
Quando cadono le statue
Stavolta a essere presi di mira sono i simboli di un pantheon laico bianco, occidentale, borghese. Per questo il dibattito attorno ad essi provoca tanto scalpore: perché criticare i miti fondativi significa agire sul presente
Poco più di un mese fa, sull’onda lunga delle proteste antirazziste, che da anni negli Stati Uniti prendono di mira anche le statue, anche in Europa una statua cadeva, precisamente a Bristol, in Inghilterra, dove una folla festante abbatteva il monumento di uno spietato mercante di schiavi che ancora presidiava la principale piazza cittadina.
Il dibattito europeo e italiano si scopriva allora invaso dal terrore di una furia iconoclasta: si paventavano giornate in cui folle inferocite e prive di senno si sarebbero presto abbattute sulle statue di schiavi o di di qualunque personaggio storico avesse delle macchie nel proprio curriculum. Sui giornali era tutto un «dobbiamo contestualizzare», «allora anche il Colosseo e il Mosè di Michelangelo», «non possiamo cancellare la storia» e via discorrendo.
Un mese dopo, mentre negli Stati Uniti alcune statue e monumenti vengono effettivamente rimossi, nessuna folla inferocita si aggira per le nostre città demolendo statue di re e imperatori, nessuna petizione in Europa o in Italia sta chiedendo di rimuovere le statue di chiunque sia stato sessista, schiavista, razzista e simili in tempi diversi dal nostro. Il dibattito, per nulla acritico, per nulla concentrato sul passato, si sta concentrando su precisi e singoli simboli e monumenti, o in senso più ampio sulla necessità di ripensare i nostri spazi celebrativi. A un mese di distanza, ci si può chiedere: perché ci si è scaldati tanto?
Il mito Usa e il dibattito europeo
Negli Stati uniti il processo di rimozione di statue e monumenti è iniziato da tempo e ha avuto un’accelerazione negli ultimi dieci anni. Lì ad essere messi in discussione sono perlopiù monumenti confederati, statue a generali schiavisti conclamati come Williams Carter Wickham, Robert E. Lee, Stonewall Jackson o personaggi come il contraddittorio terzo presidente degli Stati Uniti Thomas Jefferson.
In Europa ora ha fatto particolare scalpore la rimozione in questo ultimo mese di molte statue di Cristoforo Colombo, cosa non nuova in realtà. Negli Stati uniti proteste letteralmente intorno alle statue di Colombo, come quelle ritratte già nel 2002 in un episodio della seria tv cult I Soprano, sono contorno abituale a polemiche che si ripetono ogni anno, di solito in occasione delle celebrazioni del Columbus Day, festa federale ricorrente ogni secondo lunedì di ottobre e istituita nel 1937. Il Columbus Day celebra, non si limita a ricordare la «Scoperta dell’America», un evento che per intere comunità che ancora vivono oggi negli Stati uniti determinò l’inizio di una catastrofe. Cristoforo Colombo, il personaggio storico, si contraddistinse per modi terribili e cruenti anche per il suo tempo, tanto che la Corona di Spagna, che lo aveva assoldato, fu addirittura costretta a rimuoverlo dall’incarico di governatore. Le sue statue non ricordano un personaggio storico, ma un mito, che deve molto ad una biografia romanzata pubblicata nel 1828. Mito utilizzato e strumentalizzato in particolar modo dalla comunità italiana e, più in esteso, cattolica.
Proprio la comunità di emigranti italiani ha finanziato infatti, tra la fine del diciannovesimo secolo e gli anni Trenta del Novecento, la costruzione di molte delle statue di Colombo oggi presenti negli Stati Uniti, idealizzando la sua figura a migrante oppresso capace di ritagliarsi un ruolo nel Nuovo Mondo. Una visione astorica di Cristoforo Colombo che continua, però, ad avere fortuna in Italia e in Europa. Un mito divenuto negli Stati uniti, come evidenziano diversi storici, il perfetto simbolo di un potere dominante bianco, uomo, di origine europea: italiani, irlandesi e altre popolazioni di migranti bianchi ed europei riuscivano così, anche attraverso il paneuropeismo di Colombo, a ritagliarsi un ruolo di rilievo nella fondazione degli Stati Uniti. Ma mentre gli italo-americani coglievano nella figura mitizzata di Colombo una possibilità di riscatto dalle discriminazioni subite e di legittimazione, la stessa figura aiutava, ed aiuta ancora oggi, ad annullare il ruolo delle popolazioni native e afroamericane che subivano le conseguenze della «sua» conquista.
Negli USA le difficoltà nel raccontare una «storia comune» sono enormi. Perfino nei testi scolastici non c’è consenso tra stati nell’insegnamento di materie come «storia americana» e «scienze sociali» perché non esistono contenuti standard nazionali di riferimento: argomenti come la schiavitù o il genocidio dei nativi americani sono trattati diversamente a seconda del colore politico dello stato in cui è pubblicato il testo. Il tentativo statunitense degli ultimi decenni diventa quindi quello di elaborare la propria storia, proprio mettendo in discussione i protagonisti dei propri spazi pubblici, riconsiderando il passato, una statua alla volta. Scegliendo, quindi, quali dei simboli e dei monumenti recenti possano essere accettati dalla società statunitense contemporanea e quali invece debbano essere messi in discussione, perché espressione di una affermazione di un sistema di potere etnicizzato che sarebbe emerso negli Stati Uniti del ventesimo secolo e che mette al centro i «bianchi», riservando ad ampie parti della popolazione il ruolo di cittadini di serie B. Il concetto di elaborare la storia attraverso l’abbattimento delle statue diventa così un concetto proprio del dibattito statunitense contemporaneo.
Ben diverso si è dimostrato il caso europeo. Qui l’abbattimento non è mai stato il punto. In tutta l’Europa centro-occidentale, dal 7 giugno, giorno in cui la folla ha abbattuto la statua di Edward Colston a Bristol – gesto frutto di una esasperazione legata alla specifica realtà cittadina – nessun’altra statua è stata rimossa senza il consenso delle istituzioni, nonostante le sconclusionate urla di allarme.
Si è invece creato un dibattito particolarmente ampio e approfondito, che ha già dato frutti soprattutto in Inghilterra e in Belgio. In Inghilterra ci si è affrettati a mettere in discussione tutti i simboli dell’impero britannico, prima commerciale e poi territoriale, bianco e basato sull’oppressione e sul razzismo, che, lungi dall’essere testimonianze storiche, sono frutto di una celebrazione e idealizzazione acritica costruita tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo. Basti pensare che, insieme alla richiesta di rimuovere determinate effigi celebrative dallo spazio pubblico o dalle sale dei ministeri per spostarle in più adeguati musei, sta spopolando una petizione che chiede di inserire il passato coloniale britannico nel curriculum scolastico obbligatorio del Regno unito: perché no, ora non è così.
In Belgio, dove la storia coloniale è relativamente breve rispetto a quella di altri Paesi europei, ma estremamente violenta e rimossa dalla coscienza collettiva, si sta chiedendo di togliere dallo spazio pubblico celebrativo le statue del peggior criminale coloniale di quel periodo, che fu anche Re del Belgio. Una richiesta di buon senso, dato che già all’epoca il governo coloniale belga era condannato dai vicini per la propria brutalità, e che re Leopoldo era ben conscio del male fatto. Tentare di nascondere la polvere sotto il tappeto innalzando statue è operazione non particolarmente salutare per la riconciliazione storica, e infatti la messa in discussione di quei simboli ha portato in pochissime settimane a scuse e passi avanti dovuti da tempo.
Era davvero difficile, se non irreale, pensare che i cambiamenti strutturali avvenuti nella società inglese e belga e nella composizione di quelle città non avrebbero portato alla messa in discussione di quei simboli innalzati così di recente. In altri Paesi, in cui la monumentalità pubblica novecentesca è diversa e più volta alla celebrazione di entità collettive che di singoli, come il nostro, la discussione ha preso pieghe differenti. In Francia c’è stato un immediato stop a qualsiasi istanza di ridiscussione dello spazio monumentale e onomastico da parte del presidente Macron. In Italia, il dibattito sulla rimozione in questa prima fase si è concentrato su una (brutta) statua del 2006, non di un personaggio politico ma di un giornalista, costruita nel centro di Milano per trasformare l’uomo decisamente discusso, in un mito del «milanese illustre», nonostante le sue azioni ripugnanti fossero note e commesse in un tempo in cui erano già illegali e socialmente condannate.
Fuori da casi limite come questo, è chiaro che il dibattito europeo, non nuovo ma comunque ravvivato dai fatti, si sta ponendo molto più il problema di come mettere in discussione e arricchire lo spazio monumentale pubblico, più che di quali statue abbattere. Proprio perché, salvo i casi citati, l’utilizzo politico delle statue, è stato nell’Europa del Novecento molto meno spregiudicato rispetto agli Stati uniti.
Ciò che ci cade in faccia
Resta quindi da chiedersi perché un mese fa si sia scatenato il panico in Italia, anche in persone di norma illuminate e di buon senso. Le statue oggetto del dibattito di queste settimane sono tutte statue di età contemporanea, costruite per lanciare un messaggio indiscutibilmente ancora valido e perciò problematico. Alcune di queste, una minoranza, ritraggono personaggi morti centinaia di anni prima (vedi Colombo negli Stati Uniti), ma strumentalizzandone e riconvertendone la figura per lanciare un messaggio alla contemporaneità.
Se il potere politico utilizza personaggi storici per lanciare messaggi alla popolazione, riscrivendo la storia e idealizzando il passato, come può chi combatte quei messaggi prescindere dalla messa in discussione dei simboli che il potere stesso ha utilizzato? E fa davvero così tanta differenza il personaggio rappresentato nell’effige?
Non c’è nulla di strano o nuovo nel vedere statue che cadono. Come ormai hanno scritto in tanti, ogni cambiamento sociale e di ordine costituito è accompagnato da qualche gesto simbolico che colpisce gli oggetti. Negli ultimi trent’anni abbiamo osservato abbattere statue di Stalin, Lenin, Tito, Gheddafi, Marx, Saddam Hussein, senza battere ciglio, anzi spesso plaudendo all’iniziativa. In Italia solo settant’anni fa sono state abbattute centinaia di statue di Mussolini. Per non parlare dell’enorme numero di edifici storici che ogni giorno viene abbattuto o completamente rifunzionalizzato e svuotato di memoria sull’onda dell’ideologia economica dominante. In molte ex colonie europee ogni anno vengono abbattute statue di ex «eroi» coloniali, mentre gli stessi continuano a campeggiare nelle piazze delle città europee.
Perché dunque gli eventi di questi giorni stanno turbando così tanto il dibattito italiano ed europeo, tanto da arrivare a evocare ossessivamente paragoni con il fondamentalismo islamico e l’iconoclastia? Qual è la differenza con quei ben più massicci abbattimenti del passato anche recentissimo?
La differenza forse è che queste azioni avvengono in tempo di pace, e non al termine di una guerra. Ma anche al crollo dell’Unione sovietica si era in tempo di pace, eppure solo chi credeva in quel regime, o vi era quantomeno cautamente affezionato, soffrì a vedere quelle statue abbattute. Quindi il timore è che questa reazione, che arriva ad argomenti ridicoli, sia dovuta ad altro.
Stavolta in effetti a essere presi di mira sono i simboli di un pantheon laico bianco, occidentale, borghese. Per il quale Cristoforo Colombo o Winston Churchill, ma se vogliamo anche Leopoldo II o Cecil Rhodes, non sono solo «importanti personaggi del passato» ma coloro che ci hanno permesso di essere ciò che siamo. Espressione che, se contestualizzata in un «quindi non è il caso di discuterli», presuppone che ciò che siamo, e come ci si sia arrivati, vada tutto sommato bene così, senza bisogno di guardarsi indietro. Anche inconsciamente, si fatica a vedere la necessità di rimettere in discussione non solo la natura, ma anche i simboli e i miti fondativi dell’equilibrio di potere che quei monumenti rappresentano.
Si tratta dei personaggi stabiliti come «da celebrarsi» da quel ceto che ha scritto i libri di storia e i libri di storia dell’arte. E che come tale dà per scontato, o ha dato per scontato per decenni, di avere in tasca la chiave non solo per la scrittura, ma anche per la ridiscussione della storia, per decidere quando e come i Paesi non europei saranno degni di riavere quanto saccheggiato in età coloniale, e quando sarà il caso di spostare dalle piazze ed eventualmente ridiscutere determinati personaggi e i processi che li hanno resi eroi. Processi la cui analisi rischia di gettare nello scompiglio tutta una parte di Europa e di mondo occidentale che non è pronta a fare i conti con il proprio passato, ma processi più che salutari. Per la Treccani, l’iconoclastia è il «combattere la religione o in genere le tradizioni, le convinzioni e le opinioni ritenute fondamentali dalla società cui si appartiene»: tenere in piazza le statue dei razzisti e dei colonialisti è una convinzione o opinione ritenuta fondamentale per la nostra società occidentale contemporanea?
*Leonardo Bison è dottorando in archeologia all’Università di Bristol (Uk) e attivista del collettivo Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali. Sara Corsini è un’artista indipendente; da anni vive tra Italia e Stati uniti per motivi professionali e personali.
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