I soldi europei non bastano, occorre ripensare la società
I miliardi garantiti dal Recovery Fund rischiano di essere orientati ancora una volta verso «grandi opere» inutili. Ma questa crisi dovrebbe essere l'occasione per investire su transizione ecologica e riduzione dell'orario di lavoro
Occorre diffidare di chi afferma con entusiasmo che la crisi economica nasconda un’opportunità. Sarebbe come se, di fronte alla nostra casa rasa al suolo da un terremoto, ci rallegrassimo perché finalmente abbiamo l’occasione per cambiare i mobili della cucina ormai malandati. Tuttavia, è indubbio che una crisi costringa a ragionare sul che fare e obblighi a non poter più proseguire con il pilota automatico.
La necessità di politiche per rilanciare gli investimenti e riconvertire il modello di sviluppo in una direzione sostenibile dal punto di vista ambientale è evidente, ma tali investimenti non saranno sufficienti. Occorre ripensare in profondità l’organizzazione complessiva della nostra società. La crisi dovuta alla pandemia globale colpisce un’economia italiana già in pesante affanno da anni: sottoccupazione strutturale, crescita e produttività asfittiche, problemi di finanza pubblica, salari bloccati, necessità di una riconversione settoriale e tecnologica. L’Istat ha certificato come ancora nel 2019 il livello degli investimenti sia stato di due punti di Pil inferiore al 2008. Insomma, non ci eravamo ancora ripresi dalla crisi precedente e ci troviamo ad affrontarne un’altra.
Da più parti – con ragione – si è tornati a invocare un ritorno a politiche keynesiane in grado di risollevare gli investimenti e quindi domanda aggregata e occupazione. Il Recovery Fund da questo punto di vista segna una novità a livello europeo rispetto al recente passato. Probabilmente ne è consapevole anche il vicepresidente della Cdu Armin Laschet, il quale, pur negando a parole una svolta nella politica economica da parte della Germania e di Angela Merkel («La cancelliera non ha intrapreso una svolta; ha dato la risposta giusta a una situazione totalmente nuova, una pandemia globale»), si spinge ad affermare che: «Non si tratta di avere aspettative nei confronti di singoli Paesi. Dobbiamo concordare ovviamente dei criteri per distribuire quei soldi. E non devono risolvere vecchi problemi di debito. Si tratta di fare investimenti di lungo respiro nel nostro futuro e nel mercato unico. È nell’interesse di tutti». A questo punto il passaggio che ci interessa è quello che dal piano europeo ci riporta a quello nazionale. Occorre ragionare su quali investimenti abbiamo veramente bisogno per il nostro futuro e su come andranno spesi i miliardi messi in campo a livello europeo. E purtroppo i segnali sono tutt’altro che incoraggianti.
Sembra infatti che nel nostro paese per investimenti in infrastrutture si intenda quasi esclusivamente una cosa: nuove strade. E poco importa se gli ultimi interventi in questo senso siano stati a dir poco fallimentari, dalla Pedemontana Lombarda alla BreBeMi, costate svariati miliardi e perennemente vuote. Sembra che l’Italia attenda solamente la costruzione di nuove autostrade per liberare il grande potenziale di crescita della nostra economia. Come se il New Deal di Roosevelt avesse segnato in maniera talmente profonda il nostro immaginario da farci credere che fare politiche keynesiane significhi realizzare ancora le stesse opere che servivano negli anni Trenta. Purtroppo invece chi semina asfalto raccoglie traffico e con esso consumo di suolo, inquinamento e diseguaglianza. E pazienza se altrove parlare di infrastrutture significhi ragionare su scuole, ferrovie, piste ciclabili e aree verdi. Tutto ciò pare non essere contemplato nel dibattito italiano, se non marginalmente. Non solo, buona parte di queste opere si vorrebbero realizzare seguendo il mitico modello Genova che ha portato al nuovo ponte dopo il crollo del Morandi, che ponendosi l’obiettivo di combattere la burocrazia riduce i controlli sui contratti pubblici e sugli impatti ambientali.
Ma è proprio la logica di dover sbloccare le «grandi opere» a dover essere messa in discussione. Ciò che serve sono invece opere che gli inglesi definirebbero shovel-ready investments: piccole opere in grado di essere attivate con tempestività che permettano di coniugare crescita, sostenibilità ambientale e uguaglianza. Il territorio italiano ha un’enorme necessità di cura, si dovrebbe partire da lì: misure per la messa in sicurezza idrogeologica, edilizia scolastica e popolare nelle grandi città.
Infine, è necessario chiedersi se rilanciare gli investimenti pubblici sia sufficiente per risollevare l’economia del paese e risollevare i numeri sul benessere e l’occupazione. Per rispondere è necessario riflettere sulla vera natura delle nostre crisi. John Maynard Keynes nel 1933 scriveva:
Se la nostra povertà fosse dovuta a carestie, a terremoti o a guerre, se ci mancassero i mezzi materiali e le risorse per produrli, non potremmo sperare di trovare la via della prosperità altrimenti che con il duro lavoro, l’astinenza e le innovazioni tecnologiche. Tuttavia le nostre difficoltà sono evidentemente di altra natura. Scaturiscono da un qualche fallimento delle costruzioni immateriali della mente, dal funzionamento delle motivazioni che dovrebbero spingerci alle decisioni e alle azioni volontarie necessarie a mettere in moto le risorse e i mezzi tecnici di cui già disponiamo.
Siamo abituati a temere la scarsità ma ci troviamo ad affrontare crisi di sovrapproduzione: a mancare non sono le automobili o le case ma chi possa permettersi di comprarle. A questo paradosso Keynes rispondeva con la necessità di utilizzare la spesa pubblica in investimenti per mettere in moto le risorse bloccate, con l’obiettivo di raggiungere la piena occupazione. Tuttavia, dagli anni Trenta del secolo scorso parecchie cose sono cambiate. Già lo stesso Keynes si rendeva conto di come la propria ricetta economica fosse adeguata alla sua epoca, ma si spingeva a prevedere che, nel giro di un centinaio di anni, il problema economico sarebbe potuto essere risolto. Oggi potremmo essere molto vicini a quel momento, nel senso che la capacità del sistema di produrre beni e servizi eccede strutturalmente le capacità di consumo. Ciò però significa che in una società dell’abbondanza ci sia una crescente difficoltà a creare nuovo lavoro socialmente necessario. Questa criticità è uno dei motivi per i quali oggi ci troviamo a riproporre le stesse ricette pensate quasi un secolo fa. Inoltre, a questo problema se ne aggiunge un secondo. Pur volendo ignorare le difficoltà nella creazione di lavoro socialmente necessario, non possiamo aggirare i vincoli che ci impone la crisi ambientale, che ha reso evidente la necessità di un cambio nel modello di sviluppo. Su questo tema la contraddittorietà delle politiche messe in campo è evidente: tutti – o quasi – invocano un’economia verde ma nessuno ha la forza di mettere in discussione il modello di sviluppo seguito fin qui. Il Green New Deal rischia così di rivelarsi il greenwashing dell’ennesimo Sblocca Italia.
Queste due difficoltà fanno ragionevolmente pensare che un ampio piano di investimenti potrebbe non garantire la ripresa occupazionale. Gli investimenti per rispondere alla crisi del Covid-19 devono servire non solo a rimettere in moto l’economia ma soprattutto a riorientare il modello di sviluppo per salvare l’ambiente. Ma l’immensa capacità produttiva che abbiamo raggiunto rischia di far sì che questi interventi non si traducano in nuovo lavoro non uscendo così dalle difficoltà strutturali che incontra la nostra economia. La risposta sta nella redistribuzione del lavoro socialmente necessario. È il tassello mancante per riorganizzare la nostra società e adeguarne le forme alla realtà. Per ripensare la società dobbiamo ridurre l’orario di lavoro a parità di salario, in modo tale che tutti i cittadini abbiano un’occupazione e siano pienamente inclusi nella società. Il lavoro va ridotto, riqualificato e assicurato a tutti e tutte. In una società «fondata sul lavoro» non dovrebbe esserci catastrofe più grave della sua mancanza.
*Giorgio Maran, classe 1985, di Ponte dell’Olio (Piacenza), laureato in Economia all’Università dell’Insubria e Scienze Politiche all’Università di Pavia. Vive a Varese e lavora a Milano nel settore finanziario. Consigliere comunale, attivista politico e sociale, è autore de Il tempo non è denaro – Perché la settimana di 4 giorni è urgente e necessaria.
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