Razza e lavoro in Palestina
Le forme coloniali dello sfruttamento della forza lavoro di Gaza (e non solo) hanno avuto un ruolo rilevante sino alla vigilia del 7 ottobre
«Ad alimentare, da decenni, la violenza è la situazione concreta dei palestinesi, l’estensione della colonizzazione, la repressione di ogni attività politica, l’incarcerazione di massa e la violazione sistematica del diritto internazionale». Così Alain Gresh, in un articolo apparso sull’edizione di settembre di Le Monde Diplomatique, ha ricordato le radici profonde del conflitto in Medio Oriente, ritornato al centro della scena in seguito agli attacchi di Hamas del 7 ottobre e della punizione collettiva inflitta da Israele al popolo palestinese, costata la vita a migliaia di civili. In Cisgiordania prosegue intanto la colonizzazione: violenza dei coloni (definita «politica di terrore» persino dalla Francia) e violenza di Stato si intrecciano, minando alla radice ogni possibile risoluzione politica del conflitto in linea con il diritto internazionale e le risoluzioni delle Nazioni Unite.
Su queste colonne si è dato ampio spazio al conflitto: dando voce a persone palestinesi e israeliane critiche nei confronti del proprio governo, dell’occupazione e della guerra infinita; raccontando la diplomazia solidale di diversi governi latinoamericani; analizzando i rischi per Biden del proprio appoggio incondizionato a Israele, nonché l’impotenza dell’Unione Europea davanti ai crimini di guerra israeliani. Questo contributo vuole invece leggere il conflitto da un’altra angolatura chiamando in causa un «convitato di pietra», il lavoro.
I volti dimenticati che sorreggono l’economia israeliana
Proponiamo di guardare oltre l’esplicita violenza della pulizia etnica e del genocidio in atto a Gaza, soffermandoci sul ruolo che i processi di razzializzazione del lavoro palestinese (e non solo) hanno avuto nell’economia israeliana sino alla vigilia del 7 ottobre. Con ciò ci riferiamo alla categoria di razza intesa tanto come strumento di controllo sociale e politico, quanto come veicolo di sfruttamento economico differenziale, basato sulla disumanizzazione dell’altro funzionale alla sua esclusione dalla sfera dei diritti civili e sociali che dovrebbero caratterizzare un regime democratico. L’attribuzione di caratteristiche razziali da parte di un gruppo dominante a un gruppo dominato produce un’esclusione sia materiale che simbolica. Analizzare i processi di razzializzazione cui sono sottoposti in Israele lavoratori e lavoratrici palestinesi e migranti provenienti principalmente dal sud-est asiatico ci permette, ancora di più alla luce del genocidio in corso, di distinguere tra sfruttamento differenziale del lavoro migrante da un lato e iper-sfruttamento e repressione del lavorato palestinese dall’altro.
Per quanto riguarda i lavoratori e le lavoratrici del sud-est asiatico in Israele (circa 30mila thailandesi, ma anche filippini e nepalesi), si tratta di persone occupate in prevalenza nel settore agricolo e nei servizi: occupazioni in generale caratterizzate da bassi salari e cattive condizioni di lavoro, mediamente non appetibili per la popolazione israeliana. Arrivano in Israele tramite agenzie internazionali di reclutamento che richiedono tariffe particolarmente onerose per l’assunzione, anche alla luce del fatto che gli stipendi israeliani sono generalmente più elevati di quelli dei paesi del Golfo, altre economie che pure attraggono forza lavoro dall’Asia sud-orientale, come si è visto in occasione dei Mondiali di calcio in Qatar. Sebbene sia la stessa Organizzazione Internazionale del Lavoro a imporre che siano i datori di lavoro a pagare le spese di reclutamento, onde evitare qualsiasi forma di discriminazione dei migranti, in Israele come in molti altri paesi queste spese ricadono quasi sempre sui lavoratori, contribuendo a indebitarli. Ciò è ancora più rilevante in seguito agli attacchi del 7 ottobre, quando anche molti lavoratori e lavoratrici thailandesi, spesso occupati e residenti proprio al confine con Gaza, sono state assassinate e rapite per mano di Hamas nel silenzio dei media. Con lo scoppio del conflitto molti hanno provato a tornare nel paese di origine. Alcuni ci sono riusciti, ma la condizione di indebitamento ha reso particolarmente difficile il rientro, mentre il governo israeliano ha incentivato la permanenza con il prolungamento dei visti e con innalzamenti salariali, considerando anche la carenza di manodopera palestinese dopo il blocco dei visti ai lavoratori gazawi in seguito all’attacco del 7 ottobre. Significativamente il governo thailandese si è mosso per ottenere il rilascio di parte dei propri cittadini tenuti in ostaggio nella Striscia di Gaza tramite la mediazione iraniana. Nel corso delle negoziazioni, Bangkok ha fatto valere due elementi dirimenti: pur essendo un paese in buoni rapporti con Washington e Tel Aviv, ha infatti riconosciuto lo Stato palestinese nel 2012 e si è rifiutato di avallare la posizione oltranzista di Trump su Gerusalemme capitale d’Israele. Esiste, inoltre, una significativa differenza all’interno della classe lavoratrice proveniente dal Sud-Est asiatico. Mentre chi proviene dalle Filippine è impiegato nel lavoro domestico e vive nelle città israeliane (sperimentando una relativamente minore esclusione dal tessuto sociale), i thailandesi occupati in agricoltura e residenti nelle aree di confine sono sottoposti a una dura segregazione sociale, accentuata dal fatto che spesso non parlano né inglese né ebraico. Le aree di confine sono inoltre particolarmente esposte alle tensioni militari, come decine di questi braccianti hanno sperimentato sulla propria pelle il 7 ottobre.
Per i lavoratori e le lavoratrici palestinesi, invece, lo sfruttamento lavorativo assume specifiche forme militarizzate anche al di fuori del posto di lavoro, sul territorio e negli spostamenti. La presenza stessa di queste persone è considerata una minaccia alla sicurezza di Israele, come testimonia proprio il blocco dei visti successivo al 7 ottobre, nonché la criminalizzazione costante, esemplificata dalla deportazione forzata in Cisgiordania, dai casi frequenti di sparizioni di lavoratori fermati in questi giorni dalla polizia israeliana, dalle percosse e dalla confisca di telefoni, vestiti e soldi.
La premessa necessaria per cogliere la condizione di queste persone è l’inquadramento dell’economia israeliana all’interno della sua matrice coloniale. È a partire da qui che si comprende lo smantellamento dell’economia dei territori palestinesi e di ogni possibilità di sviluppo autonomo degli stessi, resi sempre più dipendenti dall’economia israeliana, con conseguenze nefaste per la popolazione palestinese, costretta ad accattare condizioni di lavoro particolarmente gravose in assenza di valide alternative. Il contenimento della disoccupazione palestinese da parte di Israele è stato poi utilizzato spesso come espediente per sfiancare la resistenza del popolo palestinese nell’ambito della cosiddetta «pace economica». Vale la pena ricordare che Gaza è uno dei territori con i più elevati tassi di disoccupazione al mondo. Il contesto generale è quello del Protocollo di Parigi del 1994, che prevedeva l’unificazione monetaria, il controllo israeliano sulle frontiere, ma anche delle telecomunicazioni, delle infrastrutture e dei trasporti, e che ha contribuito ad aggravare la condizione di dipendenza dei palestinesi dall’economia israeliana e, quindi, dal suo mercato del lavoro. Scriveva in proposito Neve Gordon in Israel’s Occupation (2008):
Il protocollo di Parigi sulle Relazioni Economiche (Aprile 1994) presentava le relazioni economiche tra Israele e palestinesi come se fossero relazioni tra parti uguali, eppure a dire il vero esso ha riprodotto molte delle relazioni diseguali che sono esistite per tutto il corso dell’occupazione […] Esso ha assicurato a Israele di controllare i flussi di forza lavoro e ha negato ai palestinesi il diritto di introdurre la propria moneta […]. In effetti, il Protocollo di Parigi è riuscito a replicare molte delle dinamiche coloniali che esistevano dal 1967.
Questo ha conseguenze anche sul piano delle relazioni industriali e dell’inserimento lavorativo dei palestinesi, occupati soprattutto nel settore delle costruzioni e spesso privi di copertura sindacale. I sindacati palestinesi, infatti, non hanno possibilità di intervenire sullo status legale in Israele e solo un sindacato israeliano, il Maan Workers Association, si occupa di organizzare e rappresentare i lavoratori e le lavoratrici palestinesi, considerandole parte integrante della classe lavoratrice israeliana. Secondo l’International Trade Union Confederation, la condizione materiale dei lavoratori palestinesi interseca dimensione coloniale e iper-sfruttamento, con la gestione dei permessi per motivi di lavoro da parte di Israele che perpetua la ricattabilità della popolazione palestinese. Il rilascio dei permessi è subordinato al possesso di una carta d’identità biometrica e a un controllo da parte dell’Autorità israeliana responsabile per i Territori palestinesi. I permessi vengono rilasciati solo in determinati settori, e gli episodi di caporalato e compravendita illegale di visti non sono rari. I permessi hanno una durata massima di 6 mesi, ma possono essere annullati in maniera del tutto arbitraria tanto dal datore di lavoro, quanto dai servizi di sicurezza israeliani, e questo è un vero e proprio strumento di ricatto per le persone impegnate in attività sindacali o politiche in senso lato. Inoltre, l’accesso ai luoghi di lavoro comporta il passaggio quotidiano da diversi checkpoint che prevedono procedure di controllo lunghe e umilianti. Ciò si inserisce nel contesto della svolta neoliberale che ha caratterizzato l’economia e il mercato del lavoro israeliani dagli anni 2000, portando a un’ondata di esternalizzazioni. Ciò ha indebolito le tutele lavorative, reso più difficile l’azione collettiva e ha rappresentato un ulteriore fattore di inserimento subalterno della popolazione palestinese nell’economia israeliana.
Le condizioni di lavoro dei migranti asiatici e palestinesi non si sviluppano come rette parallele destinate a non incrociarsi mai, ma sono anzi in rapporto diretto, come emerso chiaramente durante questo conflitto. Non è un caso, infatti, che a causa del blocco dei visti lavorativi ai gazawi e al loro sterminio fisico, Israele stia provando a stipulare nuovi accordi con altri paesi quali l’India per garantirsi la necessaria riserva di manodopera per evitare che determinati settori rimangano scoperti. Allo stesso modo prova a far restare quei lavoratori asiatici che ora vorrebbero tornare nei paesi di origine (o diversificare le proprie traiettorie di mobilità verso Taiwan o Corea del Sud) per sfuggire ai pericoli di un conflitto in cui alcuni sono stati incolpevoli target. Israele, di fatto, dispone a suo piacimento della forza lavoro palestinese, assorbendola alle sue condizioni in tempo di «pace» e relegandola nella disoccupazione e nell’esposizione alla violenza e alla morte in tempo di guerra aperta, forte del fatto che altri lavoratori e lavoratrici – anche loro migranti e razzializzati – potranno prenderne il posto grazie agli accordi stipulati con altri stati.
La dimensione coloniale dell’economia israeliana non è in contraddizione con l’organizzazione globale del capitalismo contemporaneo, ma ne è anzi parte integrante: è l’iper-sfruttamento del popolo palestinese colonizzato che sostiene anche lo sfruttamento normalizzato di altri lavoratori migranti, come sanno bene i sindacati indiani che già si sono pronunciati contro il nuovo accordo per la fornitura di manodopera come forma di ostilità al genocidio in corso. Essi hanno anche evidenziato che la manodopera indiana andrebbe a coprire le posizioni maggiormente subalterne all’interno dell’economia israeliana. È utile poi ricorare che il supporto dell’estrema destra indiana al genocidio portato avanti da Israele trova nell’etnonazionalismo anti-islamico la sua spiegazione: Nethanyau e Modi condividono, infatti, lo stesso approccio islamofobo che giustifica le violenze portate avanti contro la popolazione musulmana tanto in Israele quanto in India.
Per comprendere le radici profonde del conflitto in corso è dunque necessario tenere presente che colonialismo e sfruttamento differenziale sono due assi che si intersecano nel capitalismo contemporaneo. Proprio per questo è importante leggere quanto sta accadendo in Medio Oriente a partire da una prospettiva di classe che tenga in considerazione tanto il lavoro vivo delle soggettività razzializzate quanto il lavoro organizzato internazionale e la sua capacità concreta di esercitare pratiche di solidarietà attiva.
Il lavoro organizzato di fronte alla mattanza
Come segnalato dalla presa di posizione dei sindacati indiani, il lavoro organizzato – in un’ottica internazionalista, di giustizia globale e di rispetto dei diritti umani – può levare la sua voce di indignazione e praticare azioni concrete in supporto e in difesa dei civili palestinesi, per ottenere il cessare e per fermare la mattanza. Era stata del resto la Federazione Generale Palestinese dei sindacati a lanciare un grido di dolore e un appello alla solidarietà, facendo anche riferimento agli arresti e alla detenzione amministrativa subiti da molti lavoratori palestinesi in Israele.
Nel Regno Unito abbiamo assistito a diverse manifestazioni di massa per chiedere la fine delle ostilità e della pulizia etnica del popolo palestinese. Unison, il sindacato dei servizi pubblici, ha preso una posizione chiara. In un comunicato ha chiesto un immediato cessate il fuoco, facendo riferimento al crescente numero di morti causato dai bombardamenti israeliani e al collasso dei servizi vitali a Gaza (come quelli sanitari), chiedendo al contempo il rilascio degli ostaggi rapiti da Hamas, nonché mostrando preoccupazione per la crescita di islamofobia e antisemitismo. Unison ha inoltre invitato i propri iscritti a prendere parte alle manifestazioni in sostegno al popolo palestinese e a fare pressione sui membri del Parlamento per chiedere al governo azioni politiche concrete per la pace e il riconoscimento dello Stato palestinese. Unison si è impegnata a effettuare donazioni alle organizzazioni umanitarie che assistono il popolo palestinese, invitando le sezioni locali a fare lo stesso. Sempre dal Regno Unito, è importante menzionare il caso di Iwgb, sindacato di base molto attivo nel promuovere le lotte dei lavoratori migranti nei settori a bassi salari e basse tutele come i servizi esternalizzati e la gig economy. In un comunicato del 31 ottobre, Iwgb ha condannato duramente l’azione militare, chiedendo la fine dell’occupazione e ricordando come la lotta del popolo palestinese per la propria autodeterminazione sia una «lotta anti-coloniale e anti-apartheid e come tale è supportata da milioni di lavoratori di tutte le fedi e di ogni provenienza, incluse comunità ebraiche e musulmane, in giro per il mondo». Iwgb ha espresso la propria preoccupazione per ogni forma di razzismo (antisemtismo, islamofobia, razzismo contro le persone di colore) e – richiamando l’appello dei sindacati palestinesi – ha espresso il proprio supporto per: a) campagne nei posti di lavoro a favore delle iniziative di boicottaggio di Israele e delle aziende internazionali direttamente coinvolte nella violazione dei diritti palestinesi; b) il sostegno a iniziative per prevenire la costruzione e il trasporto di armi dirette a Israele; c) campagne di pressione sul governo britannico affinché interrompa la collaborazione militare con Tel Aviv. Sempre nel campo di sindacati che si occupano di tutela dei lavoratori della gig economy, Adcu (App Drivers and Couriers Union) – in concomitanza con la manifestazione nazionale di solidarietà con la Palestina – ha promosso un log-off di massa tra le 12 e le 2 di pomeriggio per consentire a fattorini e autisti di Uber, Deliveroo e Just Eat di unirsi alla protesta. Il tema è stato molto sentito da questi lavoratori, molti dei quali vengono da aree del pianeta segnate da guerre e conflitti e pertanto sono stati propensi ad empatizzare con le sofferenze del popolo palestinese e a partecipare a mobilitazioni per la pace e il rispetto dei diritti umani.
Anche i sindacati belgi dei trasporti hanno preso posizione in maniera forte, invitando i lavoratori degli aeroporti a non gestire alcun volo che trasporti materiale militare nella zona del conflitto. Allo stesso modo si sono mossi molti scali portuali quali Genova, Barcellona e Sidney. Negli Stati Uniti, il sindacato del settore automobilistico – recentemente protagonista di significativi scioperi che hanno scosso il settore a partire da importanti rivendicazioni salariali – si è espresso per il cessate il fuoco. In Norvegia c’è stato un importante dibattito parlamentare attorno al riconoscimento dello Stato palestinese. Inizialmente molti parlamentari avevano mostrato interesse per la proposta della sinistra radicale di riconoscimento immediato. Il compromesso raggiunto a larghissima maggioranza parlamentare e su proposta del governo di centro-sinistra, ha indicato una via più mediata, che supporta il riconoscimento unilaterale quando questo sarà «utile per il processo di pace». In questa partita il ruolo dei sindacati è stato importante. Sia LO (Confederazione Norvegese dei Sindacati) sia Fellesforbundet (Federazione Unita dei Sindacati, rappresenta lavoratrici e lavoratori del settore privato, affiliata a LO) hanno esercitato rilevanti pressioni sul Partito Laburista. Pur con qualche insoddisfazione da parte di LO per il compromesso finale raggiunto, la Norvegia si è comunque avvicinata più che in passato a un passo diplomatico decisivo.
Si tratta solo di una prima e parziale mappatura delle azioni sindacali di solidarietà con il popolo palestinese. Sebbene si tratti di strumenti e pratiche diverse tra loro, questi lasciano emergere una comune volontà del movimento operaio organizzato di dire la propria sulle grandi questioni del nostro tempo: la pace e la guerra, i diritti umani e la libertà dei popoli. A volte entra in gioco il potere strutturale di alcuni settori della forza lavoro, dato dalla collocazione strategica nel processo produttivo: discorso che vale per la logistica portuale e aeroportuale, nodi determinanti attraverso cui passa il commercio di armi. In altri casi si sceglie di utilizzare il proprio potere istituzionale per fare pressione sul sistema politico e dei partiti. In altre situazioni ancora – come nel food delivery britannico – è rilevante il dato della composizione della forza lavoro, che spesso viene da contesti di guerra e sente la necessità di esprimere solidarietà facendo log-off dalle applicazioni per partecipare alle manifestazioni.
I drammatici eventi in corso possono infine avere una funzione specchio, capace di suscitare riflessioni sullo stato generale e complessivo del proprio mondo del lavoro. Lo ha fatto Benjamin Douglas dalle colonne dell’edizione statunitense di Jacobin, parlando di «employment-at-will» e del potere effettivo di molti datori di lavoro americani di licenziare con facilità. In quest’ottica, il precariato, la flessibilità estrema e l’assenza di diritti sono un ostacolo reale per la libertà di espressione di lavoratori e lavoratrici specie su temi scomodi e divisivi.
*Lucia Amorosi, assegnista di ricerca in sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, genere e intersezionalità. È autrice di diversi articoli scientifici e divulgativi su femminilizzazione del lavoro, lavoro domestico e intersezionalità, temi che affronta anche a partire dall’ attività politica femminista. Nicola Quondamatteo, dottorando in scienze politiche e sociologia presso la Scuola Normale Superiore, si occupa di lavoro, precarietà e movimenti sociali. È autore di Non per noi ma per tutti. La lotta dei riders e il futuro del mondo del lavoro (Asterios 2019).
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