Scioperare nella pandemia
Nel 1919, mentre si diffondeva l'influenza spagnola, gli Stati uniti conobbero il ciclo di lotte operaie più importanti della loro storia. Con le ovvie differenze, anche questa volta un virus potrebbe produrre una nuova ondata di attivismo
Di rado viene notato che la più grande esplosione di lotte operaie nella storia degli Stati uniti, l’ondata di scioperi del 1919, si sovrappose alla peggiore crisi sanitaria nella storia del paese, la pandemia di influenza del 1918-1919. Nel 1919 scioperarono quattro milioni di operai, cioè un quinto della forza lavoro, una proporzione mai eguagliata.
Non fu solo il numero di lavoratori coinvolti a rendere straordinarie quelle lotte, ma anche il modo in cui sfidarono lo status quo. A Seattle, uno sciopero degli operai dei cantieri navali si trasformò in uno sciopero generale che bloccò la città per una settimana. A Boston scioperarono anche i poliziotti. A New York, gli attori serrarono i teatri di Broadway, mentre 50 mila lavoratori dell’abbigliamento si astennero dal lavoro per tredici settimane.
A settembre, circa 300 mila lavoratori incrociarono le braccia nel primo sciopero nazionale dell’acciaio, ne furono interessate le più potenti aziende del paese. A novembre scioperarono circa 400 mila lavoratori delle miniere di carbone, sfidando un appello del presidente Woodrow Wilson e un’ingiunzione del tribunale federale.
La rivoluzione russa e la crescente forza del Partito laburista britannico avevano diffuso uno spirito di radicalismo anche a settori normalmente conservatori del movimento sindacale statunitense. A Seattle e San Francisco, i portuali si rifiutarono di caricare pistole destinate a essere impiegate contro il nuovo governo russo. I sindacati ferroviari chiesero che tutte le linee ferroviarie divenissero pubbliche. Anche i minatori promuovevano la nazionalizzazione dell’industria del carbone. La grande ondata di scioperi era iniziata nel mezzo di una catastrofe per la salute pubblica.
L’influenza e l’insurrezione del lavoro
Tra l’agosto del 1918 e il marzo del 1919, quella che veniva comunemente chiamata influenza spagnola uccise almeno 30 milioni di persone. Negli Stati uniti, tra settembre 1918 e giugno 1919 morirono circa 675 mila persone, l’equivalente di 2,1 milioni di decessi per una popolazione delle dimensioni degli attuali Stati uniti (e molto vicino all’attuale scenario peggiore dei decessi da Coronavirus in assenza di misure di prevenzione). L’epidemia si era diffusa nell’ottobre 1918 ma si era intensificata di nuovo a dicembre e gennaio. Dopo un’altra flessione, una nuova ondata di influenza all’inizio del 1920 causò ancora più morti.
Molti scioperi nel 1919 avvennero dopo la fine dell’epidemia, ma alcuni si verificarono durante o immediatamente dopo. Nel gennaio del 1919, durante la terza delle quattro ondate di influenza che avrebbero colpito New York, 35 mila sarte – il 90% erano donne – abbandonarono il lavoro per chiedere una settimana di quarantaquattro ore e un aumento del salario del 15% in grado di reggere all’aumento del costo della vita.
A Seattle, l’influenza aveva colpito duramente uccidendo circa 1.400 persone, nonostante la chiusura di scuole, teatri, sale da ballo, ristoranti, bar e la maggior parte degli altri luoghi pubblici e la quarantena delle vicine basi militari. Il 6 febbraio 1919, l’epidemia in città era giunta alla sua fase finale quando 65 mila lavoratori scioperarono. Al momento in cui lo sciopero dell’acciaio terminò ufficialmente (con una sconfitta) nel gennaio 1920, l’epidemia aveva iniziato a farsi sentire ancora.
Stranamente, le connessioni tra l’influenza e l’insurrezione del lavoro non sono mai state tracciate. I resoconti standard dell’epidemia non menzionano quasi mai il lavoro, mentre i resoconti sul lavoro e l’ondata di scioperi, al massimo, gettano uno sguardo all’influenza, come quando citano la strumentalizzazione dell’epidemia come scusa per vietare le riunioni dei carpentieri.
Una rapida ricerca su quotidiani e riviste dell’epoca suggerisce che anche questi spesso non collegavano i due fenomeni, se non metaforicamente. The Literary Digest descrisse il 1919 come caratterizzato da «un’epidemia di scioperi». The Outlook, settimanale di New York , diceva che «la febbre da sciopero è nell’aria…. La malattia che ha colpito i nostri sistemi industriali scoppia in un posto mentre si attenua in un altro». È come se le due grandi rotture di un’era avvenissero in universi totalmente separati.
Questa dissociazione in parte riflette ciò che col senno del poi sembra una tendenza quasi bizzarra di minimizzare o ignorare sul momento e nei decenni che seguirono l’epidemia di influenza. Nel novembre del 1918, il New York Times, dopo due settimane durante le quali 9.000 residenti della città morirono a causa della malattia, scrisse: «Forse la particolarità più notevole dell’epidemia di influenza è il fatto che non è stata seguita da nessuna traccia di panico o persino tensione». Lo storico Alfred W. Crosby ha osservato che, nonostante l’enorme bilancio delle vittime, la pandemia «non ha mai ispirato timore reverenziale, né nel 1918 né dopo».
Forse il dramma della Prima guerra mondiale, il successivo processo di pace e la maggiore familiarità con la morte per malattia contagiosa e il combattimento hanno contribuito a sbiadire le reazioni e svuotare la memoria sociale. Chi sapeva che la figlia di Samuel Gompers, il più importante leader del lavoro nella nostra storia, morì di influenza?
In misura notevole, la vita è andata avanti durante l’epidemia. Sebbene ci siano stati sforzi abbastanza estesi per ridurre la diffusione della malattia attraverso la limitazione dell’interazione pubblica, non erano affatto vicini a ciò che stiamo vivendo oggi. Apparentemente, l’influenza e la militanza sul lavoro erano sfere separate. Non sembrano esserci stati scioperi o altre proteste del lavoro che hanno investito direttamente l’influenza, il suo impatto sui lavoratori e il modo in cui i datori di lavoro l’hanno gestita (anche se apparentemente nessuno ha mai provato a studiarlo, forse qualcosa del genere è accaduta). Né ci sono prove che l’epidemia abbia pesato in un modo o nell’altro sul successo dei lavoratori durante la grande rivolta.
Eppure, sepolte sotto la superficie, giacevano profonde relazioni tra le lotte e l’epidemia. I due fenomeni erano messi in relazione dalla guerra, dalla globalizzazione e dalla crisi del capitalismo.
La carenza di manodopera in tempo di guerra aveva consentito ai lavoratori statunitensi di avere più potere contrattuale, poiché la paura di perdere il lavoro era quasi scomparsa. Allo stesso tempo, il governo, per radunare la nazione in una battaglia che non avrebbe giovato direttamente a nessuno, l’ha definita una «Guerra per la democrazia», legittimando il processo di democratizzazione di un mondo del lavoro fortemente autoritario.
Per prevenire interruzioni della produzione in tempo di guerra, da Washington avevano costretto i datori di lavoro a migliorare le condizioni e a negoziare con i lavoratori. Di conseguenza, i sindacati ottennero enormi conquiste in termini di appartenenza, potere e presenza sociale. Lo scontro titanico tra lavoro e profitto dopo la guerra derivava dal fatto che gli operai avrebbero cercato di proteggere e incrementare i loro salari e che i padroni avrebbero voluto tornare indietro. La spinta radicale dell’azione sindacale rifletteva in tutto il mondo la sensazione che la guerra avesse dimostrato disastrosamente il fallimento morale e politico delle élite al potere e aperto le possibilità a nuovi modi di organizzare la società.
Anche l’influenza era un artefatto di guerra. Nessuno sa esattamente come e dove ha avuto origine, ma la sua rapida diffusione derivò direttamente dalla mobilitazione militare. L’epidemia colpì per la prima volta negli Stati uniti, nelle basi militari del nord-est nell’agosto del 1918 (anche se nel corso della primavera precedente si era verificato un aumento della malattia). L’esercito e la marina si dimostrarono vettori micidiali nel diffondere virus. Le nuove reclute rimasero bloccate nelle basi di addestramento, molti provenivano dalle aree rurali dove raramente erano state esposte a virus e quindi erano poco immuni. Le truppe viaggiarono attraverso il paese, spesso su treni affollati, diffondendo la malattia al loro interno e alla popolazione civile tra cui l’epidemia raggiunse il picco due mesi dopo essere stata identificata per la prima volta all’interno dell’esercito. Le truppe e le navi da trasporto portarono l’infezione in Europa (inclusa la delegazione statunitense ai colloqui di pace di Parigi) e alla fine in tutto il mondo, in un’epoca in cui il movimento di persone, merci e capitali oltre i confini nazionali giustificava il termine globalizzazione proprio come per i flussi di oggi.
Sia l’ondata di influenza che quella di scioperi furono manifestazioni del crollo dell’ordine esistente. Le rivalità imperialiste causarono una carneficina senza precedenti. L’impatto della devastazione economica, politica e sociale, suscitò scontri e accelerò le sfide radicali, culminando con la rivoluzione russa e l’impennata mondiale del lavoro e della sinistra che a essa si ispirò. Tra il caos e le rotture, il virus dell’influenza trovò un ambiente ideale.
Allora e adesso
Oggi le condizioni sono piuttosto diverse dal 1919. Eppure ci sono sovrapposizioni tra il Coronavirus e la pandemia influenzale spagnola e i loro legami con il lavoro. La pandemia attuale è molto più dirompente dell’epidemia del 1918-1919 (anche se resta da vedere se sarà altrettanto mortale). A differenza del 1919, gli Stati uniti e la maggior parte degli altri paesi hanno effettivamente chiuso gran parte delle loro economie per consentire l’isolamento sociale, generando una depressione economica profonda e forse di lunga durata.
In confronto, il movimento operaio oggi è molto più debole del 1919, dopo quasi mezzo secolo di flessione nella partecipazione e nella forza. Così, il rapporto tra protesta collettiva dei lavoratori e influenza è molto diverso oggi rispetto alla Prima guerra mondiale.
A differenza del 1919, in questo momento assistiamo a una raffica di proteste operaie che derivano direttamente dall’epidemia, tra di esse appelli, campagne per scrivere lettere, manifestazioni e persino scioperi. Di fronte al fatto che molti datori di lavoro trattano con disprezzo la salute dei propri lavoratori e le loro stesse vite, non riescono a fornire ai dipendenti le necessarie attrezzature protettive, insistono a farli lavorare in spazi ristretti, non mandano a casa i lavoratori con sintomi simil-influenzali, non disinfettano gli spazi contaminati, vietano l’uso di mascherine, non riescono a garantire un congedo di malattia o familiare adeguato e non offrono alcun compenso extra dignitoso per un lavoro potenzialmente letale, sempre più lavoratori hanno denunciato la situazione e hanno preso iniziativa. Gli scioperi hanno colpito diverse aziende, tra cui Amazon, Whole Foods, Perdue Farms e Instacart, insieme al trasporto locale in diverse città. I problemi relativi al Coronavirus hanno accelerato le campagne di organizzazione sindacale in diverse aziende, tra le quali Trader Joe’s. Alcuni hanno chiesto ai loro datori di lavoro di utilizzare lavoratori o risorse per combattere l’epidemia, come i lavoratori della divisione aeronautica Ge che chiedono che le loro fabbriche vengano riconvertite e utilizzate per fabbricare macchine per la respirazione.
Finora, le lotte sono state di piccole dimensioni e di breve durata. Ma le cose potrebbero cambiare. Quando il presidente Trump ha divulgato i piani per iniziare la riapertura delle attività a Pasqua, anche se è ovvio che la pandemia sarà ancora in atto, si è cominciato a parlare di uno sciopero generale. Sara Nelson, presidente internazionale dell’Associazione degli assistenti di volo (e possibile successore del presidente dell’Afl-Cio Richard Trumka), ha affermato che uno sciopero generale non è da escludere se la logica del «Se non si agisce nel modo giusto adesso morirai» diventasse senso comune.
La Prima guerra mondiale ha dato ai lavoratori un vantaggio insolito a causa della grave carenza di manodopera creata dalle esigenze della produzione bellica e dal blocco dell’immigrazione. Il Coronavirus sta dando ai lavoratori un vantaggio perché mantengono il livello morale alto. Operatori sanitari, addetti alla spesa, impiegati delle poste, operai del trasporto pubblico, assistenti domiciliari, agenti di polizia e di sorveglianza, camionisti, operai dell’industria farmaceutica, operatori della nettezza urbana, lavoratori agricoli e simili, che vanno a lavorare, giorno dopo giorno, in condizioni pericolose, e che consentono al paese di andare avanti. Nel frattempo, la degenerazione morale di dirigenti d’azienda e élite facoltose diventa sempre più evidente.
Quando i lobbisti si affrettano a ottenere favori speciali nei finanziamenti pubblici e ciò nonostante licenziano i dipendenti e pongono fine alla loro assicurazione sanitaria (se mai l’hanno avuta), senza fare sacrifici al sicuro nelle loro case confortevoli o seconde case, le conseguenze mortali delle disuguaglianze di ricchezza e potere sono evidenti a tutti. Quando Whole Foods, controllata dall’uomo più ricco del mondo, ha proposto che i suoi lavoratori aiutino nel tempo libero i colleghi malati di Covid-19, piuttosto che pensare a prendersi cura della salute e del benessere dei suoi lavoratori, il profondo marciume della società è divenuto evidente.
Anche l’incompetenza di gran parte del governo, specialmente a livello federale, può innescare altre lotte. Washington e molti governi statali e locali hanno fallito in modo clamoroso nel loro compito fondamentale: proteggere la salute e la sicurezza delle persone. I culti della privatizzazione, del ridimensionamento del pubblico e della magra produzione e distribuzione si sono rivelati disastrosi, insieme al disprezzo per la competenza e la scienza. Già, in tutto il paese, la gente comune ha colmato questo vuoto, producendo mascherine e abiti protettivi, aiutando i vicini, in prima linea senza arrendersi.
Forse, come nella Prima guerra mondiale, il Coronavirus smaschera i fallimenti del vecchio ordine e può produrre una nuova ondata di attivismo. Se questo è il meglio che possiamo fare, è giunto il momento di provare qualcosa di radicalmente diverso. Chissà, potremmo ancora vedere che non solo la malattia, ma anche le lotte possono far tremare il paese, come è giù successo una volta.
*Joshua Freeman è professore di storia al Queens College e al Graduate Center della City University di New York. Il suo ultimo libro è Behemoth: The History of the Factory and the Making of the Modern World.
Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.