
Purtroppo non possiamo fare a meno di Twitter e Facebook
I social media potrebbero essere il miglior strumento di propaganda politica che sia mai esistito, se solo imparassimo a usarli diversamente
Non ho nulla contro le tesi centrali del recente articolo di Benjamin Y. Fong “Possiamo fare a meno di Twitter e Facebook?”, nel quale elenca gli effetti nocivi dei social media. È un fatto incontrovertibile che i social aumentino il narcisismo, incoraggino la crudeltà, erodano l’empatia, incrementino l’isolamento sociale e l’atomizzazione, e presentino ostacoli enormi per organizzazione una politica di sinistra. Combattere efficacemente le forze omologate del capitalismo necessita infatti un sforzo eroico di solidarietà che sia in grado di andare oltre le differenze politiche e personali. Ma le abitudini comportamentali incoraggiate dai social media rendono questo compito infinitamente più difficile.
La mia personale esperienza può essere riassunta come segue: nulla che abbia sperimentato nell’organizzazione degli spazi offline mi ha mai fatto sentire così demoralizzata come i battibecchi rancorosi interni alla sinistra che ho visto su Twitter e, in misura minore, su Facebook. E nulla che sia mai comparso sui i miei schermi mi ha mai fatto sentire così esaltata, così ispirata dai miei compagni e dalle mie compagne, o così ottimista nei confronti del futuro come quando ascolto un comizio a un picchetto, o mi mescolo alla folla di una manifestazione ben riuscita, o quando giro per strada con il mio collettivo per bussare alle porte del circondario.
Ma è proprio qui che riscontro un problema. Io ho saputo dell’esistenza di Jacobin, di Bernie Sanders e dei Socialisti Democratici d’America (Dsa) da Twitter. Non c’è alcun dubbio che i social media, con tutte le loro innegabili carenze, abbiano aiutato la mia trasformazione politica da liberale con simpatie radicali a socialista. È stato proprio su Twitter che ho iniziato a provare fastidio e insofferenza verso le élite politiche capitaliste, e sempre su Twitter ho trovato un’alternativa politica in grado di dare voce a quell’insofferenza. Questo processo mi ha infine portato ad essere eletta a capo del mio gruppo nei Dsa e a scrivere per Jacobin. Come capita a molte persone nel tetro scenario di resistenza che stiamo vivendo, difficilmente avrei avuto la possibilità di incontrare la lotta di classe nel mio luogo di lavoro o in qualche altra comunità. Non sarei diventata socialista senza i social media.
Quando mi sono sentita pienamente coinvolta nell’attività politica, l’utilità dei social media ha iniziato per me a svanire, e dopo qualche mese di tormentata indecisione ho cancellato il mio account Twitter. La mia vita è migliorata, ma ogni tanto mi chiedo se così non stia perdendo l’opportunità di coinvolgere altre persone. Dopo tutto, sebbene un mondo senza social media debba rimanere un’aspirazione – eventualità che Fong descrive in maniera eloquente e convincente – non è certo il mondo in cui viviamo oggi. Le persone sono costantemente connesse e, visto che la nostra visione politica non è affatto egemonica, queste stesse persone sono costantemente bombardate con contenuti politici contrari ai nostri. Abbiamo di fronte una scelta: o abbandoniamo la sfera dei social ai nostri nemici di classe, oppure proviamo a inondarli della nostra visione politica.
Mi sento dunque di stilare un altro elenco di suggerimenti, costruiti sulle fondamenta gettate da Fong (e che penso non dispiacerebbero nemmeno a lui). Fong sostiene che il problema posto alla sinistra dai social media sia largamente psicologico. Per esempio, le persone si identificano fortemente con i loro profili social, e reagiscono in maniera difensiva, irrazionale, persino patologica quando i loro profili vengono attaccati, perché sono profondamente convinti che sia in ballo la loro immagine e la loro reputazione. Sono anche soliti usare quegli stessi profili per attaccare gli altri, sollecitare discussioni e accumulare capitale sociale, tutte forme di sollievo momentaneo per i costanti sentimenti di isolamento e impotenza. Un accesso di rabbia è ricompensato da una valanga di mipiace, che per un momento stanno lì a fare le veci della solidarietà reale e dell’empowerment.
Tutto questo mi ha fatto pensare: e se riuscissimo a interrompere la correlazione tra il sé e il proprio profilo, a immaginare nuovamente gli account social non come estensioni della propria persona ma come strumenti vitali di propaganda, qualcosa che usiamo e non qualcosa che siamo?
Un modo per farlo è dissociare gli account social dai nostri nomi, dati o assunti, e convogliare le nostre energie nel postare dagli account collettivi. Qualunque giornale socialista o podcast o blog, qualunque collettivo o organizzazione di sinistra dovrebbe avere una presenza attiva su Facebook, Twitter e Instagram – magari persino un canale YouTube, se è ambizioso (in realtà, ci sono molte più persone che usano regolarmente YouTube di Twitter). Gli account collettivi dovrebbero essere sottoposti a un controllo democratico (che non significa meramente orizzontale). Le persone abili nelle conversazioni online e che sono addentro ai processi politici dovrebbero essere investite del mandato di intervenire in conversazioni più ampie, in modo da promuovere la visione politica comune. Altri potrebbero essere incaricati di fare foto e video, o grafiche e meme, e condividerli sugli account come strumenti di propaganda.
Conosco le persone che gestiscono gli account ufficiali dei Dsa; io stessa l’ho fatto. Quando qualcuno dice qualcosa di aggressivo nei commenti, è molto più facile non rispondere rispetto a quando succede a in un account personale. De-personalizzare e strumentalizzare gli account social incoraggia a tenere un comportamento più razionale – senza bisogno di cancellarci da piattaforme importanti per ottenere questo risultato.
Siccome avere troppi cuochi in cucina può essere disastroso, non è che tutti debbano avere accesso agli account social collettivi. Per quelli che non ce l’hanno, rimangono due opzioni che ritengo comunque migliori dell’utilizzo di un account social personale per partecipare alle discussioni online interne al mondo di sinistra che finiscono inevitabilmente in battibecchi.
La prima è simile alla strada degli account collettivi, e cioè un modo di disconnettersi senza necessariamente abbandonare la conversazione: questa opzione prevede sì di cancellare i nostri account, ma contemporaneamente portare le nostre forti opinioni politiche e le capacità argomentative che abbiamo affinato grazie ai social su altri media. Lì possiamo passare il tempo portando avanti discussioni lunghe, misurate e pregne di contenuti per la politica di sinistra che vogliamo vedere rappresentata, anziché tirare frecciatine contro le politiche di sinistra che non ci piacciono. Le sedi per questo tipo di lavoro possono essere un sito o un blog politico, una mailing list o un forum, ad esempio la piattaforma nazionale dei Dsa (oppure per i militanti di International socialist organization la piattaforma Socialist Worker), un blog personale o un podcast, articoli d’opinione o lettere all’editore da mandare a Jacobin stesso o ad altri giornali o siti socialisti, e così via. Se pensiamo che il tipo di strumento di cui abbiamo bisogno ancora non esista, ci vuole davvero poco per crearlo. Possiamo continuare a utilizzare gli account collettivi e i nostri account personali per condividere questo tipo di contributi. Il vantaggio di un approccio simile è che ci fa dare precedenza alle idee anziché alle identità, e allo stesso tempo presenta un rischio minore di innescare violente reazioni tese a difendere la propria reputazione, frutto di quel tipico bisogno narcisistico che guida la maggior parte delle discussioni online.
La seconda opzione prevede di mantenere i nostri account personali ma facendo uno sforzo collettivo per re-immaginarne l’utilizzo. Il neoliberismo si caratterizza per la privatizzazione di ogni sfera della vita, sia che punti a farci sentire responsabili per la nostra stabilità economica senza ricorrere a sostegni pubblici, sia che ci trasformi in imprenditori di noi stessi, ciascuno a fare lo spaccone in competizione con gli altri. Questa iper-individualizzazione è evidente nel modo in cui le persone utilizzano i social: queste sono le mie opinioni, la mia visione politica, il mio brand. Questa mentalità spesso porta a non pensarci due volte a fare a pezzi i compagni e potenzialmente a danneggiare le nostre stesse organizzazioni e movimenti, fintantoché proviamo una soddisfazione individuale nell’affermare un punto di vista e risultare freschi e profumati (o almeno così pensiamo; le lotte intestine spesso puzzano parecchio se viste dal di fuori). Un approccio meno privatistico e neoliberista agli account social consiste nel considerarli uno strumento per l’educazione e la mobilitazione politica collettiva. Se come individui non possiamo proprio fare a meno di continuare a postare, facciamo almeno in modo di promuovere i contenuti che rappresentano al meglio la nostra visione politica – articoli che promuovono la nostra prospettiva o che evidenziano le nostre vittorie, approfondimenti sulla strategia socialista e il futuro delle nostre organizzazioni, grafiche e meme divertenti dai nostri account collettivi, i fantastici video di Bernie Sanders. Proviamo a pensare ai nostri account personali come a strumenti che hanno potenzialmente la stessa funzione e utilità degli account collettivi: non mezzi per l’espressione e la rappresentazione di sé, ma per la persuasione e la promozione politica.
Anche se adottiamo quest’approccio, rischieremo sempre di finire risucchiati, come dice Fong, nel «narcisismo automatico fatto di dichiarazioni pseudo-politiche, dove [diamo] sfogo a quel loop negativo che [ci] allontana dalla realtà di rapporti umani quotidiani». Nella mia esperienza con Twitter resistere a questa tentazione ha consumato più tempo ed energia di quanto fosse ragionevole. Credo che molte altre persone che provano a modificare il loro comportamento online non lo trovino per niente facile.
Non credo che convincerò tutti i miei lettori a cancellare i loro account personali dai social media, ma penso sia comunque utile proporre un paradigma di comportamento differente per chi è perennemente connesso, uno che riesca a elevare lo sforzo collettivo della propaganda politica al di sopra della costruzione invidualistica del proprio brand e capitale sociale (così come un senso della proporzione adeguato, che rimane cosciente di quanto sia piccolo il capitale sociale accumulato individualmente in paragone al più grande obiettivo di costruire un movimento socialista).
Prima di tirare una frecciatina a un compagno o a una compagna con cui siamo in disaccordo, già con l’acquolina in bocca al pensiero dei like e dei retweet che arriveranno, proviamo a chiederci: come appare a qualcuno che guarda dall’esterno e che ha delle simpatie socialiste ma non è ancora totalmente convinto? Forse potrei avanzare la stessa critica, e in maniera più produttiva, cercando e condividendo qualcosa di complesso ed eloquente che sostiene la tesi opposta a quella con cui sono in disaccordo?
Ogni giorno che passa, il mio disgusto per i social media, specialmente Twitter, non fa che crescere. Fong ha ragione quando dice che i social media sono un «pozzo senza fondo per viscidi attacchi personali e sbotti di indignazione paranoica». Ma finché esisteranno, vogliamo che i feed delle persone siano pieni fino all’orlo di meravigliosi e ispirati video elettorali, foto di scioperi e manifestazioni e campagne politiche, discorsi convincenti contro il libero mercato, le privatizzazioni e l’austerity, meme sul cervello-galassia dove l’ultimo stato del cervello cosmico è il socialismo.
I media mainstream, in maniera occasionale – anche se forse sempre più di frequente – mostrano simpatia per la nostra visione politica, ma alla fine le testate giornalistiche di proprietà dei nostri nemici di classe saranno sempre al fianco dei nostri nemici di classe. E i social media continueranno a giocare un ruolo importante nella diffusione delle idee socialiste, come hanno fatto quando la campagna di Bernie Sanders è diventata virale nel 2015.
Dobbiamo dunque camminare su una linea sottile: mantenere una presenza social costante e forte, senza permettere che i social ci atomizzino così come sono pensati per fare. Certo è un compito scivoloso. Non è così semplice come fare a meno di Twitter e Facebook.
*Meagan Day è staff writer di Jacobin. Qui la versione originale dell’articolo uscita su Jacobin Mag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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