La mano visibile
Sia in termini sanitari che strettamente economici, lo stato è tornato a essere centrale. Ma soltanto per soccorrere il mercato, rendendo sopportabili i suoi limiti intrinseci
La virulenza della crisi economica, conseguenza di quella pandemica, ha messo in evidenza, semmai la crisi finanziaria del 2008-2012 non fosse stata sufficiente, la mancata autosufficienza dei meccanismi di mercato. I blocchi produttivi prima e quelli sociali dopo hanno lasciato all’asciutto interi settori di popolazione a livello globale. Al contempo i vari sistemi sanitari si sono rivelati inadeguati a fronteggiare una pandemia che da tempo veniva temuta dagli studiosi maggiormente accorti. I vari casi di Sars, Ebola, influenza suina nel loro rimanere circoscritti ad alcune aree di mondo non occidentale avevano illuso che anche questa volta fossimo di fronte a un problema dalle dimensioni circoscritte. Questa crisi, invece, ha prodotto un segno negativo nella crescita economica a livello mondiale, cosa che non era accaduta neppure nel 2009 (quando i principali paesi asiatici avevano compensato i dati di quelli occidentali). Da lì sostegni pubblici e ristori diffusi ai soggetti più colpiti, ma anche investimenti per ammodernare infrastrutture materiali e immateriali con l’intento di abbozzare una trasformazione degli assetti economico-produttivi tale da rendere il sistema più resiliente (parola assurta a significato quasi magico-esoterico) e adeguato alle contraddizioni della nuova contemporaneità.
Sia in termini sanitari sia in quelli strettamente economici, lo stato è tornato a essere centrale. Questo è un dato incontrovertibile. Pochi sono disposti a negarlo. Il programma europeo Next Generation Eu e gli annunci inediti della presidenza Biden negli Usa lasciavano intendere che potesse aprirsi una fase parzialmente nuova nelle politiche economiche dei paesi occidentali. Non foss’altro per l’entità delle risorse messe in campo dalla sfera pubblica attraverso piani di indebitamento e/o a fondo perduto. Basti pensare che il programma Next Generation consiste in 750 miliardi di euro per i paesi aderenti, mentre il famigerato Piano Marshall a valori correnti equivaleva a soli 140 miliardi di dollari. Negli Usa l’investimento straordinario per fronteggiare la pandemia è stato complessivamente pari a circa 5.000 miliardi di dollari, una cifra cinque volte superiore a quella del Vecchio continente. Per la Cina misurare il grado di impegno per fronteggiare la crisi pandemica è obiettivamente più complesso dato che i recenti ritmi di indebitamento sono stati a dir poco forsennati, se si considera che negli ultimi vent’anni l’indebitamento complessivo di Pechino (cioè privato e pubblico) su scala globale è passato dal 3 al 21%, secondo solo al dato statunitense (28%). Cioè l’indebitamento dell’economia cinese ha avuto un incremento medio annuale di circa il 18%. Nel solo 2020 gli investimenti pubblici sono aumentati del 15%. Insomma in Cina il ruolo dello stato si può dire che sia centrale e certo non dall’avvento del Covid-19.
Se possiamo leggere un certo riallineamento nei tassi di spesa pubblica a livello globale, ciò non va frainteso con una sorta di rivincita su scala generalizzata della mano visibile di un capitalismo politico di impronta asiatica. Ad oggi le modalità con cui i principali paesi occidentali fronteggiano la crisi pandemica non scimmiottano il modello cinese né resuscitano un modello di tipo neokeynesiano. Esisterebbero spinte in quest’ultima direzione, ma attualmente sembrano nuovamente messe all’angolo. Negli Usa il potenziale innovatore di Biden appare in ritirata, non sembra vi sia seguito agli annunci per aumentare le tasse alle imprese mentre vengono approvate esenzioni fiscali ai cittadini a reddito medio-alto, lo stesso programma Building Back Better (ricostruire meglio) rischia di impantanarsi nelle secche dei veti incrociati parlamentari tra repubblicani e democratici e persino all’interno di quest’ultimi. In Europa riparte il dibattito su come riattualizzare il Patto di stabilità, come rimodulare vincoli di bilancio e come riportare nell’alveo delle responsabilità nazionali i debiti realizzati in questi ultimi due anni. Certo resta in campo la prospettiva degli eurobond, sulla scorta del programma Next Generation, come resta per ora lontana l’ipotesi di un ritorno a politiche austeritarie tout court, in quanto il balzo medio di 20 punti percentuali del debito sovrano dei principali paesi ha reso di fatto non solo inapplicabile, ma aleatorio il vincolo del 60% tra debito e Pil nazionale. L’impressione, però, è che lo scarto dalle impostazioni passate non sarà particolarmente consistente. Cioè mancherà una corrispondenza tra impegno finanziario profuso dagli Stati e loro ruolo nella gestione e persino nell’indirizzo di tali risorse.
L’unica vera novità, dunque, è che all’occorrenza lo Stato deve soccorrere il mercato, rendendo sopportabili i suoi limiti intrinseci. All’insegna di un assoluto pragmatismo, lo Stato continuerà a essere utile, la pressione fiscale complessiva dovrà rimanere elevata, anche se cambierà il contributo dei vari attori sociali sottoposti al prelievo fiscale. Tutto ciò proprio per dare risorse minime e agibilità allo Stato e rendere affidabile il suo indebitamento.
Un saggio dello storico Quinn Slobodian recentemente pubblicato anche in italiano,Globalists. La fine dell’Impero e la nascita del neoliberismo (Meltemi 2021), ci aiuta a comprendere le radici della teoria neoliberale, una teoria non semplicemente sovrapponibile a una sorta di fondamentalismo di mercato. In realtà il pensiero neoliberale ha origini più complesse. Il neoliberalismo che Slobodian mette in evidenza è innanzitutto quello di marca continentale, in particolare quello che prende le mosse a partire dalla fine dell’Ottocento dalla cosiddetta scuola di Ginevra, la quale incontrerà autori come Mises e Hayek e altri Circoli come quelli di Vienna o Friburgo, dando luogo a un filone non di matrice anglosassone del liberalismo.
La stessa definizione di neoliberalismo utilizzata nel testo (e non neoliberismo), se da un lato può costituire la letterale traduzione dell’unico termine esistente in inglese di neoliberalism, dall’altro potrebbe risultare più precisa nel porre maggiormente l’accento proprio sulla dimensione politica della centralità di mercato. La traduzione italiana in neoliberismo, da sempre apparsa più aderente, invece poneva l’accento sulla preminenza dell’economia e del mercato in strictu senso.
Il neoliberalismo continentale, per molti versi, è oggi di maggiore attualità e interesse, proprio perché fin da subito fu costretto a fare i conti con le ristrettezze dei mercati europei e non con le dimensioni quasi infinite presenti nel continente nordamericano. Se in quest’ultimo veniva posta con determinazione al centro la libertà di iniziativa e di conseguenza la forza prevalente dell’impresa, nella vecchia Europa il liberalismo si poneva il problema del limite. Il vecchio impero anglosassone era in via di dismissione, quello statunitense stava diventando più che un impero una potenza economica. I liberisti europei, dunque, si ponevano problemi di regolamentazione dei mercati, della loro sovranità. La politica di potenza a stelle e strisce, invece, rivolgeva il proprio sguardo principalmente al proprio interno, al suo sterminato mercato. Era la potenza del mercato a determinare lo svolgere dei fatti economici. Il mercato era inteso come autosufficiente. Non venivano sollevati problemi di natura internazionale. Ciò che valeva per l’America doveva valere per tutti. America first non è certo un’invenzione trumpiana.
Interessante, invece, come il neoliberismo economico continentale presupponga debolezze e limiti del mercato e a queste si rapporti per predisporre un progetto politico-economico, un progetto che deve avere un respiro internazionale, ove vanno escluse barriere doganali e il capitale deve avere diritto di movimento. Al centro non è il mercato, il programma neoliberale, per dirla con Slobodian, «è incentrato sulla progettazione di istituzioni finalizzate non a liberare i mercati, bensì a ‘metterli al riparo’». Si tratta di costruire contenitori protettivi per isolare i mercati da istanze politiche e sociali, specie se provengono spontaneamente dal basso. L’ambizione è quella di riprogettare leggi e istituzioni allo scopo di proteggere il mercato, di creare un ambiente regolatorio che ne garantisca l’agibilità. Il progetto neoliberale è inteso come «un simultaneo restringere e riallargare le funzioni dello Stato». In questo senso il mercato non è un fattore naturale, ma il prodotto di una costruzione politica delle istituzioni che intendono proteggerlo. Come spesso accade, il punto di vista più debole e marginale delle scuole neoliberali dei primi decenni del secolo scorso emerge in tutta la sua attualità oggi, nella sua maggiore aderenza alla realtà contemporanea. Il suo realismo ne fa un progetto per i nostri tempi. Il suo pragmatismo diventa ora la bussola di quel progetto.
Il neoliberalismo sembra, infatti, tornare in sella dopo lo sconquasso della pandemia e a crisi neppure lontanamente risolta. Il suo ritorno in termini egemonici è carsico e ciclico. Anche nel pieno dell’ultima grande crisi finanziaria era sembrato possibile almeno uno scarto di paradigma, ma poi progressivamente quest’alternativa, per quanto modesta, ha esaurito la spinta. Ne vediamo i segni in Italia con il governo Draghi e il livello di consenso che ha attorno. Il suo programma non è semplicemente una riesumazione del passato. L’attuale governance è all’insegna del pragmatismo e della duttilità. Il debito buono versus quello cattivo, l’interventismo pubblico per arginare gli effetti più gravi della pandemia sulla salute e sull’economia, fanno sgocciolare in maniera più consistente risorse, ma senza predisporre un effettivo piano per un rilancio della sanità pubblica o dei trasporti e della scuola. Lo Stato ritorna nella produzione di acciaio e nella Compagnia aerea di bandiera, ma contestualmente predispone un decreto sulla liberalizzazione dei servizi a partire da quelli del trasporto locale, rendendo sempre più complicato mantenere in capo alle amministrazioni servizi di natura essenziale. A fronte di un deciso indebitamento pubblico sarebbe auspicabile una riforma fiscale all’insegna di una reale progressione, ma tale orizzonte resta un vero e proprio tabù, con un’alzata di scudi persino contro le proposte più minimaliste e simboliche di far pagare, o non far risparmiare, chi più ha. Persino il dibattito sul caro energia, risultante di dinamiche geopolitiche, ma in ultima istanza frutto anche di una regolamentazione tra domanda e offerta, rischia semplicemente di esser fronteggiato con un soccorso della mano pubblica. Il mercato detta i suoi prezzi e per renderli più sopportabili lo stato interviene a calmierarli in maniera indistinta, mettendo sullo stesso piano indigenti e benestanti, piccole e grandi imprese. Monopoli e vittime della concorrenza.
Queste sono le modalità con cui si protegge il mercato da sé stesso mediante lo Stato. Nessuno smantellamento, ma una trasformazione per renderlo attivo nel governo dell’economia di mercato. Questo è il progetto neoliberale con cui dovremo fare i conti in futuro.
*Marco Bertorello collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011).
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