Trent’anni di cultura privatizzata sulla pelle dei lavoratori
Nei Musei italiani, in cui il primo datore di lavoro è lo Stato, gli stipendi medi sono al di sotto di 8€ l'ora, il lavoro nero è mascherato come volontario e il sistema delle esternalizzazioni arricchisce poche società con tanti conflitti di interesse
«Per 7 anni consecutivi ho avuto un contratto Co.Co.Co presso la pubblica amministrazione in un museo, mediamente retribuito, con mansioni di responsabilità. Dopo 7 anni sono passata a contratto con cooperativa, stesse mansioni, stesse responsabilità ma con un contratto che non prevede nessuna delle mie mansioni e con 4.600 euro lordi l’anno in meno».
«Nessuno ti offre un contratto, chiamano tutti a prestazione occasionale e se si supera il limite ti chiedono di aprire la partita Iva».
«È vergognoso che una cooperativa ti assuma a 6 euro l’ora con due lauree per mansione di guardiania museale. Contratti a chiamata anche con un orario fisso, nessuna tutela né trasparenza. Le ore fuori contratto che sono la regola».
Ieri, nella Sala Stampa della Camera dei Deputati, il collettivo Mi Riconosci? ha presentato i dati della sua inchiesta “Cultura, contratti e condizioni di lavoro”, e oltre ai dati numerici (un campione di 1.546 situazioni lavorative), risuonavano nella stanza anche le testimonianze di cui sopra. Testimonianze e numeri che hanno già attirato l’attenzione di parte della stampa nazionale: qui vogliamo raccontare l’altra parte della storia.
«Insomma, grandi possibilità per l’iniziativa privata nel settore dei Beni culturali, per la prima volta con un quadro di norme chiare e ben definite. Affari, ma anche cultura» scriveva La Repubblica nel 1995, esaltando la legge, votata all’unanimità dal Parlamento, che solo due anni prima aveva introdotto i servizi aggiuntivi per i Musei italiani ma, con lo stesso testo, li aveva resi obbligatoriamente esternalizzati e aveva sancito la possibilità di utilizzare volontari «ad integrazione del personale di Musei, Archivi e Biblioteche statali». Rileggere gli articoli di quegli anni oggi ha qualcosa di grottesco. Come grottesco è il silenzio dei Ministeri dei Beni Culturali e del Lavoro sui dati presentati ieri alla Camera: stipendi medi molto al di sotto degli 8 euro l’ora, professionisti specializzati che vivono sotto la soglia di povertà, lavoro nero (“volontari” pagati con rimborsi spese falsi) diffusissimo, oltre tre quarti delle partite Iva aperte non per scelta ma come condizione obbligata per poter lavorare.
Quali sono le condizioni che hanno reso possibile un quadro a tinte tanto fosche in un settore in cui il primo datore di lavoro è e resta lo Stato?
Chi mangia con la Cultura
Nel 2005 una relazione della Corte dei Conti sui Musei italiani recitava: «solo otto società concessionarie gestiscono oltre il 90 per cento dei servizi nei musei, delle quali una soltanto è presente in ben 24 musei, con ricavi che si avvicinano al 24 per cento degli introiti totali». Si denunciava una deriva monopolistica, e non mancavano i conflitti di interessi: uno dei gruppi più importanti, Civita (85 milioni di fatturato nel 2018) è stato per anni presieduto da Gianni Letta e avente come segretario generale il direttore di una partecipata che gestisce i musei di Roma.
Ci si sarebbe aspettati una revisione profonda del sistema delle esternalizzazioni, dati i risultati dell’indagine della Corte dei Conti. E questa revisione l’avevano promessa Dario Franceschini e, soprattutto, il Movimento 5 Stelle nel programma con cui vinse le elezioni nel 2018. Non è andata così.
Come va oggi, nel 2019? Dopo un decennio di crescita costante dei visitatori e dei profitti derivanti dal Patrimonio culturale?
La bigliettazione della più importante (a livello di numero di visitatori attesi) mostra del 2019, “Carthago: il mito immortale”, che si tiene al Colosseo, è in mano a Mondadori Electa (53 milioni di euro di fatturato nel 2018). Lo stesso gruppo che è indagato a Milano per turbativa d’asta e frode fiscale proprio riguardo i servizi aggiuntivi del Colosseo. L’intero blocco dei Musei di Roma è gestito da Zètema (47 milioni di fatturato), ex società privata ora partecipata al 100% da Roma Capitale, che, a fronte di qualche decina di lavoratori assunti con contratti umani, subappalta abitualmente servizi e sostituzioni ad altri, arrivando a pagare gli operatori “occasionali” (in particolare per festivi e aperture serali o eccezionali) 5,60€ l’ora; a Trieste i lavoratori dei Musei hanno denunciato di essere pagati 4,20€ l’ora; a Venezia i Musei sono gestiti da una Fondazione che a sua volta esternalizza tutti i servizi a CoopCulture, che assume con il contratto Multiservizi (quello per pulizie e mense, per capirci, 7,50€ l’ora); il più visitato museo del Trentino, il Muse di Trento, in crescita continua, vede i lavoratori in agitazione per le loro condizioni contrattuali; a Milano e a Modena è stato annullato un appalto in quanto vinto con un ribasso che appariva esagerato, dunque si è in regime di proroga e incertezza; a Pompei, Reggia di Caserta, Ercolano, Paestum, ovvero i siti culturali più visitati della Campania e del Mezzogiorno, i servizi aggiuntivi (e i profitti) sono sempre gestiti dalle società citate sopra, con sede a Roma o nel Centro-Nord. Per non parlare dell’abnorme quantità di Musei e istituti che per tenere aperto si affida a volontari: il caso più clamoroso è quello del Museo Archeologico Nazionale di Taranto o della Biblioteca Nazionale di Roma. Gli esempi potrebbero continuare a centinaia. Un impoverimento sociale ed economico impressionante.
Nel frattempo, la grande menzogna del «biglietti più alti, quindi più soldi per pagare gli stipendi» si sfracella contro la cruda realtà: quei soldi, da 25 anni, non restano né ai Musei pubblici né tantomeno ai lavoratori. L’aumento del prezzo dei biglietti, pedissequamente portato avanti da diversi direttori di Musei con aumenti fino al 100% in pochissimi anni, come agli Uffizi o al Museo Egizio di Torino, non ha portato ad alcun aumento dei salari: è servito solo a ingrassare e tutelare quelli che loro chiamano «stakeholders», ovvero i concessionari privati che hanno in gestione i servizi museali. I numeri sono imbarazzanti. Al Colosseo, a Pompei e alle Gallerie degli Uffizi (i tre siti italiani più visitati) nel 2018 il 10% degli introiti della bigliettazione sono andati ai concessionari privati, insieme a più del 90% (sì, più del 90%) dei profitti derivanti dai servizi cosiddetti aggiuntivi (guardaroba, visite guidate, audioguide, bookshop…). Si tratta di decine e decine di milioni di euro, solo per questi tre siti, ma il sistema si estende a tutti gli altri maggiori attrattori. Beneficenza di Stato sulla pelle dei lavoratori, parrebbe.
E se non c’è nessuna voglia di rivedere le esternalizzazioni correggendone le storture, altro bolle in pentola: la volontà di trasformare i musei pubblici in fondazioni private, in modo da continuare a esternalizzare a piacimento, ma con il vantaggio di poter nominare dirigenze e gestire fondi in un ambito totalmente avulso dalle regole della Pubblica Amministrazione. Ma torniamo ai lavoratori e al lavoro, che di questa trasformazione in senso ancor più privatistico sarebbe la prima vittima.
L’esercito dei fantasmi
Questo mondo surreale, cresciuto nel silenzio e nella compiacenza di molti media, in cui un Ministro poteva inventare una trovata retorica come «con la cultura non si mangia» (ben conscio che tanti invece stessero mangiando e molto bene) senza alcun tipo di fact checking giornalistico che ridicolizzasse in pochi minuti quella affermazione, ha continuato a espandersi per decenni. Espansione accompagnata dalle ben note riforme scolastiche e universitarie che hanno man mano marginalizzato la Cultura e ogni sapere critico.
L’intero settore culturale italiano, dalle biblioteche di quartiere agli Archivi di Stato, dal Colosseo ai musei civici meno noti, oggi si regge su un esercito di persone altamente qualificate pagate poco, pochissimo o nulla. Lo raccontano drammaticamente i dati da noi raccolti, ma anche quelli, complementari, raccolti da altri soggetti quali Istat e Confederazione Italiana Archeologi. Retribuzione annua che nell’80% dei casi non arriva a 15 mila euro, ma che nel 38% non supera i 5 mila (!!!). Salari orari che in metà dei casi si piazzano sotto gli 8 euro orari, ma nel 12% non superano i 4. E parliamo di un campione di intervistati in massima parte laureati o post-laureati: eppure la retribuzione, stando ai nostri dati, cambia ben poco a seconda del titolo di studio o dell’età.
Nella metà dei casi non c’è alcun contratto, e quando c’è è spesso un contratto da magazziniere (Commercio), da operatore generico (Multiservizi, Cooperative sociali) o ancora da vigilante armato o da metalmeccanico. Stiamo parlando di contratti stipulati da privati concessionari di beni pubblici, lo ribadiamo. Per il resto co.co.pro., prestazione occasionale, partita Iva la fanno da padrona, ma registriamo anche un centinaio di lavoratori (su 1.500) che sono pagati «con rimborso spese»: sarebbe a dire, in nero inquadrati come volontari. Inutile sottolineare che, in un settore in cui tutti i beni più importanti sono pubblici, solo un’esigua minoranza dei lavoratori, circa l’8%, lavora per la Pubblica Amministrazione e che (dato che esula dal nostro questionario) i funzionari del Ministero dei Beni Culturali sono i meno pagati di tutti i Ministeri italiani.
Mentre blateravano di innovazione e impresa, privati e Stato lucravano su tante ore di lavoro sottopagate o non retribuite: il 41% degli intervistati dichiara di fare abitualmente straordinari non pagati. E le paghe peggiori non sono prerogativa dei privati: non sono affatto rari, nei nostri dati, i casi in cui la Pubblica Amministrazione paghi di fatto meno di 4€ l’ora (in nero o con il Servizio Civile). E ancora, seppure siano nel Mezzogiorno le regioni in cui le retribuzioni appaiono più basse, il distacco con il resto del Paese non è affatto netto: la stragrande maggioranza delle paghe orarie si aggira fra i 4 e gli 8 euro l’ora, da Nord a Sud. Vuol dire in molte aree del Paese vivere ampiamente sotto la soglia della povertà. Questa è solo una breve sintesi: i dati meritano di essere letti dall’inizio alla fine, e potete farlo qui.
Di fioretto e di spada
In pochi negli anni Novanta si erano accorti che il settore del Patrimonio Culturale era stato trasformato in territorio di sperimentazione per le più estreme teorie economiche che puntavano alla riduzione radicale degli investimenti pubblici e dei diritti dei lavoratori: come in altri settori, ma con la differenza fondamentale che nel settore culturale il primo datore di lavoro era ed è sempre lo Stato. Quei pochi erano stati derisi e silenziati. La cosa evidente, vedendo le reazioni alla pubblicazione di questi dati, vedendo gli articoli sui giornali, vedendo anche il processo a Napoli Sotterranea (Onlus che sfruttava i volontari) è che una nuova consapevolezza è ormai sorta, e che la disponibilità ad accettare questa realtà come l’unica possibile è sempre meno, soprattutto nelle più giovani generazioni.
Chi guadagna da questa situazione non ha ancora commentato i dati da noi presentati, come ampiamente prevedibile, ma il velo che copre le loro vergogne è sempre meno saldo. Con queste righe ci rivolgiamo sia a chi lavora nel settore culturale, sia a tutte le persone che desiderano un mondo più giusto. Ai primi, chiediamo ancora una volta di trovare la forza di denunciare, di segnalare gli abusi, di parlare con i colleghi, di aumentare la consapevolezza e di incontrarci e organizzarci. Ai secondi chiediamo di sostenere la forza e l’impegno dei lavoratori e dei professionisti dei Beni Culturali: non, o non solo, per una stabilizzazione, ma per un cambio radicale nella gestione del Patrimonio culturale che in questi trent’anni ha impoverito le casse pubbliche, i lavoratori e terribilmente il Paese a livello culturale.
Noi lavoreremo, dal basso, sui territori, per far emergere tutti i casi di sfruttamento e illegalità, e per ottenere dal Parlamento alcune semplici leggi: una norma che limiti l’uso del volontariato a casi di occasionalità, emergenza o aiuto ai lavoratori regolarmente assunti; una seconda legge che imponga ai privati che lavorano con il Patrimonio pubblico, o alle Fondazioni partecipate che gestiscono Patrimonio pubblico, di utilizzare sempre e soltanto certi tipi di contratti, e che vietino di esternalizzare ulteriormente; e infine un nuovo regolamento che riveda interamente i criteri di appalto ed esternalizzazione per quanto riguarda i servizi culturali, permettendo a Ministero ed enti locali di esternalizzare solo a certe condizioni, solo determinati servizi e solo quando vi sia una reale necessità o vantaggio per la collettività. Insomma, semplicemente, chiediamo di ribaltare il tavolo rispetto a una gestione trentennale che, numeri alla mano, ha portato enormi profitti nelle tasche di pochi creando un dramma sociale, culturale ed economico che non ci meritiamo di vivere: siamo le donne e gli uomini che tengono in piedi il Patrimonio culturale italiano e, in maniera indiretta, l’intero indotto turistico derivante dalla Cultura, e non possiamo più accettare questa vergogna spacciata per innovazione.
*L’articolo, e l’inchiesta da cui esso prende il via, sono frutto del lavoro e dell’impegno del collettivo di attivisti Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali, di cui tutti gli autori fanno parte.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.