Sciopero alla rovescia
Se un operaio, per lottare per i propri diritti, si astiene dal lavoro, cosa può fare un disoccupato?
Se un operaio, per lottare per i propri diritti, si astiene dal lavoro, cosa può fare un disoccupato? È da questo quesito che già nel primo dopoguerra, poi più compiutamente intorno agli anni Cinquanta, si sviluppano nelle campagne e borgate italiane forme di mobilitazione definite “sciopero alla rovescia”. Si tratta di proteste di tipo sindacale attuate svolgendo un lavoro non richiesto se non addirittura vietato dall’imprenditore. Pratiche con l’obiettivo di riappropriarsi della propria forza lavoro, magari iniziando a costruire un’opera di pubblica utilità (manutenzione delle strade, costruzione di fognature, ristrutturazione di case abbandonate) per poi pretendere dallo stato il riconoscimento e pagamento del lavoro svolto, oppure coltivando un terreno incolto per poi chiedere al proprietario il salario corrispondente o la terra.
Lo sciopero alla rovescia rimasto più a lungo nella memoria è quello del 2 febbraio del 1956 raccontato dallo storico attivista non violento Danilo Dolci nel libro Processo all’articolo 4. A Partinico, provincia di Palermo, un gruppo di braccianti guidati dallo stesso Dolci iniziò a lavorare una strada lasciata all’incuria: furono arrestati per occupazione di suolo pubblico e resistenza a pubblico ufficiale e per difendersi citarono proprio il diritto e dovere al lavoro previsto dall’articolo 4 della Costituzione.
Di fronte all’impossibilità di scioperare non solo per i disoccupati ma anche per precari con finte partite iva, collaboratori occasionali o operai la cui fabbrica chiude o migra all’estero alla ricerca di manodopera low cost, lo sciopero alla rovescia torna di attualità. Lo abbiamo visto praticare dai ricercatori non strutturati che, rivendicando il sussidio di disoccupazione anche per dottorandi e assegnisti, hanno mostrato in piazza che la loro è un’attività lavorativa e non solo formativa. Lo abbiamo rivisto nel mondo rurale nella Fattoria Mondeggi, vicino Firenze, dove un gruppo di agronomi e contadini occupa e autogestisce da quattro anni i 200 ettari agricoli della fattoria di proprietà della Provincia che, dopo anni di gestione discutibile, stava per essere svenduta. Lo abbiamo visto infine nelle esperienze delle fabbriche recuperate che, sull’esempio ormai ventennale in Argentina, si sono propagate in Europa e in Italia: a Trezzano sul naviglio nel 2013 un gruppo di lavoratori in cassa integrazione per la chiusura della Maflow, azienda di componentistica per auto, ha occupato i capannoni e continuato a lavorare riconvertendo la produzione verso il riciclo di apparecchiature elettroniche e mettendosi in rete con altre realtà per la produzione e distribuzione di generi alimentari “a sfruttamento zero”. E lavorando senza padroni si può mostrare al rovescio anche la società.
*Giulio Calella, cofondatore di Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia.
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