobia, gli ideologi borghesi avranno gioco facile a fare leva su questo punto.
*Emre Öngün è un analista di sinistra turco, e un membro del Front de gauche e di Ensemble! in Francia. Questo articolo è uscito su Jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.
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