Quei bravi ragazzi dei pozzi ecologici
Pur di sopravvivere, il sistema estrattivista ha introiettato la narrazione della green economy: la riproduce a modo suo, se ne impossessa e se ne serve senza problemi per rigenerarsi e potenziarsi ancora di più. Il caso dell’Eni
«Elimiteremo le emissioni nette dell’upstream entro il 2030 […] aumentando l’efficienza operativa, riducendo al minimo le emissioni dirette di CO2 del business e compensando le emissioni residuali con vasti progetti di forestazione». A sentire le sue parole, Claudio Descalzi sembra davvero un manager del terzo millennio, pronto a traghettare la sua Eni attraverso la oramai irrimandabile, nonché popolarissima, transizione energetica.
Lo scorso 15 marzo, presentando l’aggiornamento del piano industriale del gruppo al 2022, l’amministratore delegato ha descritto minuziosamente la sua «win-win strategy», indiscutibilmente gonfia di realismo e al passo con i tempi che corrono: da un lato far crescere ancora l’azienda nell’esplorazione e produzione di idrocarburi, dall’altro impostare un muscolare piano di sviluppo del settore delle «rinnovabili», al servizio degli impianti produttivi, che secondo lui permetterà alla società, nel 2030, di definire le proprie attività estrattive «a emissioni nette zero». Come in concreto? Riforestando un pezzo d’Africa grande come «quattro volte il Galles», parola di Financial Times.
Un annuncio così spettacolare e ad altissimo tasso di popolarità, che proprio il Financial Times sembrava stentare a crederci nel riportare la notizia il giorno seguente: «nessuna compagnia petrolifera e del gas si era mai spinta così lontano con un progetto forestale di queste proporzioni, che equivarrebbe a coprire di bosco l’intera Serbia o quasi un quarto del territorio italiano». Evidentemente, continuava il giornale all’indomani della notizia, «l’annuncio dimostra la crescente pressione a cui sono sottoposte le compagnie petrolifere e del gas, per dimostrare che stanno facendo di più per affrontare il cambiamento climatico, con gli investitori che chiedono sempre più spesso prove di come si intenda rispondere agli sforzi di decarbonizzazione che minacciano di rovesciare l’industria».
Un annuncio così azzardato che aveva invece costretto noi, assieme ad altri inguaribili detrattori, a ricordare pubblicamente a Descalzi che piantare alberi può essere una buona cosa, ma anche una pessima idea. Tutto dipende da cosa si pianta, da chi decide se piantare o meno, dal motivo per cui si pianta, dalla scala, dalla funzione svolta dai terreni prima di piantare e infine dai costi o benefici che questo implica per le popolazioni che vivono sulle terre individuate per piantare. È oramai noto a molti, ma forse non ancora a Eni, che le piantagioni su larga scala di specie a crescita rapida, come eucalipto e palma da olio ad esempio, generano impatti drammatici sia in termini sociali che ambientali, e per questo le lotte di resistenza contro piantagioni di questo genere si sono diffuse esponenzialmente in tutto il mondo. Così come è noto a molti che una foresta, per definirsi tale, è costituita da una enorme diversità di piante e animali che interagiscono con gli elementi che la compongono e ne garantiscono la sua auto-rigenerazione. E che le comunità umane fanno parte delle foreste autoctone, poiché molti esseri umani vi vivono, interagendo con esse, ottenendo una serie di beni e servizi che ne garantiscono la sopravvivenza e spesso fornendone indietro altrettanti. Una piantagione, invece, non è una foresta e l’unica cosa che le due hanno in comune è la predominanza di alberi. Affermare il contrario significa solo fare disinformazione volta a ottenere sostegno, riconoscimento e popolarità in settori della popolazione evidentemente non bene informati.
Che si sia trattato di un annuncio che rischiava di essere controproducente se ne è reso conto lo stesso Descalzi. Lo scorso 14 maggio, infatti, durante l’assemblea annuale degli azionisti, sollecitato a rispondere alle nostre domande su dove pensasse di trovare 8,1 milioni di ettari di terra libera in Africa per piantare alberi e se avesse già interpellato o consultato le comunità che su quelle terre ci vivono, si è affrettato a dichiarare di essere stato frainteso addirittura dal Financial Times: «Onestamente non ricordo l’articolo, ma forse è stata un’interpretazione sbagliata di quello che ho detto nella presentazione della strategia. Forse, pianteremo marginalmente alcuni alberi, ma l’obiettivo principale è quello di evitare la distruzione di foreste primarie», ci ha risposto.
Un pasticcio poco appassionante e tutto italico, che non deve però distrarre dalle vere intenzioni dietro l’annuncio stesso. Descalzi ha infatti detto riforestazione ma, alla fine si è capito, intendeva riferirsi alla realizzazione di progetti Redd su 8,1 milioni di ettari di terra. Redd, per i non avvezzi, significa Reduction emission from deforestation and degradation, ed altro non è che una delle (tante e vecchie) false soluzioni al problema del riscaldamento globale presentata in sede Onu e sostenuta dai governi e dalle aziende che cercano di evitare di ridurre realmente le emissioni nei loro paesi. Una delle false soluzioni che permettono oggi a Eni e alle altre major petrolifere che stanno furbescamente planando spediti sulla narrativa verde della sostenibilità, di poter dichiarare al mondo che realizzano progetti di conservazione delle foreste e miglioramento della capacità di stoccaggio naturale di CO2, al tempo stesso supportando lo sviluppo delle comunità locali attraverso la promozione di attività economiche e sociali, e favorendo la conservazione della biodiversità.
I promotori dei Redd come Eni sostengono che poiché gli alberi assorbono CO2 quando crescono, le foreste possono immagazzinare parte dei gas serra emessi durante la combustione di petrolio, carbone e gas naturale. Così facendo essi intendono rafforzare impropriamente la convinzione che sia possibile risolvere il problema del cambiamento climatico senza mettere in discussione il modello di produzione promosso dall’industria fossile. In quest’ottica, dal punto di vista di Descalzi che si tratti di riforestazione o di progetti Redd poco importa perché è l’annuncio in sé che serve per realizzare il vero capolavoro della green economy: far passare una grande major del petrolio per campione della decarbonizzazione e dell’economia circolare.
Eni dichiara nella sua strategia verso la decarbonizzazione di voler ridurre il famigerato gas flaring (il fenomeno di combustione in torcia del gas in eccesso derivato dall’estrazione del petrolio), di voler sostituire i combustibili convenzionali con le cosiddette rinnovabili per alimentare gli impianti, e di voler compensare le emissioni «residuali» lanciandosi in questa grande campagna di «riforestazione» (leggi «conservazione delle foreste») su 8 milioni di ettari di terra africana.
Accantoniamo per un attimo il fatto che sono ben più di dieci anni che per esempio le comunità del Delta del Niger denunciano i disastrosi effetti delle attività di estrazione di Eni, raccontando di una popolazione esasperata dal gas flaring, dagli sversamenti di petrolio e dalla militarizzazione del territorio che oggi chiede alle multinazionali di smettere di trivellare. Accantoniamo anche che è dal 2005 che Eni è consapevole per sua stessa ammissione che il flaring del gas ha impatti drammatici, a lungo termine e irreversibili sulla salute e sull’ambiente e che, nonostante sia consapevole dei pericoli in atto, ha continuato a farlo. Il tutto sebbene nel 2011 l’allora Ad Paolo Scaroni avesse già assicurato agli azionisti durante l’assemblea generale di Eni che la società intendeva ridurre a «zero» il flaring nella sua attività petrolifera entro metà dell’anno. Da allora la società ha dichiarato di non bruciare più gas in torcia, però noi stessi abbiamo documentato a più riprese che il flaring continuava indisturbato in più siti nel Delta. Insomma, proviamo a dimenticare che quando si parla di Eni le rassicurazioni sulle intenzioni hanno lasciato fino ad ora il tempo che hanno trovato.
Concentriamoci invece sull’ovvio che Eni non dice, e cioè che l’attività «upstream» le cui emissioni intende compensare con le piantagioni artificiali (o i progetti Redd) altro non è che l’estrazione e lavorazione dei combustibili fossili dal terreno. Ma è l’utilizzo dei combustibili fossili estratti ad avere un impatto sul clima di gran lunga maggiore rispetto alle emissioni derivanti dalla sola estrazione, e quindi l’unico modo per affrontare davvero il cambiamento climatico è lasciare i combustibili fossili nel terreno e non certo fingere di compensarne l’impatto su clima e ambiente.
La vera perversione delle false soluzioni sta nella logica stessa della compensazione, per la quale ad esempio la natura può essere declinata in un insieme di servizi separati forniti da ecosistemi, misurabili e sostituibili, ed è quindi possibile compensare la loro distruzione, «proteggendo» la stessa quantità degli stessi servizi, presumibilmente minacciati altrove. Che si parli di progetti Redd, di progetti di compensazione della biodiversità, di piani di riforestazione per acquisire o vendere nuovi crediti di carbonio, di progetti di protezione dei servizi degli ecosistemi, si tratta solo di ulteriori tentativi dei mercati globali, e dei loro attori privilegiati, di avvalersi di una narrativa più popolare per continuare indisturbati il processo di accumulazione.
Se a qualcuno dovesse ancora apparire paradossale che campioni globali dell’industria estrattiva come Eni si preoccupino della natura e del clima, e che accademici di rilievo e grandi organizzazioni conservazioniste della natura siano a loro libro paga, forse a sfuggire è la capacità di adattamento e rigenerazione del sistema estrattivista, che pur di sopravvivere ha introiettato perfettamente la narrativa della green economy e se ne serve alla grande per rigenerarsi e potenziarsi.
L’estrattivismo inteso come sistematica estrazione di ricchezza e sovranità dai territori ha bisogno di sempre nuovi progetti estrattivi in aree ricche di biodiversità (più spesso nel sud del mondo), così come di mega progetti infrastrutturali in località più antropizzate (più spesso nel nord del mondo), in cui le zone protette rappresentano i pochi hotspot della biodiversità rimasti.
Allo stesso tempo, c’è l’urgenza di contrastare la crescente opposizione da parte delle comunità locali che rivendicano il diritto di decidere quel che avviene sui loro territori, sia nelle aree più urbanizzate del Nord globale che in quelle più remote del Sud del mondo. In entrambi i casi l’aumento dell’estrazione di risorse naturali e ricchezza dai territori e la loro trasformazione necessita il sacrificio di aree protette o ancora incontaminate. Da qui il bisogno per le aziende di ottenere una nuova licenza sociale e ambientale per continuare a distruggere il bene comune, sfruttando il ruolo dello stato per frenare l’opposizione popolare.
Lo stato così diventa strutturalmente indispensabile per rendere ogni nuova impresa giuridicamente possibile e giustificata in nome di un «interesse pubblico» che viene riformulato per conformarsi all’imperativo di pochi interessi privati. Le false soluzioni alla crisi climatica e ambientale basate sulla logica della compensazione altro non sono che esempi concreti, e pericolosissimi, di progressiva privatizzazione della legge, grazie alla quale ciò che sarebbe un crimine ambientale non è più trattato come tale se perpetrato da chi può pagare per compensarlo.
*Giulia Franchi, ricercatrice e attivista, con Re:Common dal 2010 documenta gli impatti del sistema estrattivista sulle comunità locali in Madagascar, Colombia, Senegal, Messico, Congo, Etiopia e Italia.
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