Un poeta bolscevico nel Midwest
Nel 1925, il poeta comunista russo Vladimir Majakovskij visitò Chicago, Detroit, Cleveland e Pittsburgh. Le sue riflessioni del viaggio unirono la meraviglia al disgusto per la modernità industriale
Per tutto il ventesimo secolo, non era raro che importanti figure culturali della sinistra statunitense visitassero l’Unione sovietica. W. E. B. du Bois, Langston Hughes, John Reed e Angela Davis hanno tutti esplorato la vasta nazione socialista con entusiasmo e a mente aperta. Lo stesso valeva per i russi che, nonostante la Guerra fredda, erano spesso affascinati dal dinamismo degli Stati uniti.
Tra questi c’era il poeta rivoluzionario Vladimir Majakovskij, che ha visitato gli Stati uniti nel 1925. Pur se ormai risalenti a cent’anni fa, le sue intuizioni rappresentano una prospettiva unica nel carattere di una nazione per come appare da uno sguardo esterno. Nato nella rurale Georgia nel 1893, Majakovskij era poco più che un ragazzo quando è arrivato negli Usa. È stato tra i fondatori del Futurismo Russo, un movimento culturale che rifiutava le nozioni artistiche pre-moderne e abbracciava il ritmo turbolento della modernità; il suo viaggio negli Stati uniti, la nazione più moderna del mondo, tra il maggio e l’ottobre 1925, ha avuto un’importanza significativa sia artistica che politica.
Nel Nuovo Mondo, Majakovskij ha letto i propri versi a un pubblico operaio, parlando dell’estetica proletaria e lottando contro un sentimento di nostalgia e disgusto per l’arretratezza politica del capitalismo americano. Era chiaro che non fossero tempi romantici. Vladimir Lenin era morto l’anno prima che il poeta arrivasse negli Stati uniti e la Russia portava ancora le cicatrici della Guerra civile.
Per Majakovskij poesia e politica non erano molto separate. Riflettendo sulla propria vita bohémien, ha scritto: «Questo è il mio problema più grande: dare fuoco a tutto il mio passato bohémien per raggiungere le vette della Rivoluzione». Negli Usa non ha mai rifiutato l’opportunità di parlare con altri artisti avanguardisti nei caffè, nonostante le barriere linguistiche tra lui e i suoi compagni rendessero difficile la comunicazione. Una volta, parlando in pubblico, ha chiesto al suo intermediario di «tradurre questo per loro… Di’ loro che, se solo conoscessero il russo, io potrei, senza neanche lasciare una macchia sul davantino delle loro camicie, usare la mia lingua per inchiodarli alle croci dei loro tutori, potrei rigirarmi tutta la verminosa loro collezione sullo spiedo della mia lingua». Il suo amico e compagno futurista David Burliuk ha parafrasato: «Il mio grande amico Vladimir Vladimirovich vorrebbe un’altra tazza di tè».
Non molto è successo durante il viaggio americano che non è poi sfociato in versi. Del ponte di Brooklyn ha scritto: «Sono orgoglioso di questo miglio di metallo, è qui che le mie visioni si possono innalzare»; sull’Oceano Atlantico: «Le onde sono padrone dell’agitazione: possono schizzarti addosso la tua infanzia; oppure – la voce del tuo amante». C’è qualcosa di disturbante e rivitalizzante nel vedere le immagini familiari della propria nazione gettate sotto una nuova luce e descritte con una tale integra accuratezza.
Gli inizi del ventesimo secolo sono stati un periodo di mobilitazione e militanza politica. Il Partito socialista americano, il sindacato International Workers of the World e il Partito comunista americano sono stati tutti fondati durante i primi due decenni del secolo. Comunisti e socialisti prevalevano nella cultura popolare quanto in politica. Erano alla radio (Paul Robeson, Woody Guthrie, Sis Cunningham), al cinema (Charlie Chaplin, Orson Welles, Dalton Trumbo), nei libri (Langston Hughes, Richard Wright, Arthur Miller), nelle gallerie d’arte (Pablo Picasso, Frida Kahlo, Alice Neel), e riempivano i quotidiani e le riviste, molte di queste appartenenti ai partiti comunista e socialista.
Majakovskij, come i suoi compagni comunisti negli Stati uniti, aveva inquadrato perfettamente lo spettacolo dei «ruggenti anni Venti». Con un comico sguardo prosaico, era sempre svelto a sottolineare come lo sfruttamento capitalista sostenesse tutto il sistema economico e sociale. In un’occasione ha osservato che alcuni aspetti della bellezza femminile erano pilotati spietatamente dalla stretta mano delle forze di mercato: preferire i capelli corti o lunghi dipende solamente dal livello di influenza dei manifatturieri delle forcine (dalla parte dei capelli lunghi) e dei parrucchieri (avidi sostenitori del caschetto).
Il Volga americano
La «scoperta dell’America» di Majakovskij viene spesso associata alla sua prolungata e avventurosa permanenza a New York, dove ha scritto il poema sul Ponte di Brooklyn, ha incontrato leggendari poeti comunisti americani come Mike Gold, e ha avuto un intreccio romantico che ha portato alla nascita di una figlia segreta.
Ma ha anche viaggiato verso ovest, prendendo il cosiddetto treno espresso da Pittsburgh, Cleveland, Detroit, e dal grande faro del Midwest, Chicago. Dando mostra del suo ingegno, Majakovskij ha osservato sarcasticamente che «un treno da Chicago a New York ci mette ventidue ore, un altro ventiquattro, e un terzo ce ne mette venti. Sono tutti chiamati allo stesso modo – espresso».
Il Midwest che scorreva dal finestrino del treno era, per lui, il posto dove iniziavano «le vere città americane». «C’era uno scorcio del Volga Americano – il Mississippi; sono rimasto sorpreso dalla stazione dei treni di St. Louis». Ammirava questi paesaggi vasti, ampi, i loro dettagli, le diverse geografie, i paesaggi industriali del cuore automobilistico di Detroit, le fabbriche di Chicago, il raggiante, incorreggibile Midwest.
Majakovskij aveva già sviluppato un attaccamento romantico alla zona centrale degli Stati uniti molto prima di prendere il mare attraverso l’Atlantico. Nel suo poema narrativo 150.000.000, descrive Chicago nel 1920 come
Il mondo,
da frammenti di luce
componendo un quintetto,
diede in dote [all’America] un potere
che è magico –
una città da allora si erge
su un’unica spirale –
è tutto elettro-dinamo-
meccanico.
Ciò che attirava il poeta alla città era la sua combinazione sfrontata di urbanizzazione e industrializzazione. «Chicago non si vergogna delle sue fabbriche», ha dichiarato. «Non le relega alle periferie. Non si può sopravvivere senza pane, e McCormick [un produttore di falciatrici meccaniche] ha messo i suoi impianti di produzione di macchinari più in vista, e con più orgoglio, di quanto ogni Parigi possa fare per la propria Notre-Dame».
Detroit era quella città che risultava familiare a chi veniva da tutto il mondo: era il centro dell’industria automobilistica, tra Chicago e Cleveland, e vi si potevano trovare fabbriche per Packard, Cadillac, e Dodge, ma sopra di esse torreggiava Ford, e più significativamente il fordismo. Majakovskij manteneva sempre una prospettiva articolata sul potenziale del nuovo sistema organizzativo capitalista: sarebbe stato utile per un governo socialista mettere in pratica alcune di queste nuove forme di organizzazione, pensava, ma queste da sole non sarebbero state sufficienti. Il fordismo non poteva essere, insisteva, «trapiantato senza alcuna modifica nel sistema socialista».
Nel centro di Cleveland ha parlato al sindacato dei Carpentieri, dove, secondo il Daily Worker, ha fatto una «lezione culturale proletaria» per «tutti i lavoratori che parlavano russo». Apprezzava il fascino del Midwest, criticando la densità di Manhattan pur trovando «ispirazione poetica [da] un hotel a venti piani o un altro di Cleveland, di cui i locali dicono: ‘Hey, quell’edificio ci soffoca».
Il Midwest del 1925 era, per molti versi, radicalmente diverso da oggi. In origine il cuore industriale del capitalismo statunitense, la megaregione dei Grandi Laghi ha da tempo perso molte delle sue fabbriche a causa della crescente competizione internazionale. Eppure nonostante questo, c’è qualcosa di incantevole e toccante nel ritratto che Majakovskij ha fatto della regione.
Resta vero che comprendere le diverse circostanze e le relazioni precise tra le classi nell’America odierna è una condizione necessaria per mettere in atto un cambiamento politico. A quasi cent’anni di distanza, Majakovskij ci offre ancora delle lezioni utili da seguire.
*Taylor Dorrell è uno scrittore e fotografo di Columbus, Ohio. È un collaboratore per Cleveland Review of Books, un giornalista per Columbus Free Press e un fotografo freelance. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Valentina Menicacci.
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