Tutela di stato
La folle gestione del patrimonio culturale italiano, tra speculazioni e precariato, è messa alla dura prova del Coronavirus
A volte un sistema si scopre debole solo nel momento in cui sta già irrimediabilmente crollando. Su una discreta successione di menzogne si può costruire un matrimonio, una carriera professionale o politica, e molto altro: un buon bluff può reggere a lungo, se chi lo esegue è perfettamente in controllo delle sue carte e dell’ambiente circostante. Ma basta un errore, o un imprevisto, per far capire a chiunque ti stia intorno non solo che stavi bluffando in quel momento, ma per mettere in discussione tutto ciò che avevi detto o fatto in precedenza. Mai bluffare troppo.
Il sistema economico e di potere che ha regolato e gestito il patrimonio culturale italiano dal 1993 a oggi, con poche evoluzioni e modifiche, era basato su una solida menzogna, che può essere riassunta nella frase «i privati servono per fare ciò che lo Stato da solo non può fare». Era una menzogna solida, ma fondata su due basi decisamente instabili: il fatto che i biglietti staccati dai musei aumentassero di anno in anno, e il fatto che lo Stato «risparmiasse». Sono bastate poche ore, tra il 23 e il 26 febbraio scorso, a svelare il grossolano bluff: nella gestione del Patrimonio culturale italiano i privati negli ultimi trent’anni hanno fattonon quello che lo Stato non può fare, ma ciò che lo Stato ha deciso di non fare e far fare ad altri.
C’è il caos nel settore, da un mese, e non solo tra i lavoratori senza stipendio. Zétema, la società in house del Comune di Roma che gestisce i servizi museali, giusto per esternalizzare lavoro e introiti, sta mandando i suoi dipendenti a lavorare in musei chiusi in modo che il Comune sia costretto a onorare il contratto di servizio; il Fondo Ambiente Italiano, privo dell’abnorme copertura mediatica garantita dalla RAI in marzo, rimanda ma non annulla le giornate di Primavera; le cooperative vengono travolte senza sapere che fare né perché farlo; gli operatori museali specializzati, spesso silenti, fanno notare che l’essere costretti a lavorare a partita Iva non ha alcun senso; i dirigenti del Ministero dichiarano alla stampa che con un sistema come quello americano (musei privati sostenuti da fondi privati) sarebbe andata meglio, senza sapere che negli Stati Uniti i musei stanno invocando aiuti statali per non dover chiudere per sempre. Un terremoto.
Ed ecco, in ordine sparso, gli stessi alfieri del sempreverde «orgogliosamente senza fondi pubblici» implorare aiuti pubblici per poter continuare ad andare avanti come prima.
«Noi arriviamo a una perdita secca di 500 mila euro questa settimana, ma c’è una crisi ancora più grave, quella delle persone che non lavorano direttamente con noi: ci sono 160 persone che lavorando – lasciatemi dire una parola sbagliata – a partita Iva, a cottimo, a prestazione, non percepiscono lo stipendio.
Per noi è un problema gravissimo, ma è anche un problema sociale, non tanto per i soldi che noi ci mettiamo in tasca, o non ci mettiamo in tasca…»
A parlare è Evelina Christilin in prima serata su La7, il 26 febbraio: manager torinese vicinissima alla famiglia Agnelli, piazzata nei decenni ovunque fosse necessario nominare qualcuno di fidato, è presidente della Fondazione Museo Egizio dal 2012, succedendo a Alan Elkann. «Dalla FIFA a Enit, una donna abituata a stare ai vertici», così la racconta Vanity Fair.
Il cortocircuito in queste parole è incredibile, come lo è il fatto che siano state pronunciate senza tentennamenti: si arriva non solo ad assumere che il far lavorare il 75% dei dipendenti del museo «a cottimo» sia una sottospecie di legge di natura che non necessita contraddittorio e notazioni di alcun genere; ma, in virtù di ciò, si arriva a utilizzare i precari come bandierina da sventolare per poter chiedere allo Stato aiuti «non per i soldi che ci mettiamo in tasca, ma perché sennò loro non lavorano». Il privato che gestisce il Museo a nome dello Stato diviene, o meglio si autoproclama, mediatore unico tra gli interessi dei lavoratori e quelli pubblici.
È interessante che arrivino proprio dalla presidenza del Museo Egizio le dichiarazioni che meglio di altre hanno reso palese il caos di idee e argomenti che sta pervadendo l’establishment che ha gestito il Patrimonio culturale italiano a proprio uso e consumo dal 1993 ad oggi. Il Museo Egizio è più di ogni altro il simbolo di ciò che è avvenuto: trasformato da statale a privato nel 2004 con la partecipazione di Unicredit e San Paolo, «primo esempio italiano di partecipazione del privato alla gestione di un patrimonio culturale pubblico» secondo il loro sito, è in realtà il primo esempio di gestione privata del Patrimonio pubblico, caratterizzato da nomine politiche in sequenza nei ruoli dirigenziali (basti pensare che Evelina Christilin stessa è stata nominata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, con cui mai aveva avuto nulla a che fare) e da una enorme visibilità mediatica nel segno del «senza fondi pubblici»: affermazione costantemente falsa ma costantemente presa e spacciata per vera.
Il 3 marzo i musei di mezza Italia erano chiusi ormai da dieci giorni, senza alcuna distinzione tra quelli visitati da decine di migliaia di persone ogni giorno e quelli visitati da poche decine di visitatori; nelle stesse aree erano sospesi tutti gli eventi culturali; le gite scolastiche erano annullate in tutto il Paese. Il tutto senza aver previsto alcun tipo di misura per chi avrebbe perso stipendio e reddito.
Come nulla fosse, quella mattina il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, con entourage e telecamere al seguito, visitava la grande mostra su Raffaello alle Scuderie del Quirinale, per la quale erano stati venduti oltre 70 mila biglietti in prevendita e la cui organizzazione aveva scatenato diverse polemiche: la più rilevante è quella del prestito, nel corso del 2019, di 21 opere si altissimo spessore da tutta Italia alla Francia per la mostra su Leonardo, in cambio di (solo) 7 opere che sarebbero finite nel 2020 proprio alla mostra su Raffaello in questione. Gli incassi della mostra sono, come sempre, privati. La mostra in questo clima surreale ha aperto il 5 marzo, creando come ovvio code e assembramenti, per poi chiudere tre giorni più tardi di fronte all’imponente avanzata del contagio e ai nuovi decreti. Non sappiamo se la mostra riaprirà, ma sappiamo che chi ha comprato il biglietto potrà essere rimborsato, grazie ai 130 milioni previsti nel decreto «Cura Italia» del 16 marzo: contiene voucher per biglietti di cinema, musei, mostre, teatri, in modo che siano tutelati i clienti ma, soprattutto, le imprese che in caso contrario sarebbero state costrette a rimborsarli di tasca propria.
Sono piccoli atti che danno l’idea di quanto malato sia il sistema che ha regge il patrimonio culturale italiano: mostre private in spazi pubblici ottenute attraverso il prestito di beni pubblici ad altri Stati per ottenere in cambio altri beni pubblici; gestori nominati dallo Stato e dagli enti pubblici che fanno lavorare a cottimo centinaia di persone; introiti di caffetterie e librerie nei più grandi e famosi Beni Culturali italiani appaltati per la quasi totalità a imprese private; e, soprattutto, imprese private che invocano il rischio d’impresa zero: finché il turismo va alla grande, briglia sciolte e nessun vincolo, ma quando sorgono i problemi, lo Stato mi aiuti. Questi aiuti puntualmente arrivano, mentre non arrivano alle decine di migliaia di persone che a causa a questo sistema dal 23 febbraio non hanno di che mangiare. Nel migliore dei casi, per quelli cioè contrattualizzati con almeno una collaborazione continuativa, arriveranno a oggi 600 euro, cifra che somiglia a un’elemosina nel mezzo di una crisi simile. La situazione è talmente in rivolgimento che gli assessori alla cultura di molte importanti città italiane, anche afferenti a giunte di centrodestra, hanno chiesto al Governo misure decisamente in controtendenza, come l’estensione del reddito di cittadinanza per qualche mese a chiunque abbia perso il lavoro nel settore e maggiori tutele per i lavoratori. Per ora il Ministero li ha totalmente ignorati.
La domanda che ci si fa a questo punto è: quanto può reggere questo sistema? Le imprese che gestiscono i servizi museali (biglietteria, visite guidate, ristorazione…) nei siti più turistici, dagli Uffizi a Pompei, vedranno azzerarsi i loro guadagni: grazie all’esternalizzazione e ai subappalti, molto del personale è già stato sfoltito senza colpo ferire, ma ciò potrebbe non bastare per garantirne la sopravvivenza. Le cooperative che gestiscono i servizi in piccoli musei, o in biblioteche e archivi, quanto a lungo saranno pagate da comuni ed enti locali per un servizio che non stanno fornendo? Anche in questo caso, il personale già ora viene abbondantemente sfoltito senza colpo ferire. Le fondazioni che gestiscono grandi Musei con introiti milionari, da Torino a Venezia, quanto a lungo saranno mantenute da enti pubblici per cui andranno a costituire un costo gravoso, oltretutto non garantendo i livelli occupazionali?
Le grandi realtà potrebbero essere mantenute con un bombardamento di fondi pubblici: centinaia di migliaia di persone perderebbero il lavoro per consentirne il salvataggio con bilanci sostenibili. Le piccole realtà sarebbero travolte. Ma il salvataggio con fondi pubblici è divenuto ormai difficilmente difendibile, dopo decenni di «lo Stato da solo non ce la fa», e questo spiega perché dal 26 marzo il Corriere della Sera promuove la creazione di un Fondo di investimento con cui i contribuenti privati possano fare “un prestito” al Patrimonio culturale italiano: un modo per porre sotto controllo privato e bancario un ulteriore pezzo di Patrimonio pubblico mascherandolo da “piano con cui i risparmiatori italiani contribuissero a salvare dal disastro, o addirittura dalla morte, quel patrimonio immenso”.
Quest’ultimo bluff potrebbe anche funzionare, ma è difficile crederlo, non foss’altro per la massa di persone a reddito zero che si riverserebbero contemporaneamente nelle strade. Resta poi la difficoltà abnorme di trovare argomenti volti a giustificare il vulnus basilare di tutta questa storia: è ormai evidente e chiaro a molti il sempre ovvio ma sempre taciuto «con il Patrimonio culturale il gestore privato da solo non ce la fa».
Lo stato italiano da tempo non si limita, come da Costituzione, a tutelare il Patrimonio e il lavoro, accorrendo all’aiuto di privati solo in presenza di vantaggio per la collettività. Ora, se questo stesso stato dovesse finire a tutelare a proprie spese, insieme al Patrimonio, anche alcuni singoli privati scelti, a costo di perseverare nelle perdite economiche e nel protrarsi di un sistema di sviluppo turistico-culturale dannoso, legando la tutela del lavoro alla disponibilità economica di quelle singole imprese, in modo totalmente slegato dalle esigenze dei territori… Se dovesse andare così, i cittadini italiani e i lavoratori del settore saranno pronti a digerire questa ultima mirabolante capriola nel pieno di una crisi economica e sociale senza precedenti, crisi in cui il Patrimonio culturale dovrebbe e potrebbe rivestire un ruolo fondamentale nella fase di rinascita sociale e civica molto prima che economica?
La risposta arriverà a breve, ma certo sono brutti momenti per chi ha costruito imperi economici e politici su menzogne: improvvisatisi nel ruolo di questuanti ai tavoli ministeriali, sono arrivati all’imprevisto che ha spazzato via ogni copertura decisamente impreparati.
*Leonardo Bison è archeologo e dottorando all’Università di Bristol. Da anni si occupa di lavoro e gestione del Patrimonio culturale con il collettivo ‘Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali’
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