Un movimento che è un mosaico
La rivolta antirazzista che ha infiammato gli Stati uniti esce dai ghetti. Ha una composizione vasta e più articolata delle precedenti lotte. Ed è destinata a mettere in luce la relazione tra razzismo e neoliberismo
Bruno Cartosio, storico dell’America del nord, tra i fondatori delle riviste Primo Maggio, Altreragioni e Acoma, da anni segue il filo dei conflitti e della società statunitense. Con lui discutiamo del movimento palesatosi negli ultimi mesi.
Cominciamo proprio dal numero della rivista Officina Primo Maggio che avete dedicato all’uprising negli Usa. Sergio Bologna conclude la sua postfazione affermando che chi ha continuato ad analizzare i conflitti degli ultimi dieci anni negli Stati uniti non è rimasto sorpreso da quanto avvenuto nelle piazze dopo l’assassinio di George Floyd. In generale sembrate suggerire che quanto sta accadendo sia allo stesso tempo inevitabile conseguenza della complessa storia statunitense, dei cambiamenti del paradigma economico globale e che segnali una forte discontinuità dai movimenti precedenti, mettendo in luce come mai prima la relazione tra razzismo e neoliberismo.
Non c’è dubbio che la conflittualità che si è dispiegata dalla fine di maggio è uno scontro di razza e di classe, nel quale entrano in gioco una serie di elementi che andrebbero esaminati uno per uno. Il dato politico più complessivo è che si tratta di una sollevazione generale e che gli afroamericani sono stati, e in larga parte sono ancora, alla testa di questo movimento. George Floyd il 25 maggio, e tanti altri prima e dopo, fino a Trayford Pellerin e Jacob Blake il 21 e 23 agosto a Lafayette (Louisiana) e Kenosha (Wisconsin), sono stati vittime della ricorrente violenza poliziesca. I neri non sono stati le uniche vittime, sono però i più numerosi e quelli che ora hanno reagito, dando vita a una risposta sui due contemporanei registri della violenza e della non violenza. Questa compresenza ha permesso al movimento afroamericano di coagulare qualcosa di molto più grande di ciò che i soli afroamericani avrebbero potuto mettere in campo. Oggi le valenze e le situazioni sono diverse dal passato: le proteste attuali sono grandi e generali, interrazziali, intergenerazionali, interetniche e hanno una composizione sociale molto diversificata.
L’immediata mobilitazione afroamericana ha offerto la possibilità del coagulo con proteste e movimenti diversi che si erano attivati negli anni della presidenza Trump: il movimento delle donne, i movimenti interni al mondo del lavoro – che comprendono afroamericani, ispanici e una parte di vecchio mondo sindacale ancora esistente – e una parte di mondo giovanile che è sceso in campo a protestare contro le armi e la loro diffusione nella società. Non è stata cosa da poco mettere e tenere insieme un movimento così composito. La sua stessa composizione, non solo le dimensioni, lo rende molto diverso rispetto a movimenti di altri momenti. La prima cosa che viene alla memoria è la diversità dal movimento degli anni Sessanta quando, nonostante anche allora gli afroamericani fossero stati la scintilla iniziale dell’insieme dei movimenti, questi si erano poi divisi e separati l’uno dall’altro. Attraverso dei processi di gemmazione dal movimento afroamericano, che poi aveva avuto le sue evoluzioni interne, era nato tutto il resto, quello studentesco e contro la guerra, quello delle donne e via dicendo. L’unico che aveva avuto un suo percorso autonomo era stato il movimento operaio. Il movimento attuale non è diviso; questa è la novità.
Nel tuo testo su Officina Primo Maggio affermi che «nella rabbia di oggi c’è un condensato di verità storica» e fai riferimento alle parole dell’attivista afroamericana Tamika Mallory e a quelle dell’ex campione di pallacanestro Kareem Abdul-Jabbar sul «pulviscolo del razzismo» che pervade gli Usa. Parole che, su registri diversi, hanno entrambe smontato la retorica su manifestanti buoni e cattivi. Analogamente uno storico del Minnesota, Jeff Kolnick, commentando una protesta di Black Lives Matter presso il Mall of America nel dicembre 2015, insisteva sulla necessità di tenere presente l’intreccio stretto e fatale tra la sorte delle vite dei neri e lo sviluppo della proprietà privata e del commercio negli Usa, a ricordare che non ci sarebbe stata accumulazione capitalistica senza schiavitù. Mentre, parlando di discontinuità, Ferdinando Fasce fa notare che originariamente l’espressione «race riots», tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale, definiva gli attacchi razzisti dei bianchi contro i quartieri neri, e che solo nel secondo dopoguerra diventa riot dei neri, ma confinato nei loro stessi quartieri, e ha poco a che vedere con le proteste odierne che sciamano nelle downtown delle città.
È facile, quando vedi o leggi di saccheggi dei negozi, dire «questo non va bene». Se lo fai hai ragione, dice Kareem Abdul Jabbar, ma hai anche torto. È necessario un ragionamento più articolato ed è comunque più importante il fatto che questo movimento è enorme e soprattutto uscito dai ghetti delle città dell’est e dell’ovest, del sud e del nord, e con quelle caratteristiche di mosaico. Di mosaico che contiene un disegno.
Il pulviscolo a cui si riferisce Kareem viene dal pregiudizio razziale che ha determinato i caratteri di fondo del mondo coloniale inglese e poi della società statunitense. È stato scritto che gli Stati uniti sono stati per due secoli uno stato razzista e schiavista, per un secolo uno stato dell’apartheid e solo negli ultimi decenni hanno conosciuto qualcosa di diverso. È il passato che non passa, il deposito che questo passato ha lasciato nella cultura, nelle istituzioni, nella vita sociale. E il raggio di sole che fa vedere il pulviscolo è il conflitto, la sollevazione che mette in crisi questo stato di cose, in cui la polizia che spara e uccide è la norma, non l’eccezione. Ed è norma che spari e uccida soprattutto gli appartenenti alle minoranze, e tra queste soprattutto gli afroamericani.
Una mobilitazione di straordinaria partecipazione democratica ha messo in luce quanto razzismo c’è ancora nell’aria degli Stati uniti. Lo avevano fatto tanti altri episodi, naturalmente. Tra questi, vale la pena ricordare il polverone sollevato dalla reazione della società razziale all’elezione del primo presidente afroamericano: molti, troppi hanno considerato un’offesa il fatto che un nero potesse arrivare tanto in alto. Poi l’elezione di Trump, un demagogo profondamente insensibile ai problemi e alla realtà della società statunitense, che ha giocato sui sentimenti razzisti contro Obama e li ha attizzati, rafforzando tutte le possibili destre – razziste, sessiste, culturali – presenti da sempre, anche se ormai minoritarie, nella società statunitense. E infine il razzismo delle uccisioni di neri, due volte e mezza più frequenti di quelle dei bianchi.
Ora, i neri hanno reagito, come altre volte, alle violenze poliziesche. E all’impoverimento drammatico degli ultimi anni, alla crescita spaventosa delle disuguaglianze prodotta dall’economia politica del neoliberismo, si sono sommati gli ulteriori drammi causati dalla pandemia. La loro confluenza ha infine aperto nella società statunitense una conflittualità dispiegata, diffusa non solo nelle città e nei ghetti, con i neri alla testa.
Concludi il tuo pezzo su Officina Primo Maggio affermando che «in prima linea nelle azioni di fuoco sono i più giovani, ma come in tutte le resistenze i meno giovani sono il retroterra necessario per dare peso politico, fare coalizione e tenere la barra del movimento». C’è un interessante racconto e analisi collettiva dell’assedio del terzo distretto di polizia di Minneapolis, concluso con l’incendio dell’edificio e la fuga degli agenti, che interpreta questa coalizione come un vero e proprio metodo. Quei tre giorni di azioni che hanno preceduto l’incendio sembrano aver coalizzato quella prima linea – perlopiù appunto di giovani non affiliati a nessuna organizzazione pre-esistente – con i settori più tradizionali del movimento, suggerendo l’idea che quanto accaduto abbia anteposto l’idea di «composizione» a quella delle «diversità di tattiche» utilizzata a suo tempo dal movimento no-global.
Dal punto di vista storico, se dovessi paragonare questi aspetti di forma e contenuto con due esperienze del passato, pensi alla dialettica su violenza e non violenza tra Martin Luther King e Malcolm X, che si riflette poi anche nel contesto del Black Power e nelle Black Panthers in bilico tra programmi di assistenza nei quartieri e il prendere le armi per l’autodifesa, o a quanto accadde nel 1992 dopo l’assassinio di Rodney King, dove invece l’aspetto di un’agenda politica era assente e il solo spazio praticabile fu quello del riot?
La storia cambia. La storia è storia proprio perché azioni apparentemente simili hanno in sé contenuti, motivazioni, svolgimenti ed effetti diversi. L’innesco è sempre la violenza della polizia. La comunità nera, a un certo punto, non ne può più e reagisce. Accadde con le sollevazioni urbane della seconda metà degli anni Sessanta, poi nel caso di Rodney King, e accade oggi, ma il contesto, gli effetti e la lettura degli avvenimenti è diversa. Non è il caso di rifare tutta questa storia però, richiamando proprio i temi classici delle due anime che hanno attraversato da sempre la comunità nera – da Booker T. Washington e W.E.B. Du Bois, a Martin Luther King e Malcolm X, alla realtà odierna – queste due anime sono sempre compresenti, non sono mai soltanto l’una o l’altra, ma a seconda dei momenti e delle situazioni prevale l’una o l’altra. Malcolm X alla fine dice che quelli che fanno le lotte per i diritti civili hanno un fegato da leone e Martin Luther King alla fine dice che in fondo quelli del Black Power hanno le loro ragioni.
Chi ha dato l’assalto ai magazzini Target a Minneapolis? Chi ha dato fuoco a Wendy’s ad Atlanta dopo l’uccisione di Rayshard Brooks? Chi ha risposto a Lafayette e Kenosha? Sono i giovani, non necessariamente organizzati. Ma ognuna di quelle azioni dura alcuni giorni, e poi inevitabilmente la curva si abbassa. Quel tipo di fiammata si spegne, o resta a covare sotto la cenere pronta a tornare fuori, come è stato il caso di Atlanta dopo che la protesta violenta e il fuoco erano già diminuiti dopo Minneapolis. È stato così a Lafayette e Kenosha. E succederà ancora altrove. Ma è il grande movimento di seconda linea che può avere peso politico, impedire che le risposte violente siano isolate e liquidate come criminali, come ha fatto Trump, e imporre con forza il significato profondo della mobilitazione e della sollevazione.
Black Lives Matter nasce durante la presidenza Obama, che lascia irrisolte questioni che oggi con Trump diventano esplosive. Biden parte da posizioni ancora più moderate. E la stessa vicenda di Minneapolis, dove le diseguaglianze tra bianchi e neri sono addirittura maggiori che nel resto del paese malgrado, più che altrove, i proventi delle tasse vengano investiti in alloggi e servizi per i ceti popolari, smentisce l’approccio secondo cui sarebbero sufficienti politiche progressiste per risolvere razzismo e diseguaglianze. Sorge il dubbio che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel modo in cui la politica statunitense interpreta la realtà.
Non so se sbagliano tutti, e tutti allo stesso modo. Le contraddizioni sono profonde e non basta essere progressisti. Ad esempio, le politiche progressiste e antirazziste di Lyndon Johnson non impedirono le rivolte metropolitane degli anni Sessanta. Vanno dipanati alcuni fili.
I movimenti che semplificando chiamiamo «violenti» hanno capacità di attrazione momentanea, ma la loro capacità di coinvolgimento duraturo sul piano della partecipazione e della condivisione politica è minoritaria, in particolare se è un movimento violento di afroamericani. C’è già il pulviscolo razzista che li avvolge, se poi sono anche violenti le loro possibilità di successo sono pari a zero. Come dicevo, nella situazione odierna il movimento afroamericano è egemone perché sono diventate egemoni le sue ragioni e la mobilitazione dei neri ha coagulato istanze diverse. Bisogna che duri.
Secondo punto: a novembre ci saranno le elezioni, che sono un fatto che riguarda la società e la politica. Ma la società statunitense è fatta di gente che a votare non ci va. O meglio: al vertice della piramide sociale la percentuale delle persone che oggi va a votare è molto alta, tra l’80 e il 90%, ma la base della piramide è fatta di persone che vanno a votare al 40%. E così il Congresso degli Stati uniti è composto in maggioranza da ricchi, e i ricchi, votati ed eletti da altri ricchi, le leggi le fanno per sé, non per i poveri, non per le donne, non per i ragazzi. La sollevazione attuale tocca questioni che mettono la politica di fronte ai propri comportamenti sul piano legislativo, ma non influenza direttamente e immediatamente la politica (se non sul piano amministrativo: processare i responsabili; riformare le polizie locali ecc.). Tuttavia, se qualche possibilità di incidere sulla politica ci può essere, può venire soltanto dal perdurare del peso esercitabile da un movimento come questo, di massa e a più voci.
Terzo punto: il progressista Obama non è riuscito a risolvere i problemi sociali in parte per sua incapacità, in parte per l’andamento della politica. Dopo i primi due anni si è trovato un Congresso prima diviso e poi a maggioranza repubblicana. E i repubblicani, un partito di destra sempre più estrema e pericolosa, hanno impedito ogni iniziativa di riforma.
Infine, la caratteristica fondamentale degli Stati uniti degli ultimi cinquant’anni è la crescente capacità del grande capitale e della finanza di influenzare la politica. Nella crisi del 2008, Obama ha adottato politiche di sostegno a disoccupati, famiglie e lavoratori, ma soprattutto ha salvato le élites di Wall Street e delle grandi società capitalistiche. A partire da lì la recessione – durata più o meno due anni negli Stati uniti e più a lungo altrove – è stata «risolta» dal grande capitale con l’impoverimento crescente del mondo del lavoro e l’arricchimento crescente del 10% della popolazione e, al suo interno, dell’1% straricco (l’1% ai danni del 99%, diceva Occupy Wall Street nel 2011).
Il movimento attuale è partito dai più deboli socialmente e culturalmente, dai più emarginati, e ha prodotto una sollevazione mobilitando le componenti non reazionarie della società. Riuscirà a tradursi in iniziativa politica di cambiamento? E in quanto tempo?
Il capitalismo neoliberale, le cui contraddizioni sono ora esplose in tutto il mondo, si è affermato a partire dagli anni Ottanta; quanto tempo ci è voluto prima di arrivare a questo punto. Molto raramente i cambiamenti strutturali sono repentini. Le mobilitazioni e le rivendicazioni per il diritto di voto e contro la segregazione erano iniziate negli anni Cinquanta, ma le leggi per i diritti civili sono arrivate nel 1964-65. Dalla crisi del 2008 è trascorso un decennio e questa sollevazione è il frutto di quanto è successo allora, dei poveri che sono diventati più poveri e dell’impoverimento della classe media. Una parte della classe media impoverita, maschile e bianca in particolare, è incazzata, ha svoltato a destra e ha votato per Trump, ma una parte, pure incazzata, ha visto ora la possibilità di fare un fronte comune e aprire un conflitto contro di lui e questo modello di società.
Va detto che in giro per il mondo non abbiamo aperture di antagonismo e sollevazioni di questa portata. Ma gli Stati uniti sono spesso alla testa, nel bene e nel male. Speriamo che questa sollevazione riesca ad allargare la conflittualità nei confronti di questo neoliberismo che ha fatto tutto il male che poteva fare, e ha mostrato tutte le contraddizioni e debolezze che ha al proprio interno. È ora di approfondirne la crisi, è ora di farlo saltare per aria. Ci riusciranno? Ci riusciremo?
La mia domanda è soprattutto riferita a quell’idea di «composizione» del movimento, anziché di «mosaico di diversità», che mi sembra rimuovere l’equivoco sulle forme di lotta, mentre ci spinge a ragionare sull’aspetto dell’organizzazione e non limitatamente all’orizzonte elettorale, né solo allo scenario statunitense.
In questo mondo l’aspetto politico è comunque importante e le elezioni sono importanti. Anche se le regole di comportamento dell’economia non le detta la politica (né Obama, né Trump), ma quel capitale di cui siamo vittime. La sua crisi è strutturale, dicono Immanuel Wallerstein, Wolfgang Streeck e altri. Le élites capitalistiche, ha scritto Wallerstein, sono consapevoli della propria crisi e cercano di «accaparrarsi tutto quello che possono finché possono». Creano situazioni lavorative che tendenzialmente vanno verso il lavoro a salario zero e a zero diritti, non solo negli Stati uniti, ma a livello mondiale. Il lavoratore povero, saltuario, occasionale, falsamente autonomo, della gig economy sta nella stessa situazione dappertutto. Ma anche comunica con i propri simili, a cominciare dalla condivisione degli stessi veicoli informatici attraverso cui circola il dominio dei capitalisti. Hanno creato loro la possibilità di connessioni tra moltitudini di persone e gruppi – non uso il termine «moltitudine» nella valenza che gli hanno dato Toni Negri e Michael Hardt – lontani tra loro fisicamente, ma aperti a condividere idee e strategie. E sanno che per loro questo è un pericolo, perché attraverso la rete passano le convocazioni delle manifestazioni a livello metropolitano, nazionale e internazionale. Senza la rete questa stessa sollevazione, le grandi manifestazioni delle donne e molte altre negli anni precedenti non ci sarebbero state. Il rischio più prossimo, però, è che nella «società della sorveglianza» in cui siamo sempre più immersi, nuove possibilità di controllo vengano usate da loro contro di noi.
L’etichetta «Antifa», lo spauracchio agitato da Trump durante le mobilitazioni degli afroamericani, è per noi solo in parte comprensibile dal momento che l’antifascismo ha assunto in Italia i tratti di un dogma istituzionale. Ferdinando Fasce spiega come l’antifascismo per gli afroamericani fosse invece, a ridosso della Seconda guerra mondiale, richiesta di una «doppia vittoria», sul nazifascismo ma anche sul fronte interno dei diritti per le minoranze. Come spieghi l’utilizzo di Trump di questa etichetta?
C’è stata una lunga discussione sul fascismo di Trump, di cui ho tentato di dare conto nel mio ultimo libro, Dollari e no. Delle prassi fasciste Trump condivide diversi tratti, dall’autoritarismo alla violenza verbale, al sessismo, al machismo, al razzismo. È stato definito fascista, o «fascistoide». Anacronismi storici a parte, il suo non è il fascismo storico, è piuttosto un fascismo dell’animo e dei modi, perché Trump è un ignorante, privo di conoscenza politica e coerenza ideologica. Poi, essendo reazionaria una larga parte del movimento che lo sostiene – abbiamo anche visto manifestazioni di armati in tuta mimetica che manifestavano contro le mascherine antivirus e che inneggiavano contro gli «antifascisti» – nella discussione pubblica altri hanno immesso connotati ideologici di qualche coerenza, da Steve Bannon a Steve Miller e altri. Trump è uno che ha bisogno di un nemico. Sul piano esterno è la Cina. Su quello interno fa diventare un nemico generale «Antifa», un contenitore in cui mette di tutto, dalle donne che lo denunciano come sessista a Black Lives Matter, a chi protesta contro la proliferazione delle armi. Quelli che di volta in volta sono contro la sua politica diventano tutti «Antifa» e nemici, e l’etichetta serve a far intervenire, come a Portland, in Oregon, le truppe scelte federali, macchine repressive che agiscono in modi semiclandestini e che assomigliano più a degli squadroni della morte che a dei poliziotti.
Riguardo alla questione dell’abbattimento dei monumenti, la mia impressione è che venga manipolata. Il punto non è se sia o meno corretto l’abbattimento di una statua o il cambiamento del nome di una via, ma il processo di revisione storica porta a intraprendere una rivisitazione di manufatti e simboli storici che dovrebbero trasmettere la memoria degli eventi. Da storico come valuti questo aspetto emerso con le manifestazioni di Black Lives Matter e la sua rilevanza al di là dell’aspetto simbolico?
Una parte degli abbattimenti sono discutibili e quindi anche manipolabili. Sono una testimonianza, a volte superficiale, della reattività di questo movimento e della sua direi quasi aspirazione alla radicalità; ovvero: siamo qui per fare piazza pulita, facciamo piazza pulita. Anche in questo si intuisce l’egemonia del movimento afroamericano, perché dall’interno delle comunità e delle organizzazioni afroamericane la protesta contro i segni e simboli e simulacri della confederazione sudista e razzista è in atto da decenni.
Per quanto riguarda i neri il discorso non è la cancellazione della schiavitù dalla storia (anzi, tant’è vero che continua anche la richiesta di risarcimento da parte dello stato schiavista), ma la cancellazione dei simboli, che per il solo fatto di esistere oggi legittimano quella storia e quel periodo e i suoi sedimenti. Quello che va delegittimato è l’elogio di schiavitù e schiavisti. Non si può cancellare la memoria; le memorie sono divise e si lasci che rimangano divise. Ma la storia deve essere ricostruita in modo tale da contenere la schiavitù e la protesta contro la schiavitù, la segregazione e la richiesta di cancellazione della segregazione e dei suoi segni e simboli.
Adesso un po’ tutto è andato insieme, il generale Lee, Cristoforo Colombo e Kit Carson sono finiti nello stesso calderone. Il che testimonia delle voci diverse presenti in questo movimento composito, ma anche i limiti nella sua capacità di elaborazione critica. Limiti inevitabili, nell’immediato. Un movimento agisce contro obiettivi polemici, non produce critica storica, se non nel tempo. Comunque, va considerato che dalla fine dell’Ottocento e poi dagli anni Venti e Trenta del Novecento, all’inizio e dopo la grande ondata dell’immigrazione negli Stati uniti, quando sono entrati venticinque milioni di immigrati, era stata una scelta politica deliberata quella di esporre bandiere e di costruire monumenti attorno a cui far convergere l’attenzione di quelli che statunitensi non erano. Per dire loro: guardate che gli eroi dell’America sono questi e a loro dovete rendere onore. Questi sono i portatori dei nostri valori, e se volete restare quei valori devono diventare i vostri. Il particolare non trascurabile è che la maggior parte dei monumenti e dei simulacri legati alla schiavitù e alla Confederazione è stata eretta e messa in circolazione negli anni Venti e Trenta. Nel 1925 il Ku Klux Klan aveva il doppio degli aderenti dell’intero mondo sindacale, sfilava apertamente nelle strade e c’erano governatori, come quelli del Colorado, che era un capo del Klan. Allora la valorizzazione dei simulacri della Confederazione era legata alla valorizzazione di quei simboli, di quei valori. E non è un caso né che dopo di allora la loro prima rivitalizzazione sia avvenuta in coincidenza con le lotte contro la segregazione razziale e per i diritti civili, né che la loro difesa abbia suscitato resistenze così accese nell’era Trump.
*Andrea Olivieri è ricercatore e lavoratore culturale freelance. Ha scritto Una cosa oscura, senza pregio (Alegre Quinto tipo, 2019). Bruno Cartosio ha insegnato storia dell’America del Nord all’Università di Bergamo. Il suo ultimo libro è Dollari e no (DeriveApprodi, 2020).
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